Il pentito di Stato che serve a Nino Di Matteo sulla trattativa con la mafia

È curioso il bando di concorso a un posto di “Pentito di Stato” metaforicamente indetto dal pubblico ministero Nino Di Matteo, intervistato da Lucia Annunziata per Rai 3 dopo la vittoria conseguita dall’accusa nel processo di primo grado in Corte d’Assise, a Palermo, sulla trattativa fra lo stesso Stato e la mafia nella stagione delle stragi.

“Pentito di Stato” in che senso? Funzionario militare o civile, dei servizi segreti o affini? O politico?  Qualcuno, una volta tanto non mafioso,  che voglia o possa aiutare nuove indagini, o rivitalizzarne alcune già in corso, per completare il quadro che Di Matteo ritiene chiaramente emerso dalla sentenza di Palermo, dopo cinque anni di dibattimento: una durata pari a quella di una legislatura ordinaria, senza interruzioni elettorali anticipate.

Il quadro visto da Di Matteo nel verdetto giudiziario di primo grado, suscettibile quindi di smentita nel giudizio scontato di appello, cui i condannati hanno già annunciato di volere ricorrere, è quello di una doppia staffetta nella trattativa.

La prima staffetta sarebbe avvenuta fra il governo di Giuliano Amato, formato dopo la strage mafiosa del 1992 a Capaci, che costò la vita al giudice Giovanni Falcone, alla moglie e a quasi tutta la scorta, e il governo di Carlo Azeglio Ciampi, subentratogli nella primavera del 1993.

La seconda staffetta sarebbe avvenuta nel 1994 fra il governo di Ciampi, ultimo della cosiddetta prima Repubblica, e il governo di Silvio Berlusconi, praticamente uscito dalle urne anticipate di quell’anno e primo della cosiddetta seconda Repubblica. La cui morte per motivi ignobili l’aspirante grillino a Palazzo Chigi, Luigi Di Maio, ritiene certificata proprio dalla sentenza di Palermo, o a causa di essa.

Il cedimento alla mafia nella staffetta fra i governi di Amato e Ciampi sarebbe avvenuto col mancato rinnovo del trattamento carcerario speciale dell’articolo 41 bis disposto a favore di trecento e più detenuti di mafia dal ministro della Giustizia Giovanni Conso. Il quale però fece in tempo, prima di morire nel 2015, ad assumersi la piena responsabilità di quella decisione: frutto -spiegò- non di qualche indebita pressione ma di una sua valutazione di quella terribile stagione di sangue voluta dall’ala stragista della mafia.

Ma la verità di Conso non piacque, o non bastò, ai teorizzatori, giudiziari e mediatici, della trama eversiva della trattativa. Non è bastata nemmeno l’assoluzione, avvenuta in primo grado col rito abbreviato, dell’allora ministro democristiano Calogero Mannino, accusato di avere manovrato per la trattativa allo scopo di sottrarsi al rischio di un attentato ordito contro di lui dalla mafia.

Il “pentito di Stato” che cerca Di Matteo dovrebbe pertanto servire a smentire il compianto Conso e i giudici che hanno assolto Mannino, per non parlare di quelli che hanno assolto in procedimenti affini il generale Mario Mori, condannato invece a Palermo a 12 anni di carcere, al pari di altri imputati con i gradi.

Ma oltre a questo, il “pentito di Stato” che volesse partecipare al concorso pur metaforico, ripeto, del pubblico ministero Di Matteo dovrebbe servire a incastrare Berlusconi. Che da presidente del Consiglio nel 1994 si sarebbe quanto meno prestato, senza denunciarlo alla magistratura,  al tentativo della mafia di strappare favori anche al suo governo tramite il loro presunto comune amico Marcello Dell’Utri.  Che, guarda caso, è stato condannato a suo tempo in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa, ma per fatti e frequentazioni solo fino al 1992. Il “pentito di Stato” dovrebbe pertanto servire a smentire anche la vista troppo corta, e persino indulgente, dei giudici per la cui sentenza Dell’Utri è in carcere, per quanto in condizioni a dir poco precarie di salute.

Un ulteriore compito del “pentito di Stato” che cerca Di Matteo è quello di smentire il ministro dell’Interno del primo governo Berlusconi: non il forzista ma il leghista Roberto Maroni. Il quale ha appena raccontato, in una intervista, delle sollecitazioni e degli aiuti ricevuti dall’allora presidente del Consiglio nella forte azione di contrasto alla mafia culminata nell’arresto del capo Totò Riina, il 15 gennaio del 1995. Un arresto eseguito proprio negli ultimissimi giorni del governo Berlusconi, non certo all’insaputa del pur dimissionario presidente del Consiglio. E con un’operazione dell’allora colonnello Mori, fra i condannati dalla Corte d’Assise di Palermo nella sentenza di venerdì scorso.

Sembra un fumettone alla rovescia. Ma è una storia vera, segnata da fatti e sentenze contraddittorie dei tribunali, emesse tutte in nome del popolo italiano. Che avrebbe il diritto di sentirsi, a torto o a ragione,  quanto meno sconcertato.

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

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