Così non è (se vi pare), cari indignati della riforma elettorale

In questo mondo alla rovescia che è diventata l’Italia, per quanto non sola, a dire il vero, basta rivoltare anche il titolo di una delle più celebri opere di Luigi Pirandello, peraltro nel centesimo anniversario della sua prima rappresentazione, per dare l’idea delle tante sciocchezze e falsità gridate nelle piazze più o meno pulite attorno alla Camera, e ripetute da sofferenti intellettuali a parole e per iscritto, mentre i deputati si apprestavano ad approvare con 375 voti favorevoli e 215 contrari, a scrutinio inevitabilmente segreto, la nuova legge elettorale. Che, se approvata anche al Senato, forse in questo stesso mese, consentirà quanto meno di andare alle urne, alla scadenza ordinaria della legislatura, senza la vergogna di un Parlamento   rassegnato per ignavia a lasciare la maternità delle regole alla Corte Costituzionale, anziché alle assemblee elette dai cittadini proprio per fare le leggi.

“Così è (se vi pare)”, titolava la sua opera Pirandello. “Così non è (se vi pare”, mi son detto sentendo dire in televisione dal salottiere di turno che il voto della Camera “ha spaccato il Paese”. E  leggendo il solito, immaginifico titolo del Manifesto sulla “Camera ardente”: ardente di rabbia e di lacrime per la cara estinta, che sarebbe naturalmente la democrazia.

Ma spaccata da chi e da che cosa, l’Italia? E uccisa da chi, la democrazia? I sì dei deputati sono prevalsi sui no di ben 160 voti, non di uno o due, o di dieci. E quanto ai cosiddetti franchi tiratori, a chi cioè ha votato contro le direttive dei rispettivi gruppi, dagli originari settanta, gridati dagli sconfitti, si è rapidamente passati a una quarantina , un po’ più della metà, quando cronisti pur contrari alla riforma elettorale nota come Rosatellum hanno onestamente rifatto i conti e avvisato gli amici che bisognava tener conto anche degli assenti giustificati perché in missione o altra causa. Ma figurati se gli amici avevano voglia di ragionare, presi piuttosto dallo spettacolo televisivo francamente incredibile di un Pier Luigi Berlusconi, involontariamente travestito da Lenin con quella calvizie, che aveva gli occhi lucidi di rabbia o di dolore ma al tempo stesso rideva compiaciuto del male che dicevano della nuova legge, fra gli altri, il sempre schifato Massimo Cacciari e quel sornione di Paolo Mieli. Che non ho capito bene, essendogli amico, se ci fosse o ci facesse liquidando la riforma come un agguato indecente ai grillini, destinati ad essere sopraffatti, perché soli nella corsa alla maggioranza, da avversari destinati, a loro volta, ad essere “sovrarappresentati” per effetto delle coalizioni che saranno in grado di realizzare col combinato disposto dei collegi uninominali e di più listini proporzionali collegati.

Ma, caro Paolo, ti sei accorto che la nuova legge non contiene alcun premio di maggioranza, neppure quello lasciato dalla Corte Costituzionale alla lista votata dal 40 per cento degli elettori recatisi alle urne? Senza premio di maggioranza, come si fa a parlare di partiti sovrarappresentati, appunto, peraltro di maggioranza e di opposizione, essendo stata la legge approvata da uno schieramento largo e trasversale ?

Smettiamola infine di parlare e di scrivere dei grillini  e della loro solitudine, intesa come partito che si presenta da solo, come vittime indifese della loro ingenuità o purezza. La loro non è né ingenuità né purezza. Il loro è un calcolo, un modo opportunistico di essere o di proporsi. Essi corrono da soli ritenendo che proprio perché soli, e quindi incontaminati e incontaminabili, possano raccogliere più consensi dagli elettori invitati da Grillo a votare “più con la pancia che con la ragione”.

Con questa storia del correre da soli e vincere lo stesso, o proprio per questo, i grillini sono riusciti a conquistare -si fa per dire- città come Roma e Torino, ma grazie al ballottaggio.  Che la legge elettorale voluta da Renzi e chiamata  Italicum previde anche a livello nazionale, nel cosiddetto combinato disposto con la riforma costituzionale. Ma prima i grillini concorsero a bocciare la riforma costituzionale nel referendum del 4 dicembre dell’anno scorso, e poi la Corte Costituzionale decapitò l’Italicum proprio del ballottaggio.

Appartiene infine all’elenco del “Così non è (se vi pare)” l’argomento apparentemente astuto del bersaniano di turno contro un Renzi che avrebbe obbligato Paolo Gentiloni a mettere la questione di fiducia sulla nuova legge elettorale più per danneggiarne l’immagine, vista la popolarità guadagnatasi dal conte come presidente del Consiglio, che per accelerare e blindare il percorso parlamentare della riforma. L’argomento fa il torto alla vittima Gentiloni di considerarlo un cretino.

 

 

 

 

Ripreso da www.formiche.net col titolo: Fatti e frottole sulla nuova legge elettorale  

Napolitano, come Sonnino nel 1897 con lo Statuto Albertino, inforca la Costituzione

Non vorrei rimediare, sia pure amichevolmente, il bastone di Giorgio Napolitano in testa ma la sua sortita contro la riforma elettorale in uscita dal Parlamento, salvo incidenti, per l’equivoca illusione che continuerebbe a ingenerare nei cittadini di eleggere il governo, oltre al Parlamento, mi riporta con la memoria storica a un uomo politico per niente di sinistra come lui: Sidney Sonnino. Che, già ministro del Re per la destra ma destinato a diventare anche presidente del Consiglio, lanciò nel 1897 il famoso invito a “tornare allo Statuto”, quello Albertino allora in vigore ma secondo lui disatteso dai governi che ritenevano di dipendere non dal Sovrano, come lo Statuto appunto voleva, ma dal Parlamento, o dai suoi “giochi”, come Sonnino li chiamava assai polemicamente.

“Sidney Napolitano”, lo chiamerebbe Marco Travaglio con quella mania che ha di storpiare i nomi a chi non gli piace, come ha fatto di recente chiamando Forlano il povero Pisapia, responsabile di avere difeso da “ipergarantista” l’ex segretario della Dc Forlani nei processi sul finanziamento illegale dei partiti di 25 anni fa. Ma questa volta -vedrete- il direttore del Fatto Quotidiano, pur avendo da tempo Napolitano in antipatia quanto meno politica, se ne asterrà incassando il contributo che il presidente emerito della Repubblica ha deciso di dare all’opposizione alla riforma elettorale liquidata dal Fatto Quotidiano addirittura come “fascistellum”, gridato in rosso sulla prima pagina anche ieri, al pari del giorno prima.

Se il barone Sonnino reclamava il ritorno allo Statuto Albertino ai suoi tempi in vigore, Napolitano reclama in pratica il rispetto della Costituzione oggi in vigore. Che in effetti non dà al cittadino, per quanti artifici possano essere stati messi nelle leggi elettorali che si sono susseguite dal 1993 in poi, una volta ridimensionato col referendum di quell’anno il sistema proporzionale, il diritto di andare alle urne per “eleggere il governo”, oltre al Parlamento, come dissero i referendari di 24 anni fa. E come Napolitano teme che possa ripetersi adesso col nome del capo del partito o della coalizione ammesso nella scheda elettorale.

L’articolo 92 è stato scritto dai costituenti nel 1947 in modo che più chiaro non potesse essere: “Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri”. I quali non a caso sono obbligati dal successivo articolo 93 a giurare “nelle mani” del capo dello Stato prima di assumere le loro funzioni e di presentarsi alle Camere per il voto di fiducia prescritto dall’articolo ancora successivo.

Ma già nel 1994, quando la legge elettorale che portava il nome latinizzato dell’attuale presidente della Repubblica, Mattarellum, pur non prevedendo ancora nella scheda elettorale, come sarebbe poi accaduto col cosiddetto Porcellum, il nome del candidato delle coalizioni in lizza alla guida del governo, Oscar Luigi Scalfaro al Quirinale si arrese alla logica o fascino, come preferite, del sistema maggioritario. E conferì, sia pure di malavoglia, come tutti sanno, l’incarico di presidente del Consiglio a Silvio Berlusconi, che aveva vinto le elezioni sconfiggendo la coalizione dei progressisti guidata da Achille Occhetto e i centristi raccoltisi attorno a Mario Segni.

A quella logica o fascino del sistema maggioritario, sia pure misto, essendo sopravvissuto il proporzionale per un bel poco col 25 per cento dei seggi parlamentari, si piegarono poi, volentieri o non, lo stesso Scalfaro conferendo nel 1996 la guida di governo a Romano Prodi, leader della coalizione dell’Ulivo premiata dagli elettori; Carlo Azeglio Ciampi nel 2001 facendo tornare a Palazzo Chigi Berlusconi, premiato nelle urne con la sua Casa delle Libertà; Napolitano nel 2006 richiamando a Palazzo Chigi il vincitore delle elezioni Prodi, per quanto sapesse bene quanto precaria fosse la sua coalizione di governo, caduta infatti meno di due anni dopo, e ancora Napolitano nel 2008 nominando, dopo le elezioni anticipate, il governo Berlusconi, ultimo della serie maggioritaria. Poi sopraggiunse la fase più o meno emergenziale, o straordinaria, del governo tecnico di Mario Monti e di quelli delle intese più o meno “larghe” di Enrico Letta, di Mario Renzi e di Paolo Gentiloni, oggi in carica.

Quanto meno dal 1994 al 2008 i presidenti della Repubblica italiana hanno quindi accettato di dividere le prerogative dell’articolo 92 della Cosituzione, rimasto invariato, con i riti più o meno improvvisati e genuini del sistema maggioritario, per quanto -ripeto- misto.

Ma ora il buon Napolitano, forse perché costretto dalla realtà politica, più forte delle ambiguità o contraddizioni delle varie leggi elettorali, a ripristinare più o meno in pieno al Quirinale le prerogative dell’articolo 92 della Costituzione con la formazione del già ricordato governo tecnico di Monti e successivi, ha deciso di impuntarsi. E da presidente emerito della Repubblica, cioè ex, ha posto con la franchezza e la vigoria che non ha perso con l’età il problema di tornare appunto alla Costituzione, come dicevo all’inizio.

Qualcuno ritiene che sia ormai troppo tardi per tornare indietro, per quanto lo scenario politico si sia obiettivamente frantumato ed abbia mostrato di avere sempre più bisogno di quel motore di riserva che è un po’ la figura del presidente della Repubblica, con le sue mediazioni e i suoi strappi, secondo le circostanze, quando si inceppano i rapporti fra i partiti, singolarmente o in coalizione, e nessuno è in grado di uscirne da solo. E l’unica alternativa diventa un ricorso continuo e logorante ad elezioni anticipate.

Qualcun altro ritiene invece che Napolitano abbia fatto bene a farsi sentire, anche a costo di rimanere praticamente inascoltato dal governo e dal presidente della Repubblica di turno.

Una cosa comunque credo che non si possa negare al presidente emerito “Re Giorgio”, come affettuosamente chiamano Napolitano un po’ tutti per la sua lunga e non certo ordinaria esperienza al Quirinale: il gusto della partecipazione alla politica, che è stata ed è ancora la passione della sua vita. Per questo egli merita il rispetto anche di chi può trovarsi in dissenso da lui, e che invece spesso si lascia prendere la mano dalla rozzezza di moda e lo accusa di scemenze come la ricerca ossessionata del potere e persino il golpismo. Scemenze, a dir poco.

 

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

Ripreso da http://www.formiche.net il 14 ottobre 2017  col titolo: Napolitano, la Costituzione e il Rosatellum bis

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