La crisi ormai avviata verso il piano inclinato di un governo di emergenza

              Come spesso gli accade felicemente, è stato il manifesto a sintetizzare meglio di tutti i giornali italiani con quel titolo di copertina Mandato e ritorno il significato della missione esploratrice di 48 ore, non di più, affidato da Sergio Mattarella alla presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati. E ciò allo scopo di cominciare, quanto meno, a tirare la crisi di governo dallo stallo denunciato dallo stesso Mattarella dopo due giorni di consultazioni a vuoto nel suo studio, al Quirinale.

            Accettabile proprio per la sua breve durata, ma anche per l’indicazione precisa dello scenario politico da esaminare, limitato ad una maggioranza composta dalla coalizione di centrodestra e dai grillini, la missione affidata dal presidente della Repubblica alla seconda carica dello Stato è stata messa al riparo da ogni accusa, che pure qualcuno ha formulato lo stesso, di una perdita di tempo, o di un espediente politico per favorire chissà quale oscura operazione.

            Più che un’esplorazione, essendo stato il campo già percorso dallo stesso Mattarella, affiancato da tanto di testimoni, alla presidente del Senato è stata chiesta una certificazione: quella della impraticabilità, sul piano del governo, della maggioranza che pure l’ha portata alla già ricordata seconda carica dello Stato. Il resto è fuffa, al di là dei soliti elementi più o meno spettacolari, e forse anche sgarbati, come è stato considerato da qualcuno -ma non dall’interessata, a quanto sembra- il rifiuto di Matteo Salvini di rinunciare a un convegno a Catania per poter partecipare con i suoi colleghi di partito al primo incontro con l’esploratrice. Alla quale si era d’altronde affrettato a garantire la presenza al secondo, il giorno dopo, e per giunta con tutta intera la delegazione del centrodestra, a conferma anche visiva di un’esistenza della coalizione ostinatamente negata dall’ormai inutile aspirante grillino a Palazzo Chigi: l’ineffabile Luigi Di Maio.

            Quest’ultimo mostra ancora di credere di potere acquistare il pane per il suo governo dall’altro “forno”, costituito non più dalla Lega, indisponibile a scaricare l’alleato Silvio Berlusconi, ma dal Pd del segretario reggente Maurizio Mattina. Ma lo stesso giovanotto crede così poco a questa alternativa da non volersi esporre con un incarico formale, per cui probabilmente il paziente presidente della Repubblica dovrà ricorrere ad un’altra esplorazione, o certificazione. Per la quale si fa già sulle prime pagine di tutti i giornali il nome del titolare della terza carica dello Stato: il presidente della Camera Roberto Fico, collega di partito dello stesso Di Maio.

            Pericolante già negli stessi numeri parlamentari, essendo una maggioranza composta dai grillini e dal Pd tanto esigua al Senato da non potersi permettere più di qualche assenza, fortuita o voluta, l’alternativa inutilmente minacciata da Di Maio al leghista Salvini chiude il cerchio delle ipotesi, diciamo così, ordinarie della crisi apertasi con le dimissioni del governo Gentiloni. Che la diciottesima legislatura uscita dalle urne del 4 marzo ha ereditato dalla precedente.

            Non si potrà allora passare che a formule speciali, del resto non nuove nella storia più che settantennale della Repubblica, di prima o seconda edizione. Il quirinalista del Corriere della Sera Marzio Breda, aduso ai presidenti di turno e ai loro collaboratori, ha tagliato corto a tutte le definizioni con le quali si sono cimentati in questi giorni i suoi colleghi, gli immancabili professori e gli esponenti più o meno autorevoli dei vari partiti, ed ha chiamata davvero per nome il governo a quel punto imposto dai fatti alle riflessioni e decisioni del capo dello Stato: “governo di emergenza”. E così sia.

 

 

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Quella volta che Gabriele Cagliari mi disse: pagheremo cara l’amicizia con Craxi

Non ho il piacere di conoscere Stefano Cagliari, di cui ho appena finito di leggere la toccante intervista a Giovanni Maria Iacobazzi sul libro che rievoca la tragica vicenda del padre, Gabriele, morto suicida il 20 luglio 1993 nel carcere di San Vittore. Dove gli era stata fatta inutilmente sperare la scarcerazione, vanificata anche per le ferie di un magistrato che lo aveva interrogato per una delle indagini passate alla storia col nome di “Mani pulite”.

Il mio rimpianto dell’amico Gabriele è naturalmente ben poca cosa rispetto a quello del figlio. Al quale tuttavia tengo a raccontare l’ultimo incontro avuto col padre. Che come presidente dell’Eni era, fra l’altro, il mio editore.

Era la mattina di un lunedì afoso della primavera del 1992 a San Donato Milanese. Ci eravamo dati appuntamento per le ore 11 del 4 maggio nel suo ufficio, dove Gabriele aveva voluto vedermi per tentare di dissuadermi dal proposito già annunciato di lasciare la direzione del Giorno alla scadenza del contratto triennale. Che avevo stipulato sotto la presidenza Eni di Franco Reviglio nella primavera del 1989.

Ero letteralmente stressato dall’assedio politico e sindacale subìto dal 17 febbraio di quel maledetto 1992 , quando fu arrestato in flagranza di reato di corruzione e altro il presidente socialista del Pio Albergo Trivulzio di Milano, Mario Chiesa.

Nonostante Il Giorno fosse stato l’unico giornale a dare la mattina del 18 febbraio in prima pagina quella notizia destinata a funzionare come il detonatore della cosiddetta Tangentopoli, dal 19 febbraio fui accusato o sospettato, secondo le preferenze, di volere minimizzare la vicenda e le relative indagini giudiziarie perché amico di Bettino Craxi: il segretario del partito di Chiesa e di molti altri che sarebbero stati poi coinvolti nelle inchieste. Magari solo coinvolti perché assolti dopo anni, ma il coinvolgimento bastava e avanzava per liquidarli come delinquenti. E anche registrarne qualche suicidio come confessione di colpa, secondo un giudizio espresso da un magistrato che questa colpa, essa sì, non ha mai pagato nella sua carriera, proseguita con tutti gli onori della casta di appartenenza.

Non c’era giorno che qualcuno, fuori e dentro il giornale da me diretto, non facesse il conto delle pagine, del loro ordine e delle colonne dedicate alle indagini della Procura milanese: mai abbastanza, e/o mai abbastanza evidenti per essere giudicate all’altezza delle attese. Neppure il povero Antonio Di Pietro, Tonino per gli amici, riuscì ad alleggerire questo controllo sindacale e politico dichiarando, bontà sua, in una intervista che Il Giorno non aveva mai ignorato o sottovalutato i prodotti delle sue indagini. E come poteva d’altronde essere diversamente, con tutti quegli arresti quotidiani eseguiti o preannunciati ?

Per tutta la durata di quel mio assedio Gabriele fu di un’amicizia e di una lealtà esemplari. Ad uno dei comunicati sindacali che contestavano le mie scelte di collocazione e titolazione delle notizie il presidente dell’Eni reagì con un comunicato di solidarietà della società editrice e con la disposizione di un aumento del mio stipendio. Egli pertanto si sentì autorizzato quella mattina a chiedermi di soprassedere alle dimissioni e di accettare la conferma per un altro triennio. Pertanto mi dispiacque molto deluderlo insistendo, limitandomi solo a procrastinare di un mese, sino a tutto giugno, l’incarico di direttore per dargli il tempo necessario a cercare un successore.

Il discorso passò allora a questioni meno personali, a cominciare dalla complessa situazione politica uscita dalle urne del 5 e 6 aprile e degli intrecci inevitabili fra la ricerca di un nuovo governo e le cronache giudiziarie. In particolare, la conversazione cadde sul nostro comune amico Craxi e sulla convinzione che Bettino ancora aveva di poter controllare la situazione, sino alla realizzazione dell’intesa col segretario della Dc Arnaldo Forlani. Che prevedeva il ritorno di Bettino a Palazzo Chigi dopo il brusco allontanamento voluto nel 1987 da Ciriaco De Mita con le polemiche sulla famosa “staffetta”.

Gabriele non si faceva alcuna illusione. Mi confidò di avere raccolto la sera prima le lacrime della moglie, estimatrice di Bettino. Che non si dava pace della “trappola” tesa al leader socialista.

Quando venne il momento di separarci, convinti che difficilmente ci saremmo incontrati, di nuovo a breve termine, Gabriele mi ringraziò del lavoro svolto al giornale abbracciandomi e dicendomi, con voce strozzata dall’emozione: “Ci aspettano mesi terribili. Pagheremo tutti cara la nostra amicizia con Bettino”. Ebbi la sensazione, francamente, che  egli già avvertisse nell’aria i rischi giudiziari che lo aspettavano.

Ci risentimmo poi una sola volta per telefono, quando mi chiamò per chiedermi per quale motivo non scrivessi più per Il Giorno, dando per scontato che il nuovo direttore mi avesse offerto una collaborazione, e non sapendo che in ogni caso non l’avrei accettata. Non mi erano mai piaciute professionalmente le minestre riscaldate, come mi aveva insegnato a definire simili soccorsi Indro Montanelli al Giornale.

            L’arresto di Gabriele avvenne il 9 marzo 1993, il suicidio il 20 luglio, come ho già ricordato, dopo che gli era stato, peraltro, di fatto impedita anche la partecipazione ai funerali della giovane nuora: la moglie di Stefano.

Di prima mattina del 23 luglio, nell’obitorio di Lambrate, mi presentai per rivedere Gabriele davvero per l’ultima volta, composto in una bara. Stentai a riconoscerlo in quel pallore della morte, e col cranio avvolto nell’ovatta sistemata dopo l’autopsia. Solo il personale di guardia mi aiutò a non confonderlo con l’altra salma esposta.

Uscii straziato  dall’obitorio per partecipare poco dopo ai funerali di Gabriele, nella Chiesa di San Babila, dove gli occhi erano troppo bagnati di lacrime perché potessi vedere bene il solito spettacolo degli sciacalli, già distratti del resto da un  altro suicidio appena avvenuto a poca distanza: quello di Raul Gardini. Che si era ucciso proprio quella mattina a casa per paura di doverlo poi fare pure lui in carcere, come Gabriele, dopo esservi stato tradotto e dimenticato per un bel po’.

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

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