Per quanto macchiata lo stesso dall’assoluzione dell’ex ministro democristiano dell’Interno Nicola Mancino, ingiustamente raggiunto da un’accusa di falsa testimonianza che gli ha letteralmente rovinato la vecchiaia dopo una vita spesa nelle e per le istituzioni, sino a rappresentarle ai vertici del Senato e del Consiglio Superiore della Magistratura, la Procura della Repubblica di Palermo è stata salvata dalle sentenze di condanna emesse al termine del lungo, anzi lunghissimo processo di primo grado per la presunta trattativa fra organi dello Stato e la mafia nella stagione delle stragi.
Trattativa presunta, perché siamo usciti solo dal primo grado, appunto, di giudizio e non è per niente scontato che finirà così anche in appello, dove si spera che non occorrano altri cinque anni, quanto è durato il processo appena conclusosi. Ma presunta anche perché gli imputati condannati, tra militari d’alto grado, il politico Marcello Dell’Utri e mafiosi, hanno dovuto rispondere del reato non di trattativa, che non esiste, ma di minaccia a corpo politico dello Stato.
Fra le incongruenze del processo appena concluso ne sono da segnalare almeno due. Il generale dei Carabinieri Mario Mori, già capo del servizio segreto, è stato condannato dopo essere stato assolto per fatti analoghi in altre sedi giudiziarie. Assolto è stato anche l’ex ministro democristiano Calogero Mannino, processato per gli stessi fatti col rito abbreviato, da lui scelto per accelerare il verdetto.
Ce n’è abbastanza, francamente, con la già ricordata assoluzione di Nicola Mancino, per dubitare della vicenda giudiziaria nel suo complesso nota come “la trattativa”, pur con tutto il rispetto che si deve, per carità, ad una sentenza provvisoria emessa da un tribunale dello Stato in nome del popolo italiano.
Dalla vicenda processuale, al netto di ogni discussione di dottrina, e stando alla ricostruzione dei fatti, ma anche degli uomini, vivi e morti, che li contrassegnarono secondo l’accusa, dovremmo dire o pensare che un quarto di secolo fa, nel passaggio dalla prima alla seconda Repubblica, mentre i vecchi partiti di governo venivano praticamente spazzati via dalle inchieste giudiziarie sulla cosiddetta Tangentopoli, il vecchio che stava scomparendo e il nuovo che stava arrivando tramavano contemporaneamente con la mafia. Il vecchio, impersonato dall’allora capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro, attaccato dall’accusa nel dibattimento, tramava o lasciava tramare per fermare le stragi mafiose. Il nuovo, impersonato da Marcello Dell’Utri, che organizzava Forza Italia per conto di Silvio Berlusconi, perché le stragi continuassero a dare gli ultimi colpi al sistema cadente e aiutasse la successione, per terminare ad operazione completata e riscuotere contropartite legislative.
Ditemi quello che volete, con o senza l’aiuto di un testimone, Massimo Ciancimino, peraltro condannato nello stesso processo appena concluso per calunnia, figlio dell’assai poco storico sindaco di Palermo Vito Ciancimino, presunto intermediario della trattativa fra i suoi amici mafiosi e pezzi da novanta dello Stato; ditemi, ripeto, quello che volete, ma a me, vecchio cronista e analista politico, questa storia continua a non convincermi.
Ancor meno mi convince questa storia quando serve a far dire al giovane aspirante del movimento grillino a Palazzo Chigi, Luigi Di Maio, avvitatosi nella sua corsa alla guida del governo in una crisi che sta ulteriormente imbiancando i capelli del presidente della Repubblica, che con la sentenza di Palermo “muore definitivamente la seconda Repubblica”: quella, evidentemente, di Berlusconi, obiettivo dei suoi veti politici proprio in questa crisi. Definitivamente, perché Di Maio annunciò già la morte della seconda Repubblica nella notte fra il 4 e il 5 marzo scorso, quando si proclamò vincitore delle elezioni politiche e fu colto, temo, dalle prime vertigini del potere al quale si sentiva spinto, come ancora dice con orgoglio, da “undici milioni di voti”, arrotondati in eccesso.