Scalfari certifica la democrazia del Pd di Renzi e della nuova legge elettorale

Reduce dalla festa dei dieci anni del Pd all’Eliseo, dove lo avevano invitato come fondatore di Repubblica e si era un po’ trovato e riscoperto anche come uno dei fondatori, pure lui, del partito guidato da Matteo Renzi,  visti i vuoti lasciati da Romano Prodi, Arturo Parisi ed altri vittime non si è ben capito se delle sciatterie organizzative o della loro permalosità, Eugenio Scalfari ne ha diligentemente riferito ai lettori un po’ come cronista e un po’ come editorialista. E lo ha fatto con una tigna, come si dice a Roma, che mi è apparsa un po’ come una rivincita, una puntualizzazione, una correzione rispetto ai colleghi di testata, giovani e non, che nei giorni precedenti avevano riferito delle vicende del Pd, del suo segretario e del suo capogruppo alla Camera, primo firmatario della riforma elettorale che ne porta il nome latinizzato di Rosatellum, in modo critico. Che lui, il fondatore, non ha per niente condiviso.

Scalfari ha trovato, a torto o a ragione, fra gli interventi di Renzi, di Walter Veltroni, che fu peraltro il primo segretario del Pd, e del presidente del Consiglio in carica Paolo Gentiloni un filo comune, politico e culturale. Che è quello di Giustizia e Libertà, dei fratelli Rosselli e poi del Partito d’Azione di Ugo La Malfa, cui si è sempre ispirato -ha ricordato Scalfari agli smemorati, giovani o meno anziani redattori e collaboratori del giornale da lui fondata- la linea editoriale e politica del gruppo Espresso e Repubblica.

Per tradurre in parole povere o concetti alla mano lo Scalfari tignoso dell’Eliseo, il Pd guidato da Renzi è di sinistra, checché ne dicano quelli che l’hanno lasciato indignati: di una sinistra di governo, non di opposizione e contestazione fine a  se stessa, utopistica e persino cavernicola sotto certi aspetti. E Renzi, anche grazie al disturbo levato da Pier Luigi Bersani, Massimo D’Alema e compagni, ha potuto  finalmente conciliare la sua natura tendenzialmente solitaria con la “collegialità” di cui ha bisogno un partito democratico, desideroso di sopravvivere alle sorti del suo leader di turno.

Renzi più Gentiloni più Veltroni sono un collegio di cui potersi fidare, su cui potere scommettere, secondo Scalfari.  E basta con le solite campagne irrealistiche e denigratorie, come quella scatenatasi contro la nuova legge elettorale appena approvata a Montecitorio anche con lo scrutinio segreto finale, e non solo con le tre precedenti votazioni di fiducia per appello nominale. Essa “non viola la democrazia”, ha scritto il fondatore di Repubblica, che ne ha voluto  la certificazione anche nel titolo del suo commento, abituato a farselo da solo, pur con l’aria educata di proporlo.

L’unico, fra i collaboratori della testata ora guidata da Mario Calabresi, col quale Scalfari ha ritenuto di dovere polemizzare esplicitamente, considerandolo probabilmente il più adeguato al suo livello in un confronto, è stato il presidente emerito della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky, convinto che anche la nuova legge elettorale tradisca, o quasi, la sovranità riconosciuta dalla Costituzione al popolo. Che però -dice l’articolo 1- “la esercita nelle forme e nei limiti” della stessa Costituzione,  la quale a sua volta affida l’approvazione delle leggi, compresa quella elettorale, al Parlamento, non al popolo direttamente col referendum, cui si può ricorrere solo per abrogare, parzialmente o in parte, le leggi in vigore, non per farne di nuove. Ma questo, a dire il vero, Scalfari non lo ha scritto così esplicitamente, forse per non umiliare il professore e amico Zagrebelsky rimproverandogli di non sapere o voler leggere bene la Costituzione.

Scalfari ha invece preferito -volando più in alto, forse troppo- opporre al populismo costituzionale, diciamo così, del presidente emerito della Corte “la storia millenaria”. Che a suo avviso ha sempre coniugato la democrazia dei molti, se non di tutti, con la oligarchia delle classi dirigenti e dello stesso Parlamento, dove si formano maggioranze e minoranze di forze politiche guidate per forza di cose dai pochi dirigenti, e non da tutti gli iscritti o militanti. E’ frutto di questo gioco democratico anche la legge elettorale ora all’esame del Senato.

Per fortuna Gustavo Zagrebelsky, pur avendo quasi 20 anni meno di Scalfari, ha conseguito i suoi titoli di studio e fatto carriera senza dovere ottenere i voti del fondatore di Repubblica. Sennò le bocciature si sarebbero sprecate.

L’Ischiatutto di Silvio Berlusconi, pizzicato anche dal Giornale di famiglia

Nonostante quel “Vinco o mi ritiro” gridato  col titolo principale della prima pagina per rilanciare ai lettori la promessa o minaccia, come preferite, che Silvio Berlusconi, con tanto di casco in testa, ha messo sul piatto elettorale, come aveva già fatto inutilmente Matteo Renzi nella corsa al referendum  dell’anno scorso sulla riforma costituzionale, neppure il Giornale di famiglia del capo di Forza Italia ha saputo trattenersi dall’incredulità ironica. Che si è espressa nella fulminante rubrichetta De minimis, sempre in prima pagina, scherzando sulla località dove Berlusconi l’aveva sparata così grossa per commentare: “Ischiatutto”. E con quel ch’è accaduto col terremoto a Casamicciola ci sarebbe ben poco da ridere.

Accomunati ben più di quanto i loro critici non abbiano pensato dando loro il soprannome di Renzusconi, i due ex presidenti del Consiglio, volenti o nolenti, si specchiano continuamente l’uno nell’altro. Lo fanno anche nel “teatrino della politica” che entrambi disprezzano a parole offrendosi agli elettori come avversari irriducibili.

“Sarà un corpo a corpo” in ogni collegio elettorale, ha detto Renzi celebrando i 10 anni del Pd, nel teatro romano dell’Eliseo, per respingere i sospetti dei suoi compagni usciti o rimasti nel partito che egli abbia già messo nel conto dopo le elezioni un’alleanza con Berlusconi.

“Lo escludo per storia e ideologia”, ha detto quasi contemporaneamente Berlusconi, sempre a Casamicciola, parlando dell’ipotesi di un governo delle cosiddette larghe intese col Pd dopo le elezioni e mostrando come più chiaramente non poteva quanta poca considerazione egli abbia intimamente sia della storia sia dell’ideologia. Della storia, perché risale a non più tardi di sei anni fa la sua decisione di  ritirarsi da Palazzo Chigi per appoggiare col Pd il governo tecnico di Mario Monti. Risale invece a non più tardi di quattro anni fa la decisione di Berlusconi di far partecipare il suo partito al governo presieduto dall’allora vice segretario del Pd Enrico Letta, cui poi avrebbe tolto l’appoggio per ritorsione contro la propria decadenza da senatore per essere stato condannato in via definitiva per frode fiscale, mentre i ministri che vi aveva messo rimanevano al loro posto uscendo invece dal suo partito e creandone un altro. Eppure dopo qualche mese soltanto Berlusconi, sempre lui, favorì in qualche modo la formazione del governo Renzi, sempre con quei ministri “traditori” dentro, facendo col segretario del Pd il famoso patto del Nazareno: ancora più importante di un patto di governo perché finalizzato addirittura alle riforme della Costituzione e della legge elettorale.

Per quanto riguarda poi l’ideologia, è curioso che ne parli proprio Berlusconi, che ha voluto e potuto entrare prepotentemente in politica grazie alla caduta delle ideologie, dopo il crollo del muro di Berlino e la liberalizzazione del voto cosiddetto di opinione dell’Italia divisasi ideologicamente, appunto, per quasi mezzo secolo fra comunisti e anticomunisti.

D’altronde, anche negli anni delle ideologie radicate, partiti dichiaratamente alternativi come la Dc e il Pci, per definizione dell’allora presidente democristiano Aldo Moro, andarono alle elezioni anticipate nel 1976 per uscirne accomunati nella maggioranza di cosiddetta solidarietà nazionale.

Per quanto euforico per il protagonismo politico conservato alla bella età di 81 anni, e nonostante la guerra subita sul piano giudiziario, Berlusconi dovrebbe un po’ contenersi nelle promesse o, in questo caso, nelle minacce di ritorsione verso gli elettori che la prossima volta dovessero impedirgli di ottenere la maggioranza. E ciò in uno scenario politico ed elettorale che, nonostante il concetto di coalizione riproposto dalla riforma nota com Rosatellum, non potrà permettere a nessuno -ma proprio a nessuno, neppure a Berlusconi, oltre che a Renzi, a Grillo e a chi capeggerà la sinistra cosiddetta radicale dei vari Bersani e D’Alema- di uscire dalle urne vincitore, titolare cioè di una maggioranza traducibile in un governo autosufficiente.

 

 

 

Ripreso da http://www.formiche.net col titolo: Perché sono rischiosi gli annunci di Silvio Berlusconi su larghe intese e dintorni

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