Sono un pò troppi -12 milioni e più- gli italiani che Di Maio non riconosce

            A vedere e sentire Luigi Di Maio, nel salotto televisivo di Otto e mezzo, alle prese con la conduttrice Lilli Gruber e col notista politico del Corriere della Sera Massimo Franco, vi confesso di essere stato per un attimo tentato di condividere il pur ardimentoso paragone fatto recentemente dal direttore dello stesso Corriere, Luciano Fontana, fra il candidato grillino a Palazzo Chigi e la buonanima di Giulio Andreotti, naturalmente ringiovanito e privo della storica gobba. Dove un’altra buonanima, quella di Enzo Biagi, immaginava che il sette volte presidente democristiano del Consiglio custodisse i segreti della Repubblica.

            Ma l’impressione, per la capacità del giovanotto di rispondere con prontezza e disinvoltura ai suoi interlocutori, è durata appunto un attimo. E mi è passata quando l’ospite di Lilly ha cercato di spiegare le ragioni per le quali, cercando di imitare Andreotti come cliente o titolare di due forni, ha spiegato per quale motivo la Lega e il Pd sono per lui perfettamente interscambiabili. Come per un certo tempo l’Andreotti degli anni della “centralità” riteneva il Pli di Giovanni Malagodi e il Psi di Pietro Nenni, e l’Andreotti degli anni successivi il Psi di Bettino Craxi e il Pci di Enrico Berlinguer, prima che con Bettino non scoppiasse la piena sintonia di Sigonella.

            Nell’estrapolare la Lega di Matteo Salvini dal centrodestra per ribadire e motivare il veto grillino contro Berlusconi e Forza Italia come partecipi di un “contratto” di governo, Di Maio ha detto, letteralmente, di non conoscere “nessun italiano che abbia votato per il centrodestra” il 4 marzo scorso, ma solo italiani che hanno votato o per la Lega, o per Forza Italia o per Fratelli d’Italia. Eppure per l’assegnazione della parte maggioritaria dei seggi parlamentari quegli elettori hanno votato candidati comuni.

            Beh, a questa rappresentazione politica di un risultato elettorale Andreotti non sarebbe mai arrivato, essendo troppo sconclusionata. Che la coalizione di centrodestra fosse arrivata alle elezioni composita, ed anche eterogenea, incollata pure  dall’opportunismo, e con due galli a cantare -Berlusconi e Salvini-  per la cosiddetta leadership, non si può certo negare. Ma che dodici milioni e più di italiani l’abbiano poi votata, sapendo peraltro che sarebbero stati loro stessi a sciogliere il nodo della guida, com’è avvenuto col sorpasso della Lega su Forza Italia, Di Maio non può negarlo: né come politico, né come fornaio, poco importa se di pane o di pizza, col suo amico Roberto Fico ora ben piazzato alla presidenza della Camera.

            Berlusconi avrà esagerato giovedì scorso nella loggia quirinalizia della Vetrata nei riguardi del padrone di casa Sergio Mattarella, verso i cui ospiti, compresi i grillini, egli doveva il rispetto anche improvvisando un mezzo cabaret. Ma non ha certo esagerato nei riguardi della logica politica quando ha equiparato all’”assenza dell’abc della democrazia” la pretesa di Di Maio di non riconoscere dignità d’interlocuzione ad una coalizione presentatasi regolarmente alle elezioni, e uscita delle urne con più voti del movimento dello stesso Di Maio.

            E’ lesiva dell’onestà politica la pretesa grillina di trattare con Salvini a prescindere dai suoi alleati, che peraltro sono stati trattati e rispettati come tali negli assetti parlamentari e istituzionali, e nonostante i ripetuti rifiuti del segretario leghista di prestarsi a veti contro chi lui rappresenta come leader della coalizione classificatasi al primo posto nella graduatoria elettorale.

           Quella di Di Maio è’ una pretesa che ha, fra l’altro, il torto di interferire anche nelle valutazioni del presidente della Repubblica, che ha preso tanto sul serio la coalizione di centrodestra da riceverne insieme le delegazioni nel secondo e più stringente giro di consultazioni, quando ne ha ricevuto la richiesta. Che, a dire il vero, sarebbe stato meglio formulare anche nel primo giro, proprio per evitare speculazioni grilline.

Il Pantheon repubblicano dei capri espiatori: da De Gasperi a Renzi

L’articolo di Angela Azzaro in difesa di un  Pd, e del suo ex segretario, diventato la sentina di tutti i mali della politica e persino della società italiana dopo i risultati elettorali del 4 marzo, mi ha fatto tornare alla mente un po’ di capri espiatori nella storia più che settantennale ormai della Repubblica.

Tutto sommato, Matteo Renzi può sentirsi in buona compagnia, pur con tutti gli errori che ha sicuramente compiuti, compreso quello che personalmente gli ho più volte rimproverato di avere negato il Pantheon della sinistra riformista italiana a Bettino Craxi. Di cui pure, volente o nolente, lui ha ripercorso alcune tappe nell’azione di partito e di governo, persino quelle delle reazioni più scomposte e indegne dei suoi avversari, che  ne hanno sognato l’arresto, sprovvisto com’era prima dell’elezione a senatore di Scandicci, di quel poco che è rimasto della vecchia immunità parlamentare. O lo hanno più semplicemente scambiato per un aspirante tiranno, come fece appunto con Craxi nel 1983  l’allora segretario del Pci Enrico Berlinguer. Che pure Renzi è tornato anche di recente a preferire al leader socialista nella galleria della sinistra.

Nel 1953 il ruolo del capro espiatorio toccò’ addirittura al protagonista della ricostruzione post-bellica del Paese: Alcide De Gasperi. Al quale non fu rimproverata, per quanto neppure scattata nelle elezioni di quell’anno, una legge chiamata “truffa” perché contemplava un premio di maggioranza in Parlamento per chi avesse raccolto il 50 per cento più uno dei voti. Roba da ridere rispetto ai premi adottati o tentati durante la cosiddetta seconda Repubblica.

Il povero De Gasperi subì l’onta della sfiducia parlamentare ad un governo appena formato, l’ottavo della sua storia personale, e si ritirò fra le montagne del suo Trentino per morirvi praticamente di crepacuore. E ciò mentre il suo successore alla guida della Dc, l’allora giovane Amintore Fanfani, si vantava di essere stato da lui stesso aiutato a subentrargli. “Una fantasia”, soleva commentare a labbra strette Giulio Andreotti, che di De Gasperi era stato il braccio destro.

Toccò poi al medesimo Fanfani diventare il capro espiatorio di una rivolta di partito che lo estromise contemporaneamente da segretario, da presidente del Consiglio  e da ministro degli Esteri. Furono utilizzati contro di lui persino alcuni incidenti ferroviari per dargli del menagramo. E appendergli in fotografia al collo un corno, come fece in una copertina un settimanale allora in voga –Il Borghese- fondato da Leo Longanesi.

Aldo Moro, succeduto a Fanfani come segretario della Dc nel 1959 e poi anche come presidente del Consiglio alla testa, nel 1963, del primo governo “organico” di centro-sinistra, con tanto di trattino, divenne nel 1968 il capro espiatorio del mancato successo elettorale dell’unificazione socialista. Che pure lui aveva cercato di favorire, fra le proteste della maggiore corrente della Dc, quella dei “dorotei”, sponsorizzando nel 1964 l’elezione del suo ministro degli Esteri Giuseppe Saragat al Quirinale. Dove peraltro qualche mese prima il democristiano Antonio Segni era stato colto da ictus in un alterco proprio con Saragat.

Fu proprio la mancanza dell’appoggio di Saragat, nell’estate del 1968, a determinare l’allontanamento di Moro da Palazzo Chigi. “Non lasciatemi morire con Moro”, si lasciò supplicare quell’estate Pietro Nenni, che ne era stato il vice al vertice del governo.

Estromesso dalla presidenza del Consiglio per convergenza di interessi e risentimenti democristiani e socialisti, Moro divenne il bersaglio persino del coltissimo ed ecumenico Giovanni Spadolini. Che da direttore del Corriere della Sera ne contestò in un fondo domenicale il voto espresso nella competente commissione della Camera a favore di un emendamento comunista alla riforma degli esami di Stato, approvato per garantire la promozione dello studente in caso di parità di giudizi.

In quel voto Spadolini vide addirittura tracce o indizi della “Repubblica conciliare”, anticipatrice di quello che sarebbe poi diventato con Berlinguer il progetto del “compromesso storico”. Ricordo ancora lo sconforto confidatomi da Moro per essere stato frainteso da un professore universitario dimentico -mi disse l’ex presidente del Consiglio- che anche un imputato va assolto a parità di voti.

Debbo dire che poi Moro, quando gli capitò da presidente del Consiglio, in un bicolore Dc-Pri con Ugo La Malfa, di far nominare Spadolini ministro gli “regalò” -mi disse- il Ministero dei Beni Culturali fornendogli con un decreto legge il portafogli di cui quel dicastero non disponeva ancora.

Dopo tre anni Moro, nel frattempo detronizzato di nuovo da Palazzo Chigi, sarebbe stato sequestrato e ucciso dalle brigate rosse. Il capro espiatorio anche di quella vicenda, e non solo di un presunto deterioramento dei rapporti fra società civile e politica avvertito dal Pci nei risultati stentati di un referendum contro la legge che disciplinava il finanziamento pubblico dei partiti, fu Giovanni Leone. Il quale fu costretto dalla mattina alla sera a dimettersi da presidente della Repubblica, quando mancavano solo sei mesi alla scadenza del mandato quirinalizio.

Così il povero Leone pagò pure, o soprattutto, la colpa di essersi messo di traverso alla linea della fermezza adottata dal governo di fronte al sequestro del presidente della Dc. Di cui invece il capo dello Stato aveva voluto tentare  uno scambio predisponendo la grazia per Paola Besuschio, compresa nell’elenco dei tredici detenuti che i terroristi avevano chiesto di liberare per restituire vivo l’ostaggio.

Il turno successivo di capro espiatorio toccò ad Arnaldo Forlani, dimessosi da presidente del Consiglio nel 1981 per le liste della loggia massonica P2 di Licio Gelli, in cui c’era anche il nome di un prefetto che era il suo capo di Gabinetto. Poi Forlani dovette difendersi in una causa alla Corte dei Conti per i danni subiti dai massoni, e risarcibili dallo Stato, a causa della diffusione delle liste, per quanto avvenuta d’intesa tra il governo e la competente autorità giudiziaria. Una vicenda tutta italiana per confusione, caccia alle streghe e quant’altro.

Decisamente più drammatica fu, come capro espiatorio, la sorte di Bettino Craxi, perseguito con “una durezza senza uguali”, certificata dopo anni con lettera dell’allora capo dello Stato Giorgio Napolitano alla vedova, per il finanziamento illegale della politica, e reati connessi. Come se Craxi non avesse ereditato ma inventato lui quel fenomeno, per giunta coperto  nel 1989 con un’amnistia che aveva consentito a un bel po’ di politici di farla franca.

Giulio Andreotti divenne invece negli stessi anni il capro espiatorio delle carenze nella lotta alla mafia, per quanto il suo ultimo governo avesse trattenuto con un decreto legge di controversa costituzionalità un bel po’ di mafiosi che avevano maturato il diritto di uscire dal carcere. E avesse arruolato al Ministero della Giustizia, proprio per la lotta alla mafia, un campione come il giudice  Giovanni Falcone, eliminato per questo dai criminali con la strage di Capaci.

Processato, in sovrappiù, ed assolto anche per il delitto Peccorelli, il sette volte presidente del Consiglio, nonché senatore a vita di nomina quirinalizia  avendo “illustrato la Patria – secondo la formula dell’articolo 59 della Costituzione- per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario”, si è portata nella tomba l’onta, ancora rimproveratagli ogni volta che gli capita dal pubblico accusatore Gian Carlo Caselli, di una  prescrizione del reato di associazione a delinquere, prima che diventasse concorso esterno in associazione mafiosa. Da cui in ogni modo Andreotti fu assolto, per ammissione anche di Caselli.

Passati dalla prima alla seconda Repubblica, ci siamo dovuti accontentare, sempre nel campo politico, di capri espiatori, diciamo così, più alla buona. Come il povero Achille Occhetto, sostanzialmente deposto nel 1994 da Massimo D’Alema al vertice dell’ex Pci per la sorprendente e strepitosa vittoria elettorale conseguita sulla sinistra dall’esordiente Silvio Berlusconi. E poi lo stesso Berlusconi per le sue abitudini di vita non da seminario, o per i suoi affari, analoghi a quelli di tutti gli altri imprenditori della sua stazza finanziaria, o persino per le speculazioni subite dai titoli del debito pubblico italiano nell’estate del 2011, quando irruppe sulla scena il loden austero di Mario Monti.

Il ruolo di capro espiatorio è inoltre toccato a D’Alema per essere subentrato nel 1998 a Romano Prodi senza passare per gli elettori con le elezioni anticipate, e per una certa spocchia rimproveratagli a volte a ragione ma a volte anche a torto.

Il povero Fausto Bertinotti, a dispetto delle buone maniere che tutti gli riconoscono, è stato buttato dal mio amico Giampaolo Pansa tra le fiamme come “il parolaio rosso” per non aver voluto a suo tempo sostenere i governi Prodi oltre le loro materiali capacità di resistenza politica.

Walter Veltroni divenne nel 2009 il capro espiatorio di alcuni rovesci locali del Pd da lui stesso fondato due anni prima, scampando al torto più consistente e per lui dannoso di essersi apparentato a livello nazionale nelle elezioni del 2008 con Antonio Di Pietro, subendone la linea.

Matteo Renzi chiude, per ora, la lista per le rottamazioni sbagliate, o per quelle incompiute. E per sopravvivere fisicamente alle sue dimissioni da segretario del Pd dopo la sconfitta del 4 marzo. Già, perché la sua stessa presenza fisica sembra infastidire i vecchi e nuovi avversari politici. E’ incredibile ma vero in questo Paese che continua a chiamarsi Italia.

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

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