La sentenza sulla trattativa Stato-mafia irrompe nella crisi di governo

            A dispetto dei Corazzieri che ne proteggono giorno e notte l’inviolabilità, il presidente della Repubblica ha dovuto subire la pur metaforica irruzione di un magistrato nelle riflessioni sulla crisi di governo. Per le quali egli si era appena dato due giorni di tempo, dopo il rapporto dell’esploratrice Maria Elisabetta Alberti Casellati, presidente del Senato.

            Il magistrato, peraltro tra i più scortati d’Italia, è Nino Di Matteo. Che, compiacendosi del lavoro svolto come accusatore al lunghissimo processo di primo grado a Palermo sulla trattativa che si sarebbe svolta fra pezzi dello Stato e la mafia nella stagione stragista del 1992 e 1993, ha commentato così la sentenza di condanna appena emessa dalla Corte d’Assise, ma naturalmente non depositata e quindi dalle motivazioni ancora ignote: “La Corte ritiene provato il fatto che dopo il rapporto con il Berlusconi imprenditore c’è quello con il politico”.

            Berlusconi naturalmente è Silvio, il presidente di Forza Italia, 82 anni da compiere a fine settembre, tra i protagonisti della crisi di governo in corso, per quanto dall’agibilità politica ancora ridotta. Egli si dibatte, appunto in questa crisi, fra il veto posto contro di lui e il suo partito dai grillini nelle trattative per la formazione del nuovo governo e il rischio di rompere col suo alleato leghista Matteo Salvini. Il quale, a sua volta, è corteggiatissimo dall’aspirante pentastellato a Palazzo Chigi, Luigi Di Maio, perché si decida a rompere con l’ingombrante Cavaliere, specie ora che, dopo averne elettoralmente sorpassato il partito, lo vede esposto alla gogna palermitana.  Ma per ora Salvini ha preferito  sfidare il Cavaliere a cercare “da solo” un’intesa col Pd, preferito alle 5 stelle dall’ex presidente del Consiglio per cercare di chiudere la crisi.

Di Matteo con Dibba.jpg       Di Matteo, che conosce i grillini per esserne continuamente elogiato, sino ad esserne corteggiato come possibile ministro della Giustizia, e per essere stato illustre ospite di loro convegni, uno dei quali recente in quel di Ivrea, ha fornito col suo commento alla sentenza di Palermo, volente o nolente, munizioni alla propaganda antiberlusconiana del movimento delle 5 stelle. Una campagna ricambiata nelle ultime ore dal Cavaliere con parole e immagini anche pesanti, da “cessi”: quelli della sua Mediaset, alle cui pulizie l’uomo di Arcore destinerebbe i rivali politici, e personali.

            Purtroppo, per Di Matteo, Berlusconi non era e non è nell’elenco degli imputati del suo processo. Ce lo ha praticamente ficcato lui nella lista come imputato di pietra per via di un’altro imputato vero, e condannato a 12 anni per la “trattativa”: l’ex senatore e co-fondatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri, già in carcere, per quanto gravemente malato, per concorso esterno in associazione mafiosa.

            La coincidenza fra la sentenza di Palermo, per quanto solo di primo grado, il commento di Di Matteo e le reazioni politiche non ha sottratto nessun giornale a titoli che parlano da soli, a dimostrazione di quella irruzione metaforica, di cui ho scritto all’’inizio, nelle “riflessioni” del capo dello Stato. Che dovrà assumere nei prossimi giorni, se non nelle prossime ore, nuove iniziative per cercare di fare uscire la crisi dallo “stallo” da lui stesso denunciato prima di sperare inutilmente nell’esplorazione della presidente del Senato.

          
Corsera.jpg             “La sentenza può pesare sulla nascita del governo”, ha titolato non il Corriere dei piccoli ma il Corriere della Sera in prima pagina col commento di Giovanni Bianconi. Che -vi assicuro- è un signor giornalista, non un mitomane trovato per strada dal direttore Luciano Fontana e imprudentemente assegnato a funzioni e ruoli delicati.

Il Foglio.jpg

            “Sentenza grillina sulla Trattativa”, ha titolato in turchese Il Foglio di Giuliano Ferrara e ora anche di Claudio Cerasa, seguendo il ragionamento di uno specialista di vicende mafiose, giudiziarie e non, come Giuseppe Sottile, ponendosi qualche interrogativo sul peso che hanno potuto avere i giudici popolari della Corte d’Assise e non ignorando certamente Nino Di Matteo. Sul cui conto Il Foglio ha scritto polemicamente tante volte, finendone anche querelato, ma uscendone recentemente assolto.

           Il Fatto.jpg Il giornale diretto da Marco Travaglio –il Fatto Quotidiano- è stato naturalmente all’altezza delle peggiori aspettative, traducendo l’interpretazione della sentenza data da Di Matteo in questo titolo di copertina a caratteri di scatola: La trattativa c’è stata e B. è il suo profeta”. B. naturalmente è Silvio Berlusconi, l’ossessione di Travaglio, dei grillini e di altri ancora. Un Berlusconi che, non avendo potuto entrare nella lista degli imputati del processo chissà per quale sbadataggine degli inquirenti, è stato associato in un fotomontaggio a due degli imputati veri, entrambi condannati a 12 anni di reclusione, salvo assoluzione in appello: il già citato Dell’Utri e il generale dei Carabinieri Mario Mori, assolto per fatti analoghi in altra sede giudiziaria e responsabile, evidentemente a sua insaputa, della cattura di un bel po’ di mafiosi, compreso l’allora capo dei capi Totò Riina. Che, scampato da defunto all’esito del processo, starà ridendo dall’aldilà della propria vendetta, come ha detto l’avvocato del generale .

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