Il forno piddino della crisi attivato dai grillini ha un pò troppi problemi

            La foto scelta dal giornale il manifesto per la copertina della sua prima pagina, con quel titolo sul “forno a micro onde” costituito dalla delegazione del Pd, chiamata a vendere il proprio pane ai grillini, contiene il presidente della Camera Roberto Fico sorridente e sornione. Sembra compiaciuto, a guardarlo con la malizia di un vecchio cronista politico, dello spettacolo che in quel momento egli sta prenotando per il successivo incontro da esploratore con la delegazione del proprio partito guidata dal quasi conterraneo Luigi Di Maio, l’aspirante irriducibile a Palazzo Chigi. Che è stato infatti costretto dopo alcune ore, uscendo proprio dall’ufficio di Fico, a rinunciare -almeno in questa fase della crisi- all’altro forno frequentato dall’apertura di questa diciottesima legislatura: quello intestato dallo stesso Di Maio solo al segretario leghista Matteo Salvini, ignorandone o disprezzandone i soci elettorali e politici Silvio Berlusconi e Giorgia Meloni, ma soprattutto Berlusconi naturalmente. Di cui pure la fedelissima Maria Elisabetta Alberti Casellati è stata votata dai grillini alla presidenza del Senato.

            Anche Fico naturalmente si trova dov’è, alla presidenza della Camera, grazie ai voti ordinati da Berlusconi ai deputati forzisti. Ma vi si trova senza essersi sporcato, diciamo così, le mani politicamente, avendo lasciato gestire il suo arrivo al vertice di Montecitorio da Di Maio.

            Il forno piddino -o pidiota, come preferiscono definirlo i detrattori- aperto da Fico come esploratore mandato in campo dal presidente della Repubblica ha tuttavia problemi, diciamo così, di funzionamento per i contrasti che dilaniano, più ancora di dividere, il partito affidato alla reggenza di Maurizio Martina, dopo le dimissioni di quel pezzo da novanta che rimane pur sempre Matteo Renzi. Il quale non è per niente convinto, a dir poco, della praticabilità di un’intesa con i grillini, e dell’affidabilità dei loro repentini cambiamenti o aggiornamenti. Egli non ha confermato ma neppure smentito la felicissima battuta attribuitagli sulla necessità di sottoporre Luigi Di Maio alla macchina della verità ogni volta che parla, sia per aprire sia per chiudere in questa o in quella direzione.

           mauro 1jpg.jpg Curiosamente a dare ragione alla diffidenza di Renzi è appena intervenuto su Repubblica l’ex direttore Ezio Mauro, che pure non è proprio tra i tifosi dell’ex segretario del Pd. Egli ha rappresentato la situazione maturata con i primi passi dell’esplorazione di Fico con l’immagine di “una strana rivoluzione”, quella reclamata dai grillini, “andata in porto perché gli assediati”, cioè i piddini o pidioti, “hanno aperto di notte le porte del Palazzo”. Che non è francamente uno spettacolo bello né per gli assediati né per gli assedianti.

           mauro 1jpg.jpg Col rigore piemontese e un po’ anche calvinista che lo distingue l’ex direttore di Repubblica si è spinto anche oltre, reclamando chiarezza e trasparenza a entrambe la parti in causa in questa nuova fase che si è aperta nella crisi, come l’ha chiamata il reggente del Pd. In particolare, Mauro ha chiesto al movimento grillino e al Pd di “spiegare la svolta” ben bene. “Altrimenti -ha scritto- il modello non è Cavour, ma Giano bifronte”.

            Ben scritto, amico mio. Ma il guaio è che sono trascorsi quasi due mesi dalle elezioni del 4 marzo ed entrambi i partiti interessati a questa nuova fase -ripeto-  della crisi non sembrano avere né il tempo né gli strumenti, addirittura,  per chiarirsi bene le idee e chiarirle agli altri, a cominciare naturalmente dagli elettori.

            Il tempo passato dal voto è tale che le scadenze inderogabili, di carattere internazionale e interno, e l’uso o abuso delle normali o abituali procedure, tra consultazioni al Quirinale ed esplorazioni nei dintorni, non ne lasciano ancora molto al capo dello Stato per riempire il vuoto di governo creato con la crisi, per quanto sia in carica la compagine ministeriale uscente di Paolo Gentiloni per i cosiddetti affari correnti. E poi, entrambi i partiti sembrano francamente sprovvisti ormai, come accennavo, dei tradizionali attrezzi di un chiarimento politico.

            Se provate a parlare di un congresso ai grillini rischiate o le pernacchie o l’ambulanza, praticando quei signori la cosiddetta democrazia digitale. A stento, accettano ancora il rito delle elezioni per il rinnovo delle Camere perché fortunatamente imposte dalla Costituzione. Dalle parti invece del Pd il congresso, già minato o alterato dalle primarie preventive o di accompagnamento, aperte anche ai non iscritti, il congresso non è cosa che possa essere indetto e portato a termine in qualche settimana.  Almeno mentre scrivo, non sono neppure riusciti a fissare al Nazreno la data per una riunione della direzione, dopo avere sconvocato all’ultimo momento l’Assemblea nazionale.

Addio a Giovanni Galloni, storico esponente della sinistra democristiana

Non credo di tradirne l’amicizia, ora che è morto, ricordando uno degli esponenti più storici e famosi della sinistra democristiana, Giovanni Galloni, attraverso alcuni aspetti e particolari della nostra lunga frequentazione. Che cominciò nella lontana estate del 1968, quando lui approdò alla Camera e, parlando alla buvette, ci scoprimmo entrambi estimatori di Aldo Moro, appena allontanato da Palazzo Chigi dopo quasi cinque anni di ininterrotta guida del centrosinistra cosiddetto “organico”.

La Dc era uscita sostanzialmente indenne dalle urne col suo 39 e rotti per cento di voti, ma i “dorotei”, che costituivano la corrente più forte del partito ed erano rappresentati dal segretario Mariano Rumor, non gli avevano perdonato la troppa accondiscendenza, secondo loro, con i socialisti. I quali, dal canto loro, curiosamente non gli avevano perdonato l’insuccesso elettorale dell’unificazione avvenuta due anni prima fra il Psi di Pietro Nenni e il Psdi di Giuseppe Saragat, eletto al Quirinale alla fine del 1964 proprio grazie all’azione persuasiva condotta da Moro nella Dc. Dove Saragat non godeva in quel momento di grandi simpatie perché durante un alterco proprio con lui alcuni mesi prima il democristianissimo Antonio Segni era stato colto da un ictus invalidante.

Il moroteismo, diciamo così, di Galloni mi sorprese perché la sua corrente, chiamata Base, diretta con mano ferma da Giovanni Marcora, detto Albertino, al Nord e da Ciriaco De Mita al Sud, aveva a larghissima maggioranza un rapporto privilegiato con l’altro “cavallo di razza” della Dc. Che era Amintore Fanfani.

Di Moro non piacevano ai basisti i tempi, considerati troppo lunghi. Ed anche una certa diffidenza verso i comunisti, sulla cui evoluzione invece i basisti scommettevano anche per ridurre il potere contrattuale dei socialisti.

In verità, nell’autunno proprio di quell’anno, una volta cacciato all’opposizione interna più che passatovi autonomamente, Moro spiazzò i suoi critici di sinistra con una lettura aperta della contestazione giovanile in corso e con la proposta della cosiddetta “strategia dell’attenzione” verso il Pci. Cui i “dorotei” andando a Palazzo Chigi con Rumor offrirono poi disinvoltamente un centrosinistra “più coraggioso e incisivo”, non più “delimitato a sinistra”, com’era avvenuto con i precedenti governi di Moro.

Ma neppure il Moro della “strategia dell’attenzione” al Pci riuscì a staccare i basisti dal rapporto preferenziale con Fanfani, che pure si inalberava a sentir parlare Moro del centrosinistra come di una formula “irreversibile”. E questo era per Galloni un cruccio, al quale però non ebbe mai neppure la tentazione di reagire passando all’altra sinistra della Dc: quella di origine e natura sindacale, chiamata Forze Nuove e guidata da Carlo Donat-Cattin. Quando lo stimolavo in quella direzione, dove Donat-Cattin lo aspettava a braccia aperte, Giovanni mi rispondeva scandalizzato dicendo che le battaglie politiche si conducono dentro e non fuori i gruppi di appartenenza, fossero correnti o partiti.

I nodi di questa concezione dell’appartenenza che aveva Galloni vennero al pettine alla fine del 1971, quando alla scadenza del mandato di Saragat la Dc tentò la riconquista del Quirinale con Fanfani, disciplinatamente votato da Giovanni, per quanto lui preferisse Moro. Che però non era il candidato del partito e se ne stava in quel momento un po’ distaccato dalla corsa al colle più alto di Roma con i suoi impegni di ministro degli Esteri.

Quando la candidatura di Fanfani naufragò tra gli scogli dei “franchi tiratori” del suo partito, la diffidenza e a volte anche l’ostilità degli alleati di governo e l’opposizione comunista, alimentata quotidianamente dagli urticanti corsivi di Fortebraccio sull’Unità, Moro uscì dal suo riserbo ed entrò in gara, ma solo all’interno del partito. Dove fu stoppato per pochissimi voti, a scrutinio segreto dei gruppi parlamentari congiunti, dalla candidatura di Giovanni Leone, concordata all’esterno della Dc fra i “dorotei” e soprattutto i repubblicani.

In quel passaggio Galloni visse un vero e proprio tormento. Votò inutilmente per Moro, mentre gran parte dei suoi colleghi di corrente votò per Leone, il cui figliolo Mauro d’altronde era già o sarebbe diventato presto -non ricordo più bene- consigliere nazionale della Dc proprio per la sinistra di Base. “Hanno fatto -mi confidò Galloni parlando degli amici di corrente- un torto ingiusto a Moro e un cattivo servizio a Leone, condannandolo a gestire una fase politica pericolosa”.

Il centrosinistra infatti si interruppe. La Dc sostituì i socialisti con i liberali di Giovanni Malagodi al governo e si incamminò verso quel referendum sul divorzio che, gestito proprio da Fanfani alla segreteria del partito nel 1974, avrebbe compromesso duramente la lunga primazia politica dello scudo crociato.

Ma di Leone il povero Galloni era destinato ad occuparsi drammaticamente nella primavera del 1978, dopo la tragica fine di Moro, che già l’aveva tormentato partecipando come vice segretario della Dc alla gestione della cosiddetta linea della fermezza. Una linea dove Moro, dalla prigione delle brigate rosse, stentava a credere davvero che fosse sinceramente attestato l’amico Galloni, di cui faceva ricorrentemente il nome nelle lettere ai democristiani incitandoli a salvargli la vita, anche a costo di trattare con i terroristi che lo avevano sequestrato sterminandone la scorta.

Alla fine di Moro seguì quella anticipata del settennato presidenziale di Leone. Ebbene, toccò proprio a Galloni andare al Quirinale, mandatovi dal segretario del partito Benigno Zaccagnini, per chiedere al capo dello Stato il “sacrificio” delle dimissioni, reclamate con una paradossale simmetria dai radicali di Marco Pannella e dal Pci di Enrico Berlinguer per una malintesa questione morale. Che era destinata a evaporare sul piano giudiziario con la condanna della giornalista Camilla Cederna, autrice di un libro scandalistico su Leone. La cui colpa vera, forse, era stata solo quella di essersi messo di traverso alla linea della fermezza durante il sequestro Moro, cercando di favorire lo scambio fra l’ostaggio e una detenuta per terrorismo compresa nell’elenco dei tredici “prigionieri” dei quali i terroristi avevano reclamato la liberazione. Per quella detenuta -Paola Besuschio- Leone aveva predisposto la grazia, che non fece in tempo a firmare perché Moro fu ucciso -deliberatamente- poche ore prima.

Vent’anni dopo quei terribili fatti, avendogli appena detto che stavo preparando un’intervista a Leone per Il Foglio,  Galloni mi chiese di riferirgli ciò che lui non aveva mai osato dirgli direttamente, tanto era il rimorso per quella visita al Quirinale commissionatagli dall’ormai scomparso Zaccagnini. “L’unica cosa di cui mi vergogno nella mia lunga attività politica- mi incaricò di dirgli- è quella richiesta di dimissioni”. Leone, col quale del resto si erano già scusati pubblicamente Pannella e i comunisti, gradì. Ne riferii nell’intervista. E Leone tolse Galloni dall’imbarazzo telefonandogli personalmente.

Di un’altra cosa invece Galloni non riuscì mai a darsi pace, sino agli ultimi incontri che avemmo alla Camera e nei suoi dintorni, fino a quando le sue condizioni di salute gli permisero di uscire e di consegnare personalmente agli amici i saggi che continuava a scrivere e a pubblicare, facendoci lo sconto sui prezzi di copertina: saggi della consueta lucidità.

Giovanni non riuscì mai a dimenticare, in particolare, il rude trattamento riservatogli dall’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga, quando lui ne era il vice al vertice del Consiglio Superiore della Magistratura. Cossiga arrivò nel 1991 a ritirargli pubblicamente quasi tutte le deleghe, restituitegli poi dal successore Oscar Luigi Scalfaro.

La contesa, chiamiamola così, era scoppiata attorno al diritto nuovamente rivendicato da Cossiga, dopo un episodio analogo verificatosi col precedente Consiglio Superiore, ai tempi del governo Craxi, di dire l’ultima parola sugli ordini del giorno dell’organo di autogoverno della magistratura. La cui presidenza è affidata dalla Costituzione al capo dello Stato.

I rapporti tra la magistratura e il Quirinale erano tesissimi. Si arrivò alla proclamazione di uno sciopero nei tribunali contro il presidente della Repubblica, cui si rifiutò di aderire a Milano, con tanto di cartello appeso alla porta del suo ufficio, il sostituito procuratore Antonio Di Pietro. Che Cossiga naturalmente volle poi conoscere personalmente, instaurando con lui rapporti altrettanto naturalmente destinati poi a rompersi.

Ma la vice presidenza del Consiglio Superiore della Magistratura fu dolorosa per Galloni anche dopo la presidenza di Cossiga, in particolare quando le inchieste giudiziarie sul finanziamento illegale della politica travolsero i partiti di governo e l’intera cosiddetta prima Repubblica. Galloni era sommerso dalle proteste di vecchi amici di partito e non, che volevano da lui interventi risolutivi contro questo o quel magistrato, o questa o quella Procura, che spesso gli erano impediti, se non al prezzo di forzature in un clima politico peraltro arroventato dalla paura e dai ricatti.

Galloni mi raccontò, fra l’altro, di una mattina in cui irruppe letteralmente nel suo ufficio, travolgendo tutti i commessi e gli agenti della sorveglianza, la moglie dell’ex ministro della Giustizia, ed ex sindaco di Roma, Clelio Darida, appena arrestato a casa, sul lungotevere, e tradotto al carcere milanese di San Vittore con l’accusa di corruzione per taluni lavori della Metropolitana della Capitale.

La signora Darida, Wilma, era una vecchia amica di famiglia di Galloni e non si dava pace che il marito potesse avere ricevuto un simile trattamento, rilevatosi poi doppiamente ingiusto. I magistrati milanesi non avevano il diritto di occuparsi di Darida, che poi sarebbe stato prosciolto dalla magistratura di Roma senza neppure il rinvio a giudizio. “Mi sentii morire -mi raccontò Giovanni- per l’impotenza in cui mi trovavo e per la consapevolezza, che avvertivo, delle ragioni di Wilma. Fu un periodo terribile, peggiore di quello che mi aspettava dopo qualche anno in macchina, quando rischiai di morire davvero in un incidente”. E dal quale, debbo dire, il povero Galloni non si riprese mai davvero.

Addio, caro Giovanni. E scusami se ho attinto a ricordi riservati, che mi sono però apparsi utili a far capire a chi non ti ha conosciuto quanto onesto tu fossi, e quanto pesante possa diventare per un uomo mite come tu eri l’esperienza politica: tu che, come professore di diritto agrario, ti trovasti nel pieno di uno scontro di poteri senza uguali, credo, nella storia più che settantennale della Repubblica italiana. Uno scontro peraltro che continua e ammorba la democrazia.

 

 

 

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

 

 

 

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