Sergio Mattarella è involontariamente inciampato, per fortuna soltanto metaforicamente, nel calendario del secondo giro delle consultazioni al Quirinale. Egli ha dovuto fare spiegare con una nota stizzita dai suoi uffici il motivo per il quale ha dato l’onore o l’onere, come preferite, della chiusura degli incontri alla delegazione del movimento delle 5 stelle, anziché a quella unitaria della coalizione di centrodestra. Che ha notoriamente preso più voti dei grillini nelle elezioni del 4 marzo, e rivendica proprio per questo -almeno nella componente forzista di Silvio Berlusconi- il diritto di provare per prima la formazione del nuovo governo, pur essendo del capo dello Stato, e solo sua, la prerogativa costituzionale della nomina del presidente del Consiglio e, su proposta di questi, dei ministri.
Il fatto è che Berlusconi, pur avendo contribuito in modo decisivo dietro le quinte, data la sua ridotta agibilità politica, all’approvazione della nuova legge elettorale, di stampo prevalentemente proporzionale, continua a pensare con la logica del suo esordio in politica, nel 1994, con una legge prevalentemente maggioritaria. Che portava il nome latinizzato, conferitogli dall’indimenticabile Giovanni Sartori, dell’attuale capo dello Stato, che ne era stato il relatore alla Camera: Mattarellum.
Allora, sia pure con una forzatura rispetto alle prerogative invariate del presidente della Repubblica, si ritenne di avere affidato ai cittadini anche il compito della scelta del governo e della sua guida, nella persona di chi avrebbe vinto le elezioni disponendo, proprio per il sistema maggioritario, della maggioranza parlamentare.
Mattarella ha dovuto ricordare indirettamente proprio a Berlusconi e ai suoi amici, a torto o a ragione indicati come sorpresi dall’ordine delle nuove consultazioni, e anche ai grillini, che invece se ne vantavano vedendovi il segnale di una tendenza del Quirinale a preferirli nella corsa a Palazzo Chigi come sostanziali, se non veri e propri vincitori delle elezioni, che sul colle si sfila solo in forza della propria consistenza parlamentare. In forza della quale i grillini sono più numerosi di ciascuno dei tre gruppi parlamentari del centrodestra. I quali, dal canto loro, hanno chiesto e ottenuto di salire questa volta insieme sul colle politicamente più alto di Roma, avendo partecipato come alleati alle elezioni, ma non per questo hanno voluto costituire un gruppo parlamentare unico, tenendo evidentemente a rimanere distinti.
E distinti appaiono i tre partiti della coalizione elettorale di centrodestra, al di là dell’udienza che hanno chiesto insieme al Quirinale, nella valutazione del quadro politico, come dimostrano le cronache politiche quotidiane, al di là dei comunicati apparentemente unitari ma poi corretti sistematicamente dal segretario leghista Matteo Salvini. Che -a dirla in breve- persegue un rapporto preferenziale con i grillini anche per la formazione del nuovo governo, com’è avvenuto sino ad ora per la distribuzione delle cariche parlamentari, e non condivide la voglia di Berlusconi ch’egli faccia concorrenza agli stessi grillini corteggiando il Pd. Del quale il leader leghista non vuole neppure sentir parlare, pur rifiutando le pregiudiziali contro Berlusconi poste un giorno sì e l’altro pure dal movimento delle 5 stelle: pregiudiziali che bloccano una trattativa di governo, e conseguentemente la crisi che il capo dello Stato deve gestire.
Le spiegazioni, e precisazioni implicite, del Quirinale sull’ordine del secondo giro delle consultazioni sono indicative anche dell’esito infruttuoso al quale sono condannati i nuovi incontri del presidente della Repubblica. Che risulta ora indeciso fra un terzo giro di udienze, che teme però possa apparire al pubblico “quasi una pagliacciata”, come ha scritto sul Corriere della Sera l’assai introdotto quirinalista Marzio Breda, e il ricorso ad un “esploratore”, come hanno fatto più volte i suoi predecessori a scopo di sostanziale decantazione rivolgendosi prevalentemente ai presidenti delle Camere.
Il grillino Roberto Fico, il nuovo presidente della Camera, con quella simpatica barba che porta, ha l’aspetto fisico ideale di un esploratore. Ma è troppo fresco di elezione al vertice di Montecitorio, e troppo impegnato nelle vicende interne del suo movimento, perché Mattarella possa investirlo di questo ruolo. Considerazioni analoghe, sul piano dell’esperienza e della sua caratura politica, valgono per la nuova presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati. Che di esplorazioni ha preferito sinora solo quella del canal grande di Venezia in gondola, e pompa magna.
Marzio Breda, sempre lui, ha pescato sul Corriere il precedente dell’esplorazione affidata nel 1996 dall’allora capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro ad Antonio Maccanico, già segretario generale del Quirinale con Sandro Pertini. Erano i giorni della crisi del governo di Lamberto Dini, quando Scalfaro cercò di evitare le elezioni anticipate con un governo ispirato ad una riforma della Costituzione, e quindi di larghe intese. Non se ne fece nulla, con grande sollievo di Romano Prodi, appena incoronato leader del centrosinistra da Massimo D’Alema e voglioso di andare alle urne. Dalle quali in effetti sarebbe uscito vincitore su Berlusconi, ma destinato a rimanere a Palazzo Chigi per metà soltanto della nuova legislatura.
Quello di Maccanico tuttavia fu un incarico esplorativo per modo di dire. Era implicito che si traducesse nell’incarico di presidente del Consiglio se l’esploratore fosse riuscito a trovare un accordo, al quale Berlusconi avrebbe anche aderito se non fosse stato trattenuto da Gianfranco Fini, salvo poi pentirsene.
Oggi un esploratore, francamente, non saprebbe neppure che cosa e dove esplorare, tanto è fitta la nebbia scesa su questa crisi di governo, condizionata anche dai risultati delle elezioni regionali in Molise e in Friuli Venezia Giulia in programma in questo mese.