L’affare Grasso si ingrossa con i suoi attacchi politici

L’affare Grasso s’ingrossa, o ingrassa, con gli attacchi politici che il presidente del Senato ha deciso di rivolgere al Pd, da cui si è dimesso tenendosi però la sua importante carica istituzionale. Che persino il Manifesto, solidale col suo gesto e con gli attacchi al partito guidato da Matteo Renzi, ha sarcasticamente definito col titolone della sua prima pagina “Il soglio di Pietro”, giocando col nome proprio di Grasso.

Il tuttora presidente del Senato ha definito “violenza” quella che il governo avrebbe esercitato con le cinque votazioni di fiducia, per appello nominale, che hanno preceduto nell’aula di Palazzo Madama  l’approvazione definitiva della nuova legge elettorale, nello stesso testo quindi della Camera. Cui i senatori -ha lamentato Grasso- hanno dovuto soggiacere, senza potervi apporre modifiche.

Se è stata violenza, come ha detto Grasso davanti ai microfoni e alle telecamere, si deve presumere che i senatori in larghissima maggioranza l’abbiano subìta consenzienti. Gli altri, dissenzienti, sia quelli che sono rimasti in aula votando contro sia quelli che sono andati in piazza a dimostrare con bende e bavagli, avrebbero subìto non uno ma cinque stupri. E fra questi altri si è voluto aggiungere, con le sue proteste, anche il presidente dell’assemblea, tuttora -ripeto- in carica.

Lo scenario che deriva dalle parole di Grasso è a dir poco sconcertante. E si stenta francamente a credere che un uomo dell’esperienza giuridica di Grasso, arrivato alla politica dopo una lunghissima carriera giudiziaria, abbia potuto mettersi in questa situazione. Dalla quale si ha la sensazione, spero a torto, che non voglia recedere dimettendosi anche da presidente del Senato, mentre molti dei suoi estimatori o tifosi politici finiscono per aggravarne lo status proponendo la sua candidatura alla guida del  cartello elettorale di sinistra che si sta cercando di realizzare contro quel Pd  abbandonato da Grasso per non riconoscervisi di più “nè’ nel merito né nel metodo”.

Se così avvenisse davvero, il leader dello schieramento “avverso” a Renzi, direbbe Walter Veltroni, inutilmente spesosi per trattenerlo, parteciperebbe alle elezioni dell’anno prossimo avvantaggiato dalla sua carica istituzionale. Che lo farebbe anche capo supplente delle Stato, e del Consiglio Superiore della Magistratura, se Sergio Mattarella ne fosse impedito per una qualsiasi ragione.

Va inoltre detto che già durante la discussione sulla legge elettorale, per quanto strozzata o “violentata” dal ripetuto ricorso alla fiducia, Grasso ha dimostrato di avere una conoscenza non proprio esatta dei precedenti del suo gesto. Egli, per esempio, a chi da sinistra gli rimproverava di non dimettersi prima di accogliere le richieste di fiducia da parte del governo ha detto che Giuseppe Paratore nel 1953 si era dimesso da presidente del Senato dopo l’approvazione della legge elettorale liquidata dalle opposizioni come “truffa”, con  voto di fiducia richiesto dal governo di Alcide De Gasperi, e non prima.

Ebbene, il povero Paratore, peraltro siciliano come Grasso, si dimise prima della votazione di quella legge, e non contro il ricorso del governo alla fiducia ma contro il forte ostruzionismo che le opposizioni avevano deciso di condurre, e degenerato poi anche in disordini. E si dimise, il buon Paratore, davvero. A succedergli fu infatti eletto Meuccio Ruini.

Un’ultima osservazione mi sembra opportuna a proposito dei precedenti, cui sempre si ricorre per giudicare fatti e persone della politica.

E’ stata evocata, per giudicare la permanenza di Grasso alla presidenza del Senato dopo la rottura col partito che ve l’aveva praticamente mandato all’inizio della legislatura, l’esperienza di Gianfranco Fini, rimasto al vertice della Camera nel 2010 dopo la rottura col Pdl.

In soccorso di Fini, per quanto fosse il leader della destra post-missina, intervenne allora nelle polemiche l’ex presidente della Camera Luciano Violante dicendo che lo stesso Fini era stato cacciato dal Pdl, dopo uno scontro diretto con Silvio Berlusconi, allora anche presidente del Consiglio.

Il presidente della Camera a quel punto -sostenne Violante- non poteva lasciare il suo alto incarico istituzionale perché così se ne sarebbe lasciata “la disponibilità” al governo, anche se -in verità- i dirigenti del Pdl si erano già dichiarati disposti ad eleggere al vertice di Montecitorio un esponente della sinistra.

Di Grasso, purtroppo per lui, non si può proprio dire che come iscritto al Pd ne sia stato cacciato, neppure dopo che il presidente del Senato aveva ritenuto di partecipare ad un raduno degli scissionisti, a Napoli, vantandosi di essere “un ragazzo di sinistra”. Grasso se n’è andato dal Pd di volontà e testa sua.

Grasso riesce a sorpassare anche il modello Fini

Il presidente del Senato Pietro Grasso, dimessosi dal Pd e dal relativo gruppo parlamentare per dichiarato e    “sofferto” dissenso politico, visto l’alto ruolo istituzionale anche di capo supplente dello Stato, e del Consiglio Superiore della Magistratura, in caso di impedimento di quello in carica, si trova adesso di fronte ad un’altra  difficile decisione. Egli deve scegliere, esaminando i cosiddetti precedenti, fra due modelli politici e umani, diciamo così.

Un modello è quello lontano in cui si trovarono accomunati Giuseppe Saragat e Sandro Pertini. Il primo si dimise nel 1947 da presidente dell’Assemblea Costituente quando il partito socialista che lo aveva designato a quella carica si spaccò con la famosa, storica scissione di Palazzo Barberini, da lui stesso peraltro promossa. Egli accettò di buon grado di essere sostituito dal comunista Umberto Terracini, per quanto la scissione socialista fosse avvenuta sul tema dei rapporti proprio col Pci, guidato allora da Palmiro Togliatti.

Pertini si dimise da presidente della Camera nell’estate del 1969 per un’altra scissione nel suo campo, cioè dopo la rottura del Partito Socialista Unificato, che l’anno prima, all’indomani delle elezioni, lo aveva designato al vertice di Montecitorio.

Pipa in mano ed elegante come sempre, per quanto ruvido di carattere, Pertini rinunciò alle dimissioni solo dopo che nel suo ufficio sfilarono più o meno metaforicamente un po’ tutti i partiti per rinnovargli la fiducia. Che peraltro non era, come non è tuttora richiesta dal regolamento della Camera dopo l’insediamento del presidente, per cui Pertini avrebbe potuto anche risparmiarsi le dimissioni, di cui invece aveva fortemente avvertito l’opportunità per ragioni -disse- di “correttezza”.

L’altro modello possibile è quello di Gianfranco Fini: l’ex leader post-missino rimasto nel 2010 alla presidenza della Camera dopo la rottura dei rapporti con l’allora Pdl, che ve lo aveva praticamente mandato due anni prima e ne reclamava inutilmente le dimissioni con dichiarazioni, fra gli altri, di Silvio Berlusconi, all’epoca presidente del Consiglio.

Va onestamente detto che ad aiutare Fini, se non a salvarlo, era intervenuto l’ex presidente della Camera Luciano Violante. Che, come tanti altri, politici e giornalisti, non aveva capito bene se Fini fosse andato via spontaneamente dal Pdl o ne fosse stato espulso da Berlusconi dopo quel famoso scontro in un’assemblea di partito dove il presidente della Camera si era alzato dal suo posto, in platea, e aveva chiesto al presidente del partito e del Consiglio, col dito alzato e furente: “Che fai? Mi cacci?”.

Nel dubbio Violante preferì mettere nel conto l’ipotesi più favorevole all’imputato, diciamo così,: quella del cacciato. E sostenne che non potesse essere praticamente lasciata nella “disponibilità” del capo del governo, a quel punto, la presidenza della Camera allontanandone Fini.

Nel caso di Grasso mi sembra difficile sostenere, salvo fatti e circostanze non conosciute al momento, che egli sia stato estromesso dal Pd.

 

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

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