Condivido il rimpianto di Giovanni Sartori, Vanni per gli amici, che ad un anno dalla morte ha espresso sul Fatto Quotidiano un esperto di politologia come Gianfranco Pasquino. Ah, quanto mi manca in questa ingarbugliatissima situazione politica la sarcastica e spietata capacità del professore fiorentino di rappresentarla, sezionarla e giudicarla. Lo immagino con quelle mani congiunte come in una preghiera laica e quegli occhi rivolti, anzi sbarrati in alto come per chiedere che cosa avesse fatto lui di male per doversi trovare di fronte ad una simile sciagura da interpretare e bollare alla sua maniera.
Ha fatto in tempo, il povero Sartori, alla bella età dei 93 anni che stava per compiere, a risparmiarsi lo spettacolo della vittoria virtuale dei grillini nelle elezioni politiche del 4 marzo scorso: virtuale, semplicemente perché insufficiente a realizzare, per fortuna, il loro sogno di governare da soli. E ciò anche se l’aspirante pentastellato a Palazzo Chigi Luigi Di Maio stenta a rendersene conto, o finge di non essersene ancora accorto ogni volta che ripete le sue giaculatorie ambiziose col richiamo persino ossessivo agli “undici milioni di elettori” che lo avrebbero incoronato presidente del Consiglio. Come se gli altri 22 milioni e rotti di voti, distribuiti fra centrodestra, centrosinistra, liberi e uguali, e disuguali ancora più sparsi, non dovessero contare nulla in una democrazia, per quanto malandata essa sia.
Del grillismo, comunque, era bastato a Sartori vedere gli esordi nelle elezioni amministrative del 2007 per non riderne soltanto. E per rimproverarne le origini o cause nella “retorica ipocrita dello spontaneismo dispensata da Romano Prodi e da Silvio Berlusconi”: l’uno allora al governo e l’altro all’opposizione, ma destinato a tornare l’anno dopo, e per l’ultima volta, a Palazzo Chigi. Intanto a Firenze, la sua Firenze, si faceva le ossa come amministratore locale Matteo Renzi, destinato ad essere liquidato da Sartori, una volta assurto a livello nazionale, come “un imbroglione aggressivo”. Sulla cui riforma costituzionale bocciata il 4 dicembre del 2016 il professore non versò certamente lacrime, ma non per questo si prodigò in elogi per i vincitori del referendum, fra i quali c’erano personaggi di cui Sartori diffidava fortemente, a dir poco, a cominciare da Berlusconi, considerandoli dei pasticcioni.
Peccato che il professore non ci sia più anche per il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che avrebbe potuto ispirarsi a qualche suo monito o consiglio nelle fatiche che lo attendono con le consultazioni per la formazione del nuovo governo. Lo scrivo con cognizione di causa perché, per niente infastidito dall’ironia fatta da Sartori anche sulla legge elettorale che luì battezzò “Mattarellum” aprendo la serie di leggi latinizzate nei loro difetti, come il “Porcellum”, l’attuale capo dello Stato fu tra i più generosi nel celebrare Sartori alla notizia della sua morte.
“E’ stato -scrisse di suo pugno Mattarella di Sartori- maestro della scienza della politica. Spirito libero e indipendente, ha sempre incoraggiato e insegnato la formazione del giudizio critico. La molteplicità delle sedi in cui ha sviluppato ed esposto il suo pensiero -scientifico, didattico, giornalistico- lo ha reso autorevole protagonista del confronto culturale sulle istituzioni, non soltanto in Italia, contribuendo al rigore del dibattito sulla democrazia”. Un rigore, quello di Sartori, che rimarrà a lungo senza uguali.