Anche gli storici sbandano alle prese con questa crisi di governo

            La tentazione di paragonare i partiti di questa stagione politica a quelli della cosiddetta prima Repubblica,  ghigliottinata dalla magistratura più che dagli elettori, fa vacillare anche i professori, che inciampano nei paradossi. E’ il caso di Ernesto Galli della Loggia, che sul Corriere della Sera ha intravisto nel Pd uscito con le ossa rotte dalle elezioni del 4 marzo scorso il Psi portato ai suoi minimi storici nel 1976 da Francesco De Martino. Che aveva provocato il ricorso anticipato alle urne  facendo cadere il bicolore Moro-La Malfa con l’annuncio che mai più i socialisti avrebbero partecipato ad una maggioranza senza i comunisti.

            Il Pd malmesso di oggi per uscire dalla crisi in cui si trova avrebbe bisogno, fra l’altro o innanzitutto, di trovare un nuovo, dinamico e autorevole leader, come avvenne nel 1976 al Psi con Bettino Craxi. Che ridiede in effetti al suo partito grande autonomia partecipando alla maggioranza di cosiddetta solidarietà nazionale, col Pci di Enrico Berlinguer, a sostegno di due governi monocolori democristiani guidati da Giulio Andreotti, solo per il tempo necessario -due anni e mezzo- a ristabilire un’alleanza privilegiata con lo scudo crociato. Un’alleanza che Craxi volle talmente paritaria da guidarla di persona a Palazzo Chigi dal 1983 al 1987, pur avendo i socialisti molto meno della metà dei voti democristiani. Ancor meno, del resto, ne aveva il repubblicano Giovanni Spadolini, succeduto col suo 3 per cento dei voti ad Arnaldo Forlani come presidente del Consiglio già nel 1981.

            Il carattere paradossale del paragone dell’editorialista del Corriere della Sera fra il Pd di oggi e il Psi del dopo-elezioni anticipate del 1976 sta nel fatto che l’edizione 2018, diciamo così, del Pd aveva già come leader, prima delle elezioni del 4 marzo scorso, un leader dinamico, ambizioso e forte come Craxi nella persona di Matteo Renzi, costretto alle dimissioni dopo il voto con lo stesso metodo sbrigativo, o quasi, usato nel Psi 42 anni  fa contro De Martino.

            Francamente, nel Pd oggi guidato provvisoriamente dal vice segretario Maurizio Martina, in attesa di un’assemblea nazionale che deciderà se e come sostituirlo, non si vedono leader più dinamici, più grintosi, più autorevoli del sostanzialmente dimissionato Renzi: uno che assomigli a Craxi più di lui, che pure -altro paradosso a furia di fare o tentare paragoni- si è sempre rifiutato di mettere Craxi nel Pantheon della sinistra riformista, preferendogli nientedimeno che il comunista Enrico Berlinguer. Il quale negli anni Settanta e Ottanta fu il più accanito, irriducibile avversario del leader socialista, sino a morire delle sconfitte subite combattendolo. Lo ha onestamente riconosciuto nella propria autobiografia “Per passione” Piero Fassino, l’ultimo segretario dei Ds-ex Pci, rimasto nel Pd con Renzi quando i suoi vecchi compagni del Pci Massimo D’Alema e Pier Luigi Bersani ne uscirono, l’anno scorso, per antirenzismo viscerale.

            Come in un gioco perverso di scatole cinesi, ai due paradossi in cui è caduto Ernesto Galli della Loggia dovrebbe aggiungersene un altro: quello di paragonare il coraggio tattico e persino strategico di Craxi a quello di un esponente del Pd che riuscisse oggi a strappare il partito al ruolo di opposizione, assegnatogli da Renzi, per offrire al grillino candidato a Palazzo Chigi, Luigi Di Maio, il secondo forno di andreottiana memoria.

            D’altronde, già i direttore del Corriere della Sera, Luciano Fontana, ha visto tracce di Andreotti in Di Maio, che pertanto dopo avere trattato il pane di cui ha bisogno  con il leghista Matteo Salvini,  e il centrodestra che gli è alle spalle, potrebbe poi trattarlo col Pd. Dove c’è gente che muore dalla voglia di venderglielo e spera di averne l’occasione dal presidente della Repubblica, al termine del lungo percorso della crisi: quando Sergio Mattarella, sfinito dalle consultazioni avviate oggi nel bui più completo,  potrebbe tirare fuori dal cilindro e proporre un governo per il quale si sprecano le definizioni. Si parla, in particolare, di nuova solidarietà nazionale, come quella del 1976, di responsabilità, di decantazione, di emergenza, di scopo e quant’altro.  Manca solo “il governo balneare” degli anni di Giovanni Leone a Palazzo Chigi solo perché Mattarella sembra sia allergico ai governi “a termine”. E quello balneare lo sarebbe sfacciatamente.

            Nell’ottica di una soluzione della crisi trovata con un accordo fra il movimento delle 5 stelle e un Pd definitivamente affrancato dalla linea di opposizione, i grillini diventerebbero come i democristiani dei tempi antichi. Eppure ci sono esegeti di sinistra dei pentastellati che li paragonano ai comunisti di un tempo. E questi esegeti stanno nel Pd: proprio quello che l’editorialista del Corriere della Sera ha paragonato al Psi del 1976, pasticciando un po’ -a questo punto- con le due figure politicamente opposte e francamente inconciliabili come i compianti De Martino e Craxi: l’uno rassegnato e l’altro per niente ad un rapporto sostanzialmente ancillare con i comunisti, di vecchio e nuovo conio che possano essere considerati.

            Paradosso per paradosso, ci sarebbe allora da chiedersi a chi poter paragonare i leghisti e i loro alleati di centrodestra guardando ai partiti della lontana prima Repubblica, con o senza scomporli. Mi sembra francamente difficile confinarli solo nel vecchio Movimento Sociale, neppure di Gianfranco Fini ma di Giorgio Almirante. Del quale la vedova Assunta si pente ancora di avere assecondato la scelta di allevare come delfino quel giovanotto destinato ad annegare politicamente non nelle acque, ma in uno stagno di Montecarlo.  

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