Fanno un po’ una gita fuori porta, in linea col calendario in questo lunedì di Pasqua, quegli esponenti del Pd che, non avendo i numeri né nella direzione del partito né nei gruppi parlamentari per cambiare la linea tracciata da Matteo Renzi lasciando la segreteria al reggente Maurizio Martina, si appellano più o meno direttamente ed esplicitamente al presidente della Repubblica per essere tolti dal ruolo sgradito dell’opposizione ad un governo dei vincitori delle elezioni del 4 marzo. Che potrebbe essere formato da grillini e centrodestra, comprensivo -secondo le intenzioni del segretario legista Matteo Salvini- di Forza Italia, per quanti mal di pancia possa creare questa partecipazione ai dirigenti e ancor più alla base digitale del movimento delle 5 stelle.
La corte che critici ed avversari di Renzi stanno facendo a Sergio Mattarella per essere messi in gioco durante le consultazioni al Quirinale per la soluzione della crisi parte dal presupposto, tutto da verificare, che il presidente della Repubblica possa e voglia prestarsi ad un’operazione di disturbo, di strappo anziché di composizione di intese che si stanno tentando sul versante di quelli che il capo dello Stato preferisce chiamare “i prevalenti”, anziché i vincitori del 4 marzo.
Più che di costoro, delle loro possibili intese programmatiche, dei loro compromessi anche sulla scelta finale, se vi sarà, di un presidente del Consiglio da proporre al capo dello Stato, diverso sia da Salvini, che si è già dichiarato disposto a rinunciare, sia da Di Maio, che ancora resiste, convinto che undici milioni di elettori gli impediscano un passo indietro, il presidente della Repubblica dovrebbe quindi occuparsi o preoccuparsi delle vicende interne del suo partito di ultima provenienza: il Pd. Dove si vuole trasferire sul piano istituzionale una crisi che non si riesce a risolvere sul piano politico. O che non si ha la voglia o il tempo, o entrambi, di affrontare nell’unico modo possibile in una situazione ordinaria, cioè andando ad un congresso chiarificatore. Che d’altronde è statutariamente imposto dalle dimissioni del segretario sconfitto nelle elezioni: dimissioni reclamate all’annuncio dei primi exit poll elettorali, la sera del 4 marzo, e ottenute alla proclamazione dei risultati non ancora ufficiali e definitivi.
Una volta, negli anni della mai abbastanza rimpianta prima Repubblica, quando il partito di o della maggioranza si trovava in condizioni incerte un paziente e disponibile capo dello Stato provvedeva a improvvisare un governo provvisorio, d’attesa, definito anche “balneare”, per la stagione in cui di solito si creavano queste situazioni dopo elezioni di primavera. Si creò addirittura uno specialista di queste operazioni di sostanziale supplenza nella persona di Giovanni Leone, che sapeva pure scherzarci sopra da buon napoletano. E che anche per sua capacità di adattamento, di pazienza e di ironia riuscì alla fine del 1971 ad essere eletto presidente della Repubblica, non immaginando di dover concludere il suo mandato in circostanze drammatiche. Accadde nel 1978, sei mesi prima dalla scadenza del suo settennato e poco meno di due mesi dopo l’uccisione di Aldo Moro, che lui aveva tentato di evitare mettendosi di traverso alla cosiddetta linea della fermezza. Lo fece sino a predisporre la grazia ad una dei tredici detenuti con i quali i brigatisti rossi volevano scambiare il presidente della Dc sequestrato fra il sangue di tutti i cinque agenti della sua scorta, trucidati per strada.
Per non rinfacciargli questa “colpa”, temendo la impopolarità, i protagonisti della linea della fermezza, curiosamente spalleggiati dai radicali di Marco Pannella, che pure si erano battuti per la trattativa, pretesero le dimissioni di Leone a causa di una presunta questione morale smentita poi nelle aule dei tribunali, dove fu processata e condannata l’autrice di un libro contro il presidente della Repubblica, accusato di concedere grazie a pagamento, o quasi, e di essere compromesso nello scandalo degli aerei militari Loocheed venduti con tangenti all’Italia. Dopo, ma molto dopo, in tempo comunque perché lui potesse togliersi prima di morire almeno questa pur insufficiente soddisfazione, arrivarono a Leone anche le scuse dei politici che lo avevano ingiustamente allontanato dal Quirinale in una serata di giugno sotto una pioggia torrenziale, che non bastò certamente a cancellare il disonore procuratosi dalla politica con quel rito odiosamente sacrificale.
Ma, per tornare ai governi balneari del povero Leone, le pause rappresentate da quegli espedienti nascevano da crisi -ripeto- di partiti di o della maggioranza, come la Dc e il suo principale alleato socialista. Questa volta la crisi è di un Pd che non è più di maggioranza, essendo stato superato nelle urne non da uno ma da due concorrenti: il movimento delle 5 stelle e la coalizione di centrodestra, dove peraltro il bastone di comando, o qualcosa che gli assomiglia, è passato dalle mani di Berlusconi, che col Pd si metterebbe pure d’accordo, a quelle di Salvini, che col Pd non vuole governare. Non parliamo poi del giudizio che del Pd hanno sempre avuto i grillini, senza neppure tante distinzioni tra Renzi e i suoi avversari interni.