Clamoroso spintone di Crosetto a Berlusconi sulla strada del governo

            Ospite di Massimo Giletti a quella strana Arena televisiva de la 7 che è e non è, Guido Crosetto con la sua stazza da gigante, ben oltre il quintale, ha dato al suo amico Silvio Berlusconi uno spintone, per quanto metaforico, tale da fargli rimpiangere l’impietoso inciampo di qualche giorno fa in un teatro a Isernia. Dove il Cavaliere sta guidando personalmente la campagna elettorale molisana per rimontare domenica prossima in regione il fastidioso sorpasso subìto a livello nazionale il 4 marzo scorso ad opera della Lega.

            Proprio a conclusione di una domenica inutilmente trascorsa dai cronisti politici in attesa di un incontro fra il leghista Matteo Salvini e il grillino Luigi Di Maio, o viceversa, Crosetto ha impietosamente indicato nella testardaggine di Berlusconi la causa dello “stallo” della crisi di governo denunciato dal capo dello Stato Sergio Mattarella dopo il secondo e infruttuoso giro delle consultazioni al Quirinale. Dove lo stesso Berlusconi giovedì scorso ha dato spettacolo, letteralmente, nella Loggia delle Vetrate negando “l’abc della democrazia” al partito cui Salvini, da lui incoronato nuovo leader del centrodestra, si era appena rivolto per primo come interlocutore sulla strada di una nuova maggioranza: il movimento grillino delle 5 stelle.

           Crosetto.jpgApprodato negli anni scorsi tra i Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni lasciando Forza Italia prima ancora  che questa si ricostituisse dopo il collasso infelice del Pdl, inteso come Partito delle Libertà, Crosetto ha detto da Giletti che la crisi si risolverebbe d’incanto se Berlusconi accettasse il sacrificio di un passo indietro, o di lato. Ciò basterebbe ai grillini per rimuovere il veto posto alla partecipazione di Forza Italia al nuovo governo.

            Temo, per Crosetto, ma anche per Salvini, e in fondo anche per Mattarella, e per le sue riflessioni sul conferimento di un incarico nei prossimi giorni, che Berlusconi non l’abbia presa bene, convinto com’è, ed ha gridato nei comizi in Molise, che non intende farsi dire da altri che cosa egli debba o non debba fare di se stesso e del suo partito. Dove magari ci sarà qualcuno d’accordo per ragioni anagrafiche col coordinatore 54.enne dei Fratelli d’Italia Crosetto, peraltro ancora convinto dei meriti e delle qualità del Cavaliere, ma non ha il coraggio di dirlo.

            Berlusconi, d’altronde, misura gli anni in modo diverso dagli altri. Lui dà più importanza all’età “percepita”, come la chiama, che a quella che scorre inesorabilmente col calendario. E soprattutto s’infuria se l’età anagrafica viene usata strumentalmente per fargli pagare colpe che egli non ritiene di avere, specie se queste si traducono nel “male assoluto”, nel “delinquente”, nello “stragista mafioso” e in tutti gli altri improperi che gli gridano addosso gli avversari, del nuovo conio grillino o del vecchio conio comunista o post-comunista.

            Ad aiutare Berlusconi a contare gli anni, i suoi anni, in modo diverso dagli altri contribuiscono anche la presenza sulla scena, o nel dibattito politico, di persone anche più anziane di lui, come il presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano, che marcia verso i 93 anni, e l’eco che riescono ancora a suscitare le sue parole, i suoi gesti, le sue lettere. Come quella ancora fresca d’inchiostro, diciamo così, al Corriere della Sera sulla necessità e urgenza di un governo italiano “autorevole” in grado di svolgere addirittura un’opera di mediazione, analoga a quella da lui condotta a Pratica di Mare quando era a Palazzo Chigi, fra Russia e America, e ora anche l’Unione Europea, per salvaguardare la pace dove non c’è o viene minacciata, non solo in Siria.  

Berlusconi dirotta sull’alleato Salvini uno dei missili americani contro la Siria

            Diavolo di un uomo, e di un Cavaliere, quale ha ripreso o non ha mai smesso di essere anche dopo la condanna definitiva di cinque anni fa per frode fiscale, Silvio Berlusconi ha fatto un’altra irruzione clamorosa nella crisi di governo. Egli ha praticamente dirottato verso il suo alleato Matteo Salvini uno dei missili lanciati da americani, inglesi e francesi contro gli arsenali chimici siriani di Assad.

           Giornale su Salvini.jpg  Prima Berlusconi, in missione elettorale in Molise, ha disapprovato il “pazzesco” pronunciato da Salvini contro il lancio di quei missili, rimproverandogli di non avere preferito un più utile e saggio silenzio. Mancato il quale, il Giornale della famiglia dell’ex presidente del Consiglio ha sparato contro il segretario leghista, per quanto incoronato personalmente giovedì da Berlusconi nella loggia quirinalizia delle Vetrate “nostro nuovo leader”, un titolo di prima pagina che lo indica come come l’uomo che poco onorevolmente “marca visita”.

            Poi il Cavaliere ha preso carta e penna per scrivere una lettera al Corriere della Sera, che gliel’ha pubblicata bene in evidenza, fra richiamo in prima pagina e vistoso titolo interno, e impartire una mezza lezione di politica estera al suo alleato leghista, pur mai citato. Ma anche agli altri attori della crisi entrata nello “stallo” denunciato con sconforto e preoccupazione dal presidente della Repubblica.

  lettera Berlusconijpg.jpg        In particolare, Berlusconi ha sottolineato il carattere circoscritto dei bombardamenti alleati contro gli armamenti chimici siriani vietati dalle leggi e convenzioni internazionali. Ed ha riproposto la sua opinione che dalla crisi in quella regione cruciale anche per i nostri interessi nazionali non si possa uscire senza accordi diplomatici fra i russi, che proteggono il regime siriano salvandolo sinora dalla guerra civile in corso da tempo, gli americani e l’Unione Europea.

            L’Italia, secondo Berlusconi, potrebbe svolgere per i suoi rapporti internazionali e per la sua stessa collocazione geografica una preziosa e persino risolutiva azione di mediazione, ripetendo il miracolo che lui si vanta ancora di avere realizzato a suo tempo a Pratica di Mare, come presidente del Consiglio, mettendo d’accordo Putin e la Nato, se non fosse paralizzata dalla crisi politica in corso. Dalla quale pertanto è ancora più urgente e necessario uscire con la formazione di un governo “non qualsiasi, con una qualsiasi maggioranza parlamentare”, ma “autorevole sul piano interno e internazionale, interlocutore riconosciuto e capace di farsi ascoltare dalle maggiori potenze”.

            A questo governo “autorevole” dovrebbero concorrere “tutte le forze politiche responsabili”, alle quali si è genericamente rivolto Berlusconi pensando probabilmente anche, se non soprattutto, al Pd. Di cui invece il suo alleato Salvini non vuole neppure sentir parlare come di un alleato di governo, così come il grillino Luigi Di Maio, preferito da Salvini come interlocutore per una nuova maggioranza, non vuole sentir parlare di Berlusconi e, più in generale, della sua Forza Italia, pur avendo concorso all’elezione di sue due esponenti alla presidenza del Senato e ad una delle vice presidenze della Camera.

           Se e come la lettera di Berlusconi al Corriere della Sera sia destinata a influire sulle riflessioni in corso al Quirinale, dove Mattarella intende passare dalle consultazioni al conferimento di un primo incarico, non si sa ancora di quale natura, è difficile dire allo stato delle cose. Altrettanto difficile è tentare l’individuazione della personalità alla quale Berlusconi, non ancora agibile del tutto sul piano politico, pensa per la guida del governo proposto a tutte le forze politiche “responsabili”, anche se si è già scritto e parlato nei giorni scorsi del suo ex ministro degli Esteri Franco Frattini, non più parlamentare, o di Antonio Martino, pure lui ex ministro degli Esteri, ma anche della Difesa, ed ex parlamentare.

           Di tutt’altro segno sono naturalmente le visioni o immaginazioni di un grande consigliere della Sinistra italiana, con la maiuscola, quale si considera il vegliardo Eugenio Scalfari. Che nel consueto appuntamento domenicale con i lettori della sua Repubblica, quella di carta, ha in qualche modo invertito l’ordine delle gerarchie di governo suggerito la domenica precedente. Questa volta, anche lui pensando pure al quadro internazionale, ma escludendo che esistano spazi per una mediazione italiana nei conflitti che ci assediano, ha proposto per Palazzo Chigi il grillino Luigi di Maio, il cui movimento potrebbe essere ormai considerato di centrosinistra, avendone ereditato buona parte dell’elettorato, e per la Farnesina, magari anche come vice presidente del Consiglio, il capo del governo uscente Paolo Gentiloni, del Pd.

Salvini e forse anche Mattarella hanno perdonato il cabaret a Berlusconi

            Le ultime dal fronte della crisi, dopo “lo stallo” lamentato dal presidente della Repubblica a conclusione del secondo giro delle consultazioni al Quirinale, sono una notizia e un bacio immaginario.

            La notizia è il perdono concesso da Matteo Salvini a Silvio Berlusconi per quella “battutaccia” contro i grillini rimproveratagli anche dai leghisti, oltre che dagli stessi grillini, spiazzati entrambi dal cabaret improvvisato dal Cavaliere nella Loggia delle Vetrate.

           La battutaccia è naturalmente quella sul movimento delle 5 stelle privo “dell’abc della democrazia” per l’ostracismo dichiarato a Berlusconi personalmente e al suo partito, nonostante i cinque milioni e rotti di voti raccolti da Forza Italia nelle urne il 4 marzo scorso. E nonostante -aggiungerei- i voti grillini con i quali sono stati appena eletti nel nuovo Parlamento una berlusconiana alla presidenza del Senato, seconda carica dello Stato, e un’altra alla vice presidenza della Camera: rispettivamente, Maria Elisabetta Alberti Casellati e Mara Carfagna. Non parliamo poi delle altre cariche parlamentari -tra questori, segretari e presidenti di commissioni speciali- spartite tra grillini, sempre loro, leghisti, forzisti e fratelli d’Italia-ex missini e simili.

          Il perdono di Salvini a Berlusconi, dodici ore dopo l’incidente cabarettistico al Quirinale, si è letto nel sorriso indulgente e comprensivo opposto dal segretario della Lega  -nonché nuovo leader del centrodestra incoronato dallo stesso Berlusconi nella loggia delle Vetrate-  al giornalista che lo ha avvicinato in una piazza per strappargli qualche sfogo contro il Cavaliere. Del quale Salvini ha invece mostrato di capire, se non condividere, il risentimento per la gogna che gli riservano i vari Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista, per quanto quest’ultimo si sia messo in aspettativa politica, probabilmente pronto a rientrare nel prossimo giro parlamentare, magari dopo la caduta della stella dell’attuale, ostinato aspirante grillino a Palazzo Chigi.

           Salvini, insomma, nonostante o a causa -come preferite- degli anatemi rivoltigli ogni tanto dal Giornale di famiglia di Berlusconi e dintorni, non intende soddisfare l’indubbia voglia di accordarsi con i grillini al prezzo di una rottura col Cavaliere. Così come, forse, Berlusconi non intende inseguire una pur improbabile intesa di governo col Pd post-renziano senza il consenso del contrarissimo Salvini. I cui voti parlamentari sarebbero d’altronde necessari per quell’operazione preferita in cuor suo dall’ex presidente del Consiglio.

          Il bacio immaginario, e in bocca, che ha fatto irruzione nella crisi è quello fra Mattarella e Berlusconi, gridato con un titolo in rosso dal Foglio in prima pagina e disegnato apposta su una copertina di quel giornale dallo stesso autore del murale, nei pressi di Montecitorio, che fece ingelosire il Cavaliere all’esordio della nuova legislatura perché univa le bocche di Salvini e di Di Maio.

         In una ricostruzione d’intenti e di interessi forse non arbitraria Il Foglio attribuisce al presidente della Repubblica la convinzione che, nonostante tutto, compresa la profanazione cabarettistica del rito quirinalizio delle consultazioni,  la partecipazione del Cavaliere sia utile ad una maggioranza di governo composta da grillini e leghisti. Che da soli non durerebbero neppure per il tempo necessario a gestire un turno di elezioni anticipatissime.

         Mattarella, d’altronde, è di formazione notoriamente morotea. E fra gli insegnamenti del compianto Aldo Moro c’è quello del 1976, quando l’allora presidente della Dc vide e indicò nei risultati elettorali “due vincitori”, la stessa Dc e il Pci di Enrico Berlinguer, troppi per governare l’uno contro o senza l’altro, per cui ne teorizzò e trattò l’intesa per una maggioranza che fu definita di “solidarietà nazionale”.

        Ebbene, i due vincitori delle elezioni del 4 marzo scorso -o “prevalenti”, come preferisce chiamarli Mattarella- sono stati i grillini da una parte e il centrodestra dall’altra, anche se all’interno del centrodestra si è verificato un fatto saliente come il sorpasso dei leghisti sul partito di Berlusconi. E’ stato ed è un sorpasso non sufficiente a Salvini per fare a meno del Cavaliere, anche se Di Maio non riesce a capacitarsene, così smentendo peraltro i troppo generosi osservatori, compreso il direttore in carica del Corriere della Sera, che lo hanno paragonato addirittura a Giulio Andreotti.  

Un cabaret di Berlusconi al Quirinale fa riesplodere il centrodestra

               La storia settantennale delle consultazioni al Quirinale per la formazione dei governi della Repubblica è stata in qualche modo profanata, almeno per i cultori della materia, dallo spettacolo forse neppure improvvisato di Silvio Berlusconi. Che, dopo l’incontro del capo dello Stato con una foltissima delegazione del centrodestra, ad ospitare la quale si era fatta incetta delle poltrone, prima ha metaforicamente deposto la corona di leader della coalizione sulla testa di Matteo Salvini, davanti alle telecamere e altri obiettivi sistemati nella cosiddetta loggia della Vetrata, per togliergliela subito dopo con una serie di sketch, a gesti e parole, conclusa con un suo anatema  di antidemocratici contro i grillini. Che invece Salvini, leggendo un comunicato concordato anche nelle virgole con lo stesso Berlusconi, aveva appena messo in testa alle forze con le quali cercare un’intesa per la formazione del governo.

            “Una battutaccia”, è stata poi definita, nella stessa loggia della Vetrata, dal grillino Luigi Di Maio l’anatema di Berlusconi, di cui pertanto l’aspirante delle 5 stelle a Palazzo Chigi è tornato a reclamare “un passo di lato”, cioè l’esclusione dalla maggioranza, o qualcosa di simile, come condizione per un’intesa, o “contratto”, come lui preferisce chiamarlo, con i leghisti.

            Ma “battutaccia”, fuori dal Quirinale, è stata poi definita quella di Berlusconi anche dal leghista Giancarlo Giorgetti, che la stessa delegazione del centrodestra aveva indicato più o meno esplicitamente al presidente della Repubblica come la persona adatta per un incarico finalizzato a verificare o anche trattare un’intesa di governo.

            L’uso dello stesso termine -battutaccia- da parte di Di Maio e di Giorgetti ha finito per accreditare l’impressione che la quasi mezz’ora di tempo presasi al Quirinale dalla delegazione grillina per presentarsi ai giornalisti dopo l’incontro con Sergio Mattarella fosse stata impiegata anche per uno scambio telefonico di opinioni, e qualcosa forse anche di più, fra gli stessi grillini e i leghisti. I cui rapporti poi sono stati tradotti da Di Maio, davanti alla stampa, nella formula di una “sinergia istituzionale”. Che potrebbe tradursi anche in sinergia governativa nonostante l’anatema di Berlusconi, il perdurante veto leghista contro  il partito del Cavaliere, e non solo contro la sua persona, e la contestazione di questo veto da parte di Salvini.

            Ad accreditare l’impressione che, nonostante o a dispetto del cabaret belusconiano andato in onda al Quirinale, possa realizzarsi un’intesa fra Di Maio e Salvini, magari attorno al leghista Giorgetti per compensare lo squilibrio di forze esistente a vantaggio dei grillini nelle aule parlamentari, è Il Foglio fondato da Giuliano Ferrara e diretto da Claudio Cerasa.

           Il Foglio.jpg   Questo giornale, in verità, è spesso più fantasioso che informato. Aspira di frequente più a consigliare i protagonisti della politica che a informare i suoi, del resto, non moltissimi lettori. Ma esso gode di un certo prestigio nei palazzi del potere e non può essere certamente considerato ostile e neppure tanto estraneo alla famiglia Berlusconi, che ne consentì a suo tempo la nascita e l’arrivo nelle edicole. Ebbene, Il Foglio ha titolato, o liquidato, così in prima pagina il siparietto nel secondo giro delle consultazioni di Mattarella: “Il Cav. si prende la scena al Quirinale, ma la regìa è di Salvini e Di Maio- Forza Italia fa la voce grossa, ma è disposta a cedere su tutto, pur di avere un piede nella maggioranza. La carta del sostegno esterno a Lega-M5S”, inteso naturalmente come Movimento 5 Stelle.

            Resta da vedere, nell’ipotesi accreditata dal Foglio, se e come sarà possibile conciliare il “sostegno esterno” di Berlusconi e la pretesa grillina di spingerlo addirittura all’opposizione, anche se Di Maio si è limitato a parlare di un “passo di lato”.

            L’unico precedente che mi viene in mente è quello, in verità, non felicissimo del governo monocolore democristiano presieduto fra il 1957 e il 1958, esattamente per 408 giorni, da Adone Zoli. Che definì “non richiesta né gradita” la fiducia accordatagli in Parlamento dai missini, ai quali il presidente del Consiglio rivolse addirittura le spalle quando i deputati della fiamma tricolore rivendicarono il diritto di sentirsi partecipi della maggioranza.

 

 

 

Ripreso da http://www.startmag.it il 13 aprile 2018

Il centrodestra risale al Quirinale per le consultazioni in altissima tensione

            Quel “Salvini a un passo dal vendersi a Grillo” gridato su tutta la prima pagina del Giornale di famiglia rappresenta come meglio non potrebbe lo stato d’animo col quale Silvio Berlusconi segue lo sviluppo dei rapporti fra il suo principale alleato elettorale, che lo ha sorpassato nel voto del 4 marzo, e il candidato di facciata del movimento delle 5 Stelle a Palazzo Chigi. Che potrebbe pure fare un passo indietro o di lato e concordare con Salvini un terzo uomo alla guida del nuovo governo, a condizione che il partito di Berlusconi non ne faccia parte, se non di soppiatto, con qualche tecnico d’area o cosette simili. A condizione, cioè, di un parricidio politico da parte del leader leghista.

            Eppure Berlusconi, dopo averci peraltro riflettuto sopra per qualche ora, ha accettato la proposta prima di Giorgia Meloni e poi dello stesso Salvini di salire insieme al Quirinale  nel secondo giro di consultazioni per la soluzione della crisi. Immagino la curiosità e persino l’imbarazzo del presidente della Repubblica, col rischio di dovere svolgere una paradossale opera di mediazione fra i tre maggiori esponenti del centrodestra perché al termine dell’udienza con lui non litighino fra di loro anche davanti ai microfoni e alle telecamere della Vetrata.

            A far salire la temperatura nel centrodestra, pur uscito dalle urne col maggior numero dei voti, superiore quindi anche a quelli raccolti e vantati dal solitario movimento dei grillini, è stato un dettaglio -in apparenza- delle intese che hanno costantemente segnato dall’insediamento delle nuove Camere i rapporti fra Di Maio e Salvini, o viceversa, per la spartizione delle cariche parlamentari.

          Il dettaglio -sempre in apparenza- consiste nella scelta del leghista Nicola Molteni a presidente della commissione speciale della Camera che sostituirà per pareri e quant’altro le commissioni permanenti, da definire dopo gli eventuali accordi di governo, quando cioè si conosceranno componenti e confini della maggioranza e dell’opposizione, o delle opposizioni. Al vertice dell’analoga commissione  provvisoria del Senato è stato insediato un grillino.

          I forzisti, curiosamente, non hanno gradito a Montecitorio la scelta di Molteni non perché avessero un loro candidato, discriminato quindi da Di Maio e Salvini nell’ottica dell’ostracismo al partito di Berlusconi, che comunque ha portato a casa la presidenza del Senato e un bel po’ di vice presidenti, questori e segretari dei due rami del Parlamento. No. La sorpresa che ha insospettito, irritato e altro ancora i forzisti, sino a fare sparare quel titolo sulla prima pagina del Giornale, è stata una sostituzione di candidato alla presidenza della commissione speciale della Camera all’interno della Lega. E’ una sostituzione che avrebbe dovuto e dovrebbe essere faccenda appunto della Lega soltanto, ma che evidentemente tale non è per le solite doppie e triple partite che si giocano dietro le quinte.

         Al posto di Molteni i forzisti si aspettavano, in particolare, che fosse scelto il suo collega di partito Giancarlo Giorgetti, peraltro già pieno di incarichi e di missioni in questo avvio di legislatura, cugino del banchiere Massimo Ponzellini e soprattutto uomo di grandissima fiducia di Salvini. Ma che gliene importa di Giorgetti ai forzisti? Pare che gliene importi molto perché essi avrebbero preferito vederlo impegnato con la commissione speciale piuttosto che libero, come si sospetta ora da quelle parti, di giocare altre partite alle quali vorrebbe destinarlo Salvini:  compresa la candidatura alla guida di un governo in cui la rinuncia dei grillini a Palazzo Chigi potrebbe essere compensata con qualcosa che soddisfi il loro antiberlusconismo.

         Non a caso, d’altronde, Giorgetti è l’esponente leghista che ha già fatto saltare i nervi ai forzisti due volte dall’inizio di questa diciottesima legislatura. Una volta quando ha liquidato come un cinema o un film finito quello di un centrodestra proiettato, come avrebbe voluto e tuttora vorrebbe Berlusconi, più verso il Pd che verso il movimento di Grillo. L’altra volta quando ha detto, sempre Giorgetti, che sarebbe bello se Berlusconi spiazzasse l’ostilità dei grillini assecondandoli nel proposito di una più stringente legge contro i conflitti d’interesse: materia alla quale il Cavaliere è naturalmente e notoriamente suscettibilissimo.

         Comunque, al netto di questi e di tanti altri ben più consistenti problemi, come il teatro di guerra che in questa crisi di governo lambisce l’Italia, a dir poco, per la vicenda siriana, Mattarella merita tutti gli auguri e la comprensione per la fatica del secondo giro delle consultazioni. Buon lavoro, presidente.

 

La riforma carceraria buttata nelle sabbie mobili della crisi di governo

La riforma penitenziaria, la cui urgenza è nello stesso numero dei detenuti, saliti a fine marzo a 58.213, cioè 7.600 più dei posti disponibili, con tutto ciò che ne consegue, è finita miserabilmente -ripeto, miserabilmente, non miseramente- nelle sabbie mobili, a dir poco, della crisi di governo. Dove avrà tutto il tempo per affogare nelle trattative che porteranno, chissà quando, alla formazione della nuova compagine ministeriale.

Questo è l’effetto, non certo casuale ma voluto o comunque consapevole, e proprio perciò doppiamente deplorevole, della decisione presa dai capigruppo della Camera di escludere la riforma, frutto di una delega del vecchio Parlamento al governo, dagli adempimenti della commissione speciale istituita in attesa delle commissioni permanenti. Dovranno pertanto essere quest’ultime ad occuparsene con un parere non vincolante ma necessario perché il nuovo governo completi il percorso del provvedimento facendolo entrare in vigore. Il nuovo governo, appunto. Che pertanto potrà pure buttare la riforma alle ortiche, come carta straccia, se le forze che ne comporranno la maggioranza vorranno questa sorte.

Su questo sinistro epilogo non c’è da farsi illusioni che possa essere evitato. Vale la contrarietà espressa sulla riforma da forze politiche che erano in minoranza nella passata legislatura e sono invece uscite vincenti dalle elezioni del 4 marzo.

In verità, il presidente della Repubblica, probabilmente favorevole alla riforma per cultura e formazione politica, preferisce anhe per questo definire non vincenti ma “prevalenti” i partiti autoproclamatisi, con la complicità del sistema mediatico, persino trionfatori dell’ultimo turno elettorale. Ma la loro prevalenza, data l’incidenza che grillini e leghisti, gli uni da soli e gli altri con o senza l’apporto degli alleati di centrodestra, sono destinati ad avere nella composizione di una nuova maggioranza, basterà e avanzerà ad affossare la riforma penitenziaria da essi osteggiata alla luce del sole. Osteggiato col solito vizio di abusare dell’ancestrale o popolare richiesta di sicurezza e di ordine.

In nome della sicurezza e dell’ordine, si sa, si possono compiere le stesse nefandezze commesse tante volte nella storia del mondo, e non solo d’Italia, in nome della libertà e della Patria, con la maiuscola. Anche il giustizialismo, d’altronde, viene teorizzato e praticato in nome della giustizia o della legalità, o di entrambe. Ed è una forma di giustizialismo pure la pratica detentiva sottintesa o derivante, poco importa, dal sovraffollamento delle carceri. Dove, se sei finito qualche ragione c’è, al lordo degli errori dei magistrati che ti hanno potuto portare dentro, e comunque a dispetto di due passaggi della Costituzione “più bella del mondo”, come viene ancora pomposamente chiamata quella che si è data la Repubblica italiana.

Il primo passaggio è il penultimo capoverso, o comma, dell’articolo 13. Che trattando dei “rapporti civili”  punisce “ogni violenza fisica e morale sulle persone sottoposte a restrizioni di libertà”. L’altro passaggio, in qualche modo rafforzativo, è il penultimo comma dell’articolo 27. Che dice: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.

“Non è ammessa la pena di morte”, conclude quell’articolo nel testo modificato nel 2007 con una legge che eliminò il riferimento ai casi originariamente previsti dalle leggi militari di guerra. Una legge -ha recentemente e non a torto osservato il buon Marco Boato- che passò per fortuna in Parlamento con una maggioranza abbastanza ampia per evitare il passaggio finale del referendum cosiddetto confermativo. Che poteva già allora finire con la bocciatura. Figuriamoci oggi, con gli umori che corrono nel Paese, a dir poco peggiorati.

Personalmente mi ha sorpreso che alla decisione della conferenza dei capigruppo della Camera destinata, come dicevo, a buttare nelle sabbie mobili della crisi di governo anche la riforma penitenziaria, abbia contribuito una forza politica generalmente garantista come Forza Italia. Che non ha voluto unirsi, neppure per salvare la faccia o l’anima, al voto contrario alla manovra di affossamento della riforma espresso dal Pd e dal neo-gruppo dei Liberi e uguali, di cui è stata permessa la formazione in deroga al regolamento.

Con tutti i guai e i rischi che stanno correndo, premuti fra l’ostracismo dei grillini e la paura che Salvini non sappia resistervi sino in fondo, i forzisti non se la sono sentita evidentemente di schierarsi per la riforma penitenziaria osteggiata dagli alleati leghisti: neppure nella forma arrivata alle battute finali, con tutte le modifiche apportate durante la sua preparazione. Peccato.

Le superiori ragioni di governo, e persino di sopravvivenza politica, avvertite in una situazione imbarbarita dai risultati elettorali, come dimostra anche la vicenda diversissima della guerra, ripresa dai grillini col piglio dell’offensiva finale,  ai vitalizi parlamentari sopravvissuti alla riforma contributiva del 2012, hanno reclamato e ottenuto anche questa rinuncia al senso comune persino della pietà. Peccato, ripeto. Davvero un peccato, pur con tutte le comprensioni che merita il realismo politico. Si dice così?

Nervosismo sul Colle per l’ordine delle consultazioni, e per il buio pesto della crisi

            Sergio Mattarella è involontariamente inciampato, per fortuna soltanto metaforicamente, nel calendario del secondo giro delle consultazioni al Quirinale. Egli ha dovuto fare spiegare con una nota stizzita dai suoi uffici il motivo per il quale ha dato l’onore o l’onere, come preferite, della chiusura degli incontri alla delegazione del movimento delle 5 stelle, anziché a quella unitaria della coalizione di centrodestra. Che ha notoriamente preso più voti dei grillini nelle elezioni del 4 marzo, e rivendica proprio per questo -almeno nella componente forzista di Silvio Berlusconi- il diritto di provare per prima la formazione del nuovo governo, pur essendo del capo dello Stato, e solo sua, la prerogativa costituzionale della nomina del presidente del Consiglio e, su proposta di questi, dei ministri.

            Il fatto è che Berlusconi, pur avendo contribuito in modo decisivo dietro le quinte, data la sua ridotta agibilità politica, all’approvazione della nuova legge elettorale, di stampo prevalentemente proporzionale, continua a pensare con la logica del suo esordio in politica, nel 1994, con una legge prevalentemente maggioritaria.  Che portava il nome latinizzato, conferitogli dall’indimenticabile Giovanni Sartori, dell’attuale capo dello Stato, che ne era stato il relatore alla Camera: Mattarellum.

             Allora, sia pure con una forzatura rispetto alle prerogative invariate del presidente della Repubblica, si ritenne di avere affidato ai cittadini anche il compito della scelta del governo e della sua guida, nella persona di chi avrebbe vinto le elezioni disponendo, proprio per il sistema maggioritario, della maggioranza parlamentare.

            Mattarella ha dovuto ricordare indirettamente proprio a Berlusconi e ai suoi amici, a torto o a ragione indicati come sorpresi dall’ordine delle nuove consultazioni, e anche ai grillini, che invece se ne vantavano vedendovi il segnale di una tendenza del Quirinale a preferirli nella corsa a Palazzo Chigi come sostanziali, se non veri e propri vincitori delle elezioni, che sul colle si sfila solo in forza della propria consistenza parlamentare. In forza della quale i grillini sono più numerosi di ciascuno dei tre gruppi parlamentari del centrodestra. I quali, dal canto loro, hanno chiesto e ottenuto di salire questa volta insieme sul colle politicamente più alto di Roma, avendo partecipato come alleati alle elezioni, ma non per questo hanno voluto costituire un gruppo parlamentare unico, tenendo evidentemente a rimanere distinti.

             E distinti appaiono i tre partiti della coalizione elettorale di centrodestra, al di là dell’udienza che hanno chiesto insieme al Quirinale, nella valutazione del quadro politico, come dimostrano le cronache politiche quotidiane, al di là dei comunicati apparentemente unitari ma poi corretti sistematicamente dal segretario leghista Matteo Salvini. Che -a dirla in breve- persegue un rapporto preferenziale con i grillini anche per la formazione del nuovo governo, com’è avvenuto sino ad ora per la distribuzione delle cariche parlamentari, e non condivide la voglia di Berlusconi ch’egli faccia concorrenza agli stessi grillini corteggiando il Pd. Del quale il leader leghista non vuole neppure sentir parlare, pur rifiutando le pregiudiziali contro Berlusconi poste un giorno sì e l’altro pure dal movimento delle 5 stelle: pregiudiziali che bloccano una trattativa di governo, e conseguentemente la crisi che il capo dello Stato deve gestire.

           Le spiegazioni, e precisazioni implicite, del Quirinale sull’ordine del secondo giro delle consultazioni sono indicative anche dell’esito infruttuoso al quale sono condannati i nuovi incontri del presidente della Repubblica. Che risulta ora indeciso fra un terzo giro di udienze, che teme però possa apparire al pubblico “quasi una pagliacciata”, come ha scritto sul Corriere della Sera l’assai introdotto quirinalista Marzio Breda, e il ricorso  ad un “esploratore”, come hanno fatto più volte i suoi predecessori a scopo di sostanziale decantazione rivolgendosi  prevalentemente ai presidenti delle Camere.  

        Copia di esploratore.jpg Il grillino Roberto Fico, il nuovo presidente della Camera, con quella simpatica barba che porta, ha l’aspetto fisico ideale di un esploratore. Ma è troppo fresco di elezione al vertice di Montecitorio, e troppo impegnato nelle vicende interne del suo movimento, perché Mattarella possa investirlo di questo ruolo. Considerazioni analoghe, sul piano dell’esperienza e della sua caratura politica, valgono per la nuova presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati. Che di esplorazioni ha preferito sinora solo quella del canal grande di Venezia in gondola, e pompa magna.

        Marzio Breda, sempre lui, ha pescato sul Corriere il precedente dell’esplorazione affidata nel 1996 dall’allora capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro ad Antonio Maccanico, già segretario generale del Quirinale con Sandro Pertini. Erano i giorni della crisi del governo di Lamberto Dini, quando Scalfaro cercò di  evitare le elezioni anticipate con un governo ispirato ad una riforma della Costituzione, e quindi di larghe intese. Non se ne fece nulla, con grande sollievo di Romano Prodi, appena incoronato leader del centrosinistra da Massimo D’Alema e voglioso di andare alle urne. Dalle quali in effetti sarebbe uscito vincitore su Berlusconi, ma destinato a rimanere a Palazzo Chigi per metà soltanto della nuova legislatura.

         Quello di Maccanico tuttavia fu un incarico esplorativo per modo di dire. Era implicito che si traducesse nell’incarico di presidente del Consiglio se l’esploratore fosse riuscito a trovare un accordo, al quale Berlusconi avrebbe anche aderito se non fosse stato trattenuto da Gianfranco Fini, salvo poi pentirsene.

         Oggi un esploratore, francamente, non saprebbe neppure che cosa e dove esplorare, tanto è fitta la nebbia scesa su questa crisi di governo, condizionata anche dai risultati delle elezioni regionali in Molise e in Friuli Venezia Giulia in programma in questo mese.   

La difesa che Silvio Berlusconi forse non merita, ma gli è dovuta

            E’ davvero curiosa la concezione della democrazia dalle parti delle 5 Stelle. Una concezione extraterrestre, verrebbe da dire giocando sul nome del movimento uscito dalle elezioni del 4 marzo con un 32 per cento ch’esso ha scambiato per il classico, indiscutibile 50 per cento più uno dei voti.

            Luigi Di Maio, l’aspirante grillino a Palazzo Chigi, reclama l’incarico di presidente del Consiglio per il rispetto dovuto, secondo lui, ai 10 milioni 697.994 elettori, arrotondati a 11 milioni, che hanno votato per la Camera le liste del suo movimento.

            Ma, chiedendo al leader leghista Matteo Salvini di trattare il governo con lui da solo, scaricando l’alleato Silvio Berlusconi, il giovane capo dei grillini, almeno pro tempore, non ha il minimo rispetto per i 12 milioni 13.557 elettori che il 4 marzo hanno votato per la coalizione di centrodestra, comprensiva -in ordine di voti- di Lega, Forza Italia, Fratelli d’Italia e schegge centriste. Lui, in verità, la chiama “ammucchiata” pensando di poterla liquidare facendo spallucce col dizionario, ma è una coalizione presentatasi come tale alle elezioni e uscita dalle urne con più voti del movimento che si è incoronato vincitore da solo.

            Se è immorale chiedere a Di Maio, come lui ritiene,  di darsi una calmata, diciamo così, e mettere nel conto anche la possibilità di compiere un passo indietro, a cominciare dalla sua candidatura alla presidenza del Consiglio, per formare un governo con altri, è immorale anche la pretesa che Salvini non solo rinunci alla propria candidatura a Palazzo Chigi, guadagnatasi per conto del centrodestra raccogliendo più voti nella coalizione, ma ripudi anche gli alleati per relegarli all’opposizione.

            Berlusconi forse non merita questa difesa del suo diritto alla partecipazione alla coalizione uscita dalle urne con più voti ancora dei grillini. Non lo meriterebbe a causa degli errori commessi prima e durante la campagna elettorale. Ma è una difesa che gli è dovuta lo stesso.

            Berlusconi ha, in particolare, il torto di avere contribuito anche personalmente, e non solo attraverso i vari Renato Brunetta, alla demonizzazione e alla sconfitta di quel Pd col quale oggi vorrebbe che il centrodestra cercasse di allearsi per la formazione del nuovo governo. Ma che Salvini non intende paragonare neppure a un fungo da cogliere nel bosco parlamentare, tanto tossico lo considera.

            L’altro torto di Berlusconi, vista l’insofferenza o paura che ha di Salvini, nonostante la polemica ingaggiata dal segretario leghista con Di Maio per contestarne i veti all’alleato forzista, è di avere fatto proprio tutto quello che serviva per far crescere il Carroccio e il suo leader: a cominciare dalla linea editoriale impressa o lasciata imprimere alle trasmissioni delle sue televisioni, alcune delle quali stano uscendo dai palinsesti del biscione con i tempi della stalla che viene chiusa dopo la fuga dei buoi.

 Corriere.jpg     Ora a Berlusconi tocca stare al gioco e sperare che Salvini tenga duro davvero, e sino alla fine, specie se sono vere le notizie dal Quirinale appena riferite sul Corriere della Sera da Marzio Breda. Il quale ha scritto che “al momento quello fra la Lega e le 5 Stelle appare il fronte più avanzato verso un’alleanza” agli sguardi e alle riflessioni del presidente della Repubblica. Che, pur nella “nebbia fitta” dei resoconti giornalistici sugli scontri fra Di Maio e Salvini, vuole capire bene quanto probabile possa essere o diventare una disponibilità finale di Berlusconi ad accettare qualche compromesso parlamentare che lo tenga comunque nella partita, come un’astensione e persino un appoggio esterno.

Torna di moda nella crisi di governo il modello Bersani, a sinistra e a destra

             Ve lo ricordate Pier Luigi Bersani, tra i pochi sopravvissuti politicamente alla scissione del Pd e alla debolezza di seguire in quell’avventura Massimo D’Alema? Neppure Maurizio Crozza gli dedica più attenzione nei suoi spettacoli, ai quali il primo a ridere era proprio l’allora segretario e poi ex del Pd, tanto si riconosceva nelle imitazioni che ne faceva il comico conterraneo di Beppe Grillo.

           Ebbene, l’uomo di Bettola, dove il sessantaseienne Bersani nacque  in un giorno- 29 settembre-  che lo condanna a festeggiare il compleanno in contemporanea con l’ottantunenne Silvio Berlusconi, non proprio in cima alle sue preferenze politiche, si sta prendendo in questi giorni le sue belle rivincite. E’ troppo tardi purtroppo perché lui possa investirle in qualche altra avventura, ma deve pur essere una soddisfazione vedersi copiare lo spartito politico che lo umiliò, letteralmente, non più tardi di cinque anni fa, al decollo della diciassettesima legislatura.

            Allora Bersani, uscito dalle urne col suo Pd e l’alleato Niki Vendola con una maggioranza solo alla Camera ma non al Senato, tra un boccale di birra e l’altro nei locali che frequentava nei dintorni di Montecitorio col pre-incarico in tasca appena ricevuto dall’ex compagno di partito Giorgio Napolitano, si inventò “il governo di minoranza e di combattimento”. Egli scommise sulla voglia o sull’interesse dei grillini di farglielo quanto meno nascere, questo curioso governo uscendo dall’aula al Senato. Dove l’astensione sulla fiducia valeva ancora come voto contrario, per cui bisognava disertare la votazione per aiutare il presidente del Consiglio.

            I grillini presero Bersani impietosamente a pernacchie. Ma poiché l’uomo di Bettola non rinunciava all’idea di scommettere o persino di sfidare i parlamentari pentastellati, il buon Napolitano, nel frattempo rieletto presidente della Repubblica per incidenti, diciamo così,  occorsi ad entrambi i candidati alla successione messi in pista dal Pd, chiamò al Quirinale l’ostinatissimo Bersani per ritirargli il pre-incarico. E indirizzare la crisi verso una soluzione diciamo così tradizionale, cioè verso un governo provvisto di una maggioranza ben definita e concordata, che risparmiasse peraltro al capo dello Stato l’ingrato compito di sciogliere le Camere elette da poco più di due mesi e rimandare gli elettori alle urne.

            A Napolitano, che aveva già dovuto sciogliere le Camere anticipatamente nel 2008, non piaceva quello che il simpaticissimo Giovanni Sartori chiamava “rivotismo”, inteso come mania di ricorrere al voto ad ogni intoppo politico o parlamentare.

             A distanza di cinque anni da quei fatti,  gli stessi grillini che avevano spernacchiato Bersani ne hanno preso il posto chiedendo al Pd di aiutarli a fare il governo, con l’obiettivo di realizzare qualche legge condivisa, visto che il loro interlocutore privilegiato Matteo Salvini non vuole saperne di accordarsi con loro scaricando l’alleato di centrodestra Silvio Berlusconi. Con il quale -ha detto l’aspirante pentastellato a Palazzo Chigi, Luigi Di Maio- non ci sarebbe speranza di cambiamento in questo disgraziato Paese. Dove peraltro il pubblico ministero Nino Di Matteo è appena corso ad un convegno grillino a Ivrea per riproporre, fra gli applausi della platea, l’associazione fra Berlusconi, smanioso nel 1993 di entrare in politica e di vincere le elezioni del 1994, e una mafia disposta ad aiutarlo, secondo il pentito di turno, con qualcosa di più rumoroso e rovinoso dei fuochi di artificio: le stragi.

            Ma la rivincita di Bersani non si esaurisce nello spettacolo di Di Maio che, sotterrata l’ascia di guerra, chiede al Pd, senza distinzione tra renziani e antirenziani, di fargli fare il governo. Anche Berlusconi si è messo a copiare l’ex segretario del Pd perseguendo un governo di minoranza di centrodestra che si presenti al Parlamento per chiedere l’appoggio a quei parlamentari, più che partiti, disposti -ha spiegato in televisione la sorella dei Fratelli d’Italia Giorgia Meloni- ad aiutarlo.

            Ma questo gioco alla Bersani non piace per niente a Matteo Salvini, che pure è stato incoronato dagli elettori del centrodestra candidato a Palazzo Chigi. Egli ha confermato in un comizio la convinzione che un governo si possa fare solo d’intesa con i grillini, da negoziare ben bene, per quanto Berlusconi ricambi la loro ostilità giudicandoli invidiosi, rancorosi, pauperisti e quant’altro.

            A rivolgersi o e a sperare nel Pd, Savini non ci pensa proprio, diversamente da Berlusconi. Il leader leghista considera i piddini alla stregua di funghi avvelenati, che lui non ha nessuna voglia di cercare nelle aule parlamentari come nei boschi.

            Eppure Salvini ha detto e spiegato queste cose dopo avere preso il caffè e non so che altro ad Arcore in un vertice del centrodestra a conclusione dichiaratamente unitaria, con tanto di documento diffuso alle agenzie, come anticipo della partecipazione sempre unitaria del centrodestra al prossimo giro delle consultazioni al Quirinale. Dove credo che a Mattarella leggendo i giornali siano venuti oggi i sudori freddi.

Salvini difende Berlusconi da Di Maio ma cerca di silenziarlo

            Non passa giorno senza che Matteo Salvini respinga a parole il veto posto dal grillino Luigi Di Maio a Silvio Berlusconi come partecipe di una nuova maggioranza di governo. Che -ha spiegato l’esponente grillino al suo interlocutore leghista- ridurrebbe a una sola cifra, più vicina al 3 che al 9, la consistenza elettorale del movimento 5 stelle, salito invece il 4 marzo scorso al 32 per cento dei voti: una vetta che ha procurato le vertigini al movimento pur pentastellato.

            Ma al tempo stesso non passa giorno senza che Salvini, pagato il suo tributo di lealtà all’ingombrante alleato forzista, non cerchi di silenziare il Cavaliere. Al cui incontro conviviale di oggi si è preparato con una intervista al Corriere della Sera in cui si è praticamente prenotato come il portavoce del centrodestra prima, durante e dopo il secondo giro di consultazioni al Quirinale. Dove, su proposta prima di Giorgia Meloni e poi dello stesso Salvini, accettata da Berlusconi dopo qualche ora di riflessione, i tre partiti dell’alleanza elettorale del 4 marzo si presenteranno insieme, con una sola delegazione, diversamente dal primo giro.

            “Se il centrodestra deve parlare con una sola voce -ha detto Salvini al Corriere- questa voce deve essere chiara”. E non potrebbe che essere la sua, cioè quella del segretario leghista promosso dagli elettori al soglio potenziale di Palazzo Chigi col sorpasso eseguito sul partito di Berlusconi.

            Il Cavaliere quindi dovrebbe accontentarsi di stare accanto a Salvini davanti ai microfoni della Vetrata del Quirinale dove sfilano le delegazioni dei partiti dopo essere state ricevute dal capo dello Stato. O, se accontentato per ragioni quanto meno di età a parlare per conto della coalizione, dovrà farlo leggendo da quel foglio che porta sempre con sé diligentemente in queste occasioni una dichiarazione concordata parola per parola, virgola per virgola, punto per punto col suo alleato ora più forte. Il quale ha colto l’occasione offertagli dall’intervista al Corriere anche per ripetere all’amico di togliersi dalla testa l’idea, se non gli è ancora passata spontaneamente, di inseguire un governo di centrodestra sostenuto in qualche modo dal Pd.

            Col Pd Salvini lascia volentieri, per quanto si capisce dalle sue parole e dal suo atteggiamento, che parli o tenti di parlare il grillino Di Maio, un po’ pensando che lo sprovveduto non ricaverà un ragno dal buco, anche per la confusione che regna da quelle parti, e un po’ convinto che un governo di minoranza dei grillini sostenuto dal Pd, e magari anche dai pochi liberi e uguali di Pietro Grasso sopravvissuti alle elezioni, sia destinato a durare solo il poco tempo necessario alle elezioni anticipate. Dopo le quali a Di Maio e a Beppe Grillo non resterebbe che contare i voti perduti, non certamente guadagnati. E a lui, Salvini, non resterebbe invece che contare i voti sottratti proprio ai grillini. Che lo aiuterebbero peraltro ad aumentare nel centrodestra il vantaggio su Berlusconi, non a caso contrario allo scioglimento anticipato delle Camere. Per evitare il quale il segretario leghista pensa forse che alla fine  l’uomo di Arcore sia disposto ad accettare una partecipazione defilata ad una maggioranza con Di Maio. Dove magari, una volta recuperata la piena agibilità politica ora compromessa dalle sue vicende giudiziarie, il Cavaliere potrà giocare meglio la sua partita, avendo avuto l’accortezza, l’astuzia, la disinvoltura -chiamatela come volete- di rimanere in gioco.

            Diverso naturalmente è lo scenario della crisi auspicato, o sognato, a sinistra da Eugenio Scalfari nel suo appuntamento domenicale con i lettori di Repubblica. Ai quali ha espresso l’opinione “personale” -ha precisato, se mai qualcuno in redazione volesse dissentire- che Di Maio abbia fatto bene a sotterrare l’ascia di guerra col Pd proponendo intese di governo anche agli odiati renziani. Ma ancor meglio farebbe il giovane grillino, nel quale Scalfari intravede qualche somiglianza addirittura ad Enrico Berlinguer, sostenitore ben prima di lui della cosiddetta questione morale, a riconoscere gli inevitabili limiti della propria età e a farsi un po’ di esperienza come vice presidente del Consiglio di un Paolo Gentiloni incaricato da Sergio Mattarella di rimanere a Palazzo Chigi con un governo a partecipazione stellare.

            Beh, direi che Scalfari si è fatto prendere un po’ troppo la mano dalla fantasia. Che gli consente, a 94 anni compiuti il 6 aprile, di rimanere giovane. Auguri, don Eugenio.

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