Per quanto svogliato, il Molise non ha voluto essere la sesta stella dei grillini

            Neppure avvolto nella bandiera a stelle e strisce, quale l’hanno immaginato in tanti paragonandolo allo stato americano dell’Ohaio, i cui elettori riflettono meglio l’orientamento medio degli Stati Uniti, il Molise è riuscito a mobilitarsi in questo turno elettorale regionale coinciso con la crisi di governo in gestione al Quirinale.

            I molisani sono andati a votare in poco più della metà, in meno di 173 mila, al di sotto ancora di diecimila rispetto alle elezioni politiche del 4 marzo scorso. Ed hanno deluso i due partiti che si aspettavano di ricavarne vantaggi da investire a livello nazionale, nella partita del nuovo governo.

            In particolare, i grillini si sono fermati ad un pur ragguardevole 38,5 per cento dei voti ed hanno mancato la conquista della prima regione a 5 stelle, che Luigi Di Maio sognava di appuntare sul medagliere della sua scalata a Palazzo Chigi.

            Ha non vinto ma stravinto invece quella curiosa e “artificiale” coalizione di centrodestra, quale Di Maio la considera, col 43,4 per cento dei voti. Che equivale peraltro a quasi tre volte il centrosinistra uscente alla guida della regione, attestatosi attorno al 17 per cento.

            All’interno, poi, del centrodestra i leghisti di Matteo Salvini hanno mancato l’obiettivo del sorpasso su Forza Italia, il cui presidente Silvio Berlusconi -gli va riconosciuto- si è speso in modo particolare nella campagna elettorale, servitagli anche per strapazzare di tanto in tanto, tra comizi e cene, pure gli alleati. Che erano impegnati a Roma a corteggiare o lasciarsi corteggiare, secondo i giorni e le ore, dai grillini. Dei quali è forte la convinzione che Salvini sia disposto a scaricare prima o dopo il Cavaliere, magari profittando di qualche suo passo falso. In cui sempre più di frequente Berlusconi cade, facendosi prendere la mano più dall’orgoglio che dall’astuzia, più dallo spettacolo, innato nelle sue abitudini e vocazioni, che dal gioco politico.

            In Molise comunque è andata bene al Cavaliere. Il bufù, quel tamburo a frizione col quale si è cimentato suonando alla maniera locale, gli ha portato fortuna. Ma chissà se Berlusconi riuscirà ad essere ugualmente fortunato, nei rapporti con l’alleato leghista, nelle elezioni regionali friulane di domenica prossima. E, prima ancora, nella partita della crisi di governo in questa settimana di ripresa delle iniziative del capo dello Stato: una settimana già rovinata al Cavaliere da Salvini con l’annuncio di condividere la convinzione appena ribadita da Di Maio che grillini e leghisti possano “lavorare bene” insieme alla guida del Paese.

            Evidentemente i dirigenti grillini pensano di poter avere molto tempo a disposizione in una meritoria azione di governo con i leghisti, una volta espletato il servizio di pulizia dei cessi di Mediaset cui vorrebbe destinarli Berlusconi, secondo una battuta sfuggitagli proprio in Molise fra le proteste di Salvini. Ma dopo essersi sentito liquidare da Di Maio e compagni -va detto- come “il profeta” -parola di Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano- della trattativa fra lo Stato e la mafia, fra il 1992 e il 1994, provvisoriamente certificata dalla Corte d’Assise di Palermo.

Berlusconi sfoglia la margherita di Salvini, con Mattarella e Di Maio

            Chi ha ragione, dei due più diffusi giornali italiani, sul conto di Silvio Berlusconi e dei suoi rapporti, sentimenti, umori e quant’altro con l’alleato Matteo Salvini? Il Corriere della Sera quando in un titolo di prima pagina, e riferendo di un’intervista appena raccolta, gli fa dire che di Salvini si fida? O la Repubblica, che sempre in prima pagina, e riferendo ugualmente di Berlusconi, gli fa dire il contrario, che cioè di Salvini non si fida, finendo così per giustificare, se non addirittura condividere, la speranza che in un accordo col segretario leghista continua a nutrire l’aspirante grillino a Palazzo Chigi, Luigi Di Maio? Che è convinto di poter fare in un governo con i leghisti “grandi cose”.

            Vai a capirlo chi ha ragione dei due maggiori giornali italiani quando scopri che potrebbero averla entrambi, avendo raccolto parole autentiche del Cavaliere. Di cui pertanto sei costretto a pensare che non sappia neppure lui cosa pensare esattamente del suo alleato. E te lo immagini alla fine alle prese con la solita margheritina per contare i petali del sì e del no. Magari, come sta facendo pure il presidente della Repubblica al Quirinale approfondendo “gli spunti di riflessione” riferitigli o raccolti o suggeritigli, non si è ben capito, dalla presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati al termine della rapida esplorazione affidatale. Un’espoloraxione per “verificare l’esistenza di una maggioranza parlamentare -precisò bene il capo dello Stato- fra i partiti della coalizione di centrodestra e il movimento delle 5 stelle”.

           Corsera.jpg La permanente fiducia di Berlusconi in Salvini è esplicita nella risposta fornita ad una domanda specifica di Marco Galluzzo, del Corriere, rivoltagli al suo ritorno ad Arcore dalle fatiche elettorali in Molise, dove si era consumato a distanza uno scontro fra lo stesso Cavaliere, che aveva liquidato i grillini come adatti solo a pulire “i cessi” di Mediaset, e il segretario leghista. Il quale si era lamentato dei troppi chiodi disseminati sulla strada di un’intesa di governo con l’unico partito da lui ritenuto compatibile col centrodestra a trazione leghista.

          “Credo si riferisse ad altri, non a noi”, ha detto Berlusconi delle proteste di Salvini, forse pensando ai veti appena riproposti contro di lui e la sua Forza Italia da Luigi Di Maio sbandierando anche la sentenza appena emessa in primo grado dalla Corte d’Assise di Palermo sulla presunta trattativa fra lo Stato e la mafia. Che, iniziata con i governi di Giuliano Amato e di Carlo Azeglio Ciampi, fra il 1992 e il 1993, sarebbe proseguita anche col primo governo Berlusconi, o addirittura in funzione del suo avvento sulle ceneri della cosiddetta prima Repubblica.

         Repubblica.jpgSe fosse vera, autentica la fiducia rinnovata a Salvini da Berlusconi nell’intervista al Corriere della Sera ci sarebbe da chiedersi che cosa fosse intervenuto nelle ore trascorse dalla serata galeotta di venerdì a Campobasso. Dove lo stesso Cavaliere cenando in un albergo con una ventina di persone, dopo avere appena chiuso la campagna elettorale di Forza Italia per le regionali molisane, aveva detto. “Di Salvini non mi sono mai fidato sino in fondo”. Parole che più commensali hanno riferito e che sono state raccolte su Repubblica da Tommaso Ciriàco.

         Su Repubblica troviamo curiosamente, nel consueto appuntamento domenicale con i suoi lettori, un’ulteriore sviluppo delle riflessioni, previsioni, auspici e quant’altro del fondatore Eugenio Scalfari sulla crisi di governo.

         Dopo avere immaginato o desiderato Di Maio a Palazzo Chigi con Paolo Gentiloni almeno ministro degli Esteri, se non anche vice presidente del Consiglio, Scalfari ha rivisto la conferma di Gentiloni alla guida del governo con Di Maio vice, giusto per farsi le ossa e succedergli, per esperienza e competenza, dopo un anno, non ho ben capito se con o senza un altro passaggio elettorale. “Questa, penso, è la soluzione che Mattarella sta meditando”, ha scritto Scalfari.

        Per fortuna, o sfortuna, come preferite, lo stesso Scalfari ha onestamente avvertito, in un altro passaggio dell’articolo, che i suoi ultimi contatti “diretti” col presidente della Repubblica risalgono ad “alcuni mesi fa, in una fase meno agitata di quella attuale”.

        Sergio Mattarella, evidentemente, nei rapporti con Scalfari è più cauto di Papa Francesco, e dei collaboratori in Vaticano che sono poi costretti a correggere, precisare e quant’altro le ricostruzioni delle auguste udienze personali che il fondatore di Repubblica usa fare a vantaggio dei lettori, ed anche della testata sofferente, come quasi tutte le altre del resto, nelle edicole.

La sentenza sulla trattativa Stato-mafia irrompe nella crisi di governo

            A dispetto dei Corazzieri che ne proteggono giorno e notte l’inviolabilità, il presidente della Repubblica ha dovuto subire la pur metaforica irruzione di un magistrato nelle riflessioni sulla crisi di governo. Per le quali egli si era appena dato due giorni di tempo, dopo il rapporto dell’esploratrice Maria Elisabetta Alberti Casellati, presidente del Senato.

            Il magistrato, peraltro tra i più scortati d’Italia, è Nino Di Matteo. Che, compiacendosi del lavoro svolto come accusatore al lunghissimo processo di primo grado a Palermo sulla trattativa che si sarebbe svolta fra pezzi dello Stato e la mafia nella stagione stragista del 1992 e 1993, ha commentato così la sentenza di condanna appena emessa dalla Corte d’Assise, ma naturalmente non depositata e quindi dalle motivazioni ancora ignote: “La Corte ritiene provato il fatto che dopo il rapporto con il Berlusconi imprenditore c’è quello con il politico”.

            Berlusconi naturalmente è Silvio, il presidente di Forza Italia, 82 anni da compiere a fine settembre, tra i protagonisti della crisi di governo in corso, per quanto dall’agibilità politica ancora ridotta. Egli si dibatte, appunto in questa crisi, fra il veto posto contro di lui e il suo partito dai grillini nelle trattative per la formazione del nuovo governo e il rischio di rompere col suo alleato leghista Matteo Salvini. Il quale, a sua volta, è corteggiatissimo dall’aspirante pentastellato a Palazzo Chigi, Luigi Di Maio, perché si decida a rompere con l’ingombrante Cavaliere, specie ora che, dopo averne elettoralmente sorpassato il partito, lo vede esposto alla gogna palermitana.  Ma per ora Salvini ha preferito  sfidare il Cavaliere a cercare “da solo” un’intesa col Pd, preferito alle 5 stelle dall’ex presidente del Consiglio per cercare di chiudere la crisi.

Di Matteo con Dibba.jpg       Di Matteo, che conosce i grillini per esserne continuamente elogiato, sino ad esserne corteggiato come possibile ministro della Giustizia, e per essere stato illustre ospite di loro convegni, uno dei quali recente in quel di Ivrea, ha fornito col suo commento alla sentenza di Palermo, volente o nolente, munizioni alla propaganda antiberlusconiana del movimento delle 5 stelle. Una campagna ricambiata nelle ultime ore dal Cavaliere con parole e immagini anche pesanti, da “cessi”: quelli della sua Mediaset, alle cui pulizie l’uomo di Arcore destinerebbe i rivali politici, e personali.

            Purtroppo, per Di Matteo, Berlusconi non era e non è nell’elenco degli imputati del suo processo. Ce lo ha praticamente ficcato lui nella lista come imputato di pietra per via di un’altro imputato vero, e condannato a 12 anni per la “trattativa”: l’ex senatore e co-fondatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri, già in carcere, per quanto gravemente malato, per concorso esterno in associazione mafiosa.

            La coincidenza fra la sentenza di Palermo, per quanto solo di primo grado, il commento di Di Matteo e le reazioni politiche non ha sottratto nessun giornale a titoli che parlano da soli, a dimostrazione di quella irruzione metaforica, di cui ho scritto all’’inizio, nelle “riflessioni” del capo dello Stato. Che dovrà assumere nei prossimi giorni, se non nelle prossime ore, nuove iniziative per cercare di fare uscire la crisi dallo “stallo” da lui stesso denunciato prima di sperare inutilmente nell’esplorazione della presidente del Senato.

          
Corsera.jpg             “La sentenza può pesare sulla nascita del governo”, ha titolato non il Corriere dei piccoli ma il Corriere della Sera in prima pagina col commento di Giovanni Bianconi. Che -vi assicuro- è un signor giornalista, non un mitomane trovato per strada dal direttore Luciano Fontana e imprudentemente assegnato a funzioni e ruoli delicati.

Il Foglio.jpg

            “Sentenza grillina sulla Trattativa”, ha titolato in turchese Il Foglio di Giuliano Ferrara e ora anche di Claudio Cerasa, seguendo il ragionamento di uno specialista di vicende mafiose, giudiziarie e non, come Giuseppe Sottile, ponendosi qualche interrogativo sul peso che hanno potuto avere i giudici popolari della Corte d’Assise e non ignorando certamente Nino Di Matteo. Sul cui conto Il Foglio ha scritto polemicamente tante volte, finendone anche querelato, ma uscendone recentemente assolto.

           Il Fatto.jpg Il giornale diretto da Marco Travaglio –il Fatto Quotidiano- è stato naturalmente all’altezza delle peggiori aspettative, traducendo l’interpretazione della sentenza data da Di Matteo in questo titolo di copertina a caratteri di scatola: La trattativa c’è stata e B. è il suo profeta”. B. naturalmente è Silvio Berlusconi, l’ossessione di Travaglio, dei grillini e di altri ancora. Un Berlusconi che, non avendo potuto entrare nella lista degli imputati del processo chissà per quale sbadataggine degli inquirenti, è stato associato in un fotomontaggio a due degli imputati veri, entrambi condannati a 12 anni di reclusione, salvo assoluzione in appello: il già citato Dell’Utri e il generale dei Carabinieri Mario Mori, assolto per fatti analoghi in altra sede giudiziaria e responsabile, evidentemente a sua insaputa, della cattura di un bel po’ di mafiosi, compreso l’allora capo dei capi Totò Riina. Che, scampato da defunto all’esito del processo, starà ridendo dall’aldilà della propria vendetta, come ha detto l’avvocato del generale .

Le condanne in primo grado per la trattativa Stato-mafia

            Per quanto macchiata lo stesso dall’assoluzione dell’ex ministro democristiano dell’Interno Nicola Mancino, ingiustamente raggiunto da un’accusa di falsa testimonianza che gli ha letteralmente rovinato la vecchiaia dopo una vita spesa nelle e per le istituzioni, sino a rappresentarle ai vertici del Senato e del Consiglio Superiore della Magistratura, la Procura della Repubblica di Palermo è stata salvata dalle sentenze di condanna emesse al termine del  lungo, anzi lunghissimo processo di primo grado per la presunta trattativa fra organi dello Stato e la mafia nella stagione delle stragi.

          Trattativa presunta, perché siamo usciti solo dal primo grado, appunto, di giudizio e non è per niente scontato che finirà così anche in appello, dove si spera che non occorrano altri cinque anni, quanto è durato il processo appena conclusosi. Ma presunta anche perché gli imputati condannati, tra militari d’alto grado, il politico Marcello Dell’Utri e mafiosi, hanno dovuto rispondere del reato non di trattativa, che non esiste, ma di minaccia a corpo politico dello Stato.

            Fra le incongruenze del processo appena concluso ne sono da segnalare almeno due. Il generale dei Carabinieri Mario Mori, già capo del servizio segreto, è stato condannato dopo essere stato assolto per fatti analoghi in altre sedi giudiziarie. Assolto è stato anche l’ex ministro democristiano Calogero Mannino, processato per gli stessi fatti col rito abbreviato, da lui scelto per accelerare il verdetto.

            Ce n’è abbastanza, francamente, con la già ricordata assoluzione di Nicola Mancino, per dubitare della vicenda giudiziaria nel suo complesso nota come “la trattativa”, pur con tutto il rispetto che si deve, per carità, ad una sentenza provvisoria emessa da un tribunale dello Stato in nome del popolo italiano.

            Dalla vicenda processuale, al netto di ogni discussione di dottrina, e stando alla ricostruzione dei fatti, ma anche degli uomini, vivi e morti, che li contrassegnarono secondo l’accusa, dovremmo dire o pensare che un quarto di secolo fa, nel passaggio dalla prima alla seconda Repubblica, mentre i vecchi partiti di governo venivano praticamente spazzati via dalle inchieste giudiziarie sulla cosiddetta Tangentopoli, il vecchio che stava scomparendo e il nuovo che stava arrivando tramavano contemporaneamente con la mafia. Il vecchio, impersonato dall’allora capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro, attaccato dall’accusa nel dibattimento, tramava o lasciava tramare per fermare le stragi mafiose. Il nuovo, impersonato da Marcello Dell’Utri, che organizzava Forza Italia per conto di Silvio Berlusconi, perché le stragi continuassero a dare gli ultimi colpi al sistema cadente e aiutasse la successione, per terminare ad operazione completata e riscuotere contropartite legislative.

            Ditemi quello che volete, con o senza l’aiuto di un testimone, Massimo Ciancimino, peraltro condannato nello stesso processo appena concluso per calunnia, figlio dell’assai poco storico sindaco di Palermo Vito Ciancimino, presunto intermediario della trattativa fra i suoi amici mafiosi e pezzi da novanta dello Stato; ditemi, ripeto, quello che volete, ma a me, vecchio cronista e analista politico, questa storia continua a non convincermi.

          Ancor meno mi convince questa storia quando serve a far dire al giovane aspirante del movimento grillino a Palazzo Chigi, Luigi Di Maio, avvitatosi nella sua corsa alla guida del governo in una crisi che sta ulteriormente imbiancando i capelli del presidente della Repubblica, che con la sentenza di Palermo “muore definitivamente la seconda Repubblica”: quella, evidentemente, di Berlusconi, obiettivo dei suoi veti politici proprio in questa crisi. Definitivamente, perché Di Maio annunciò già la morte della seconda Repubblica nella notte fra il 4 e il 5 marzo scorso, quando si proclamò vincitore delle elezioni politiche e fu colto, temo, dalle prime vertigini del potere al quale si sentiva spinto, come ancora dice con orgoglio, da “undici milioni di voti”, arrotondati in eccesso.

Violato il perimetro dell’esplorazione ordinata da Mattarella per la crisi

            Per fortuna- sua e del mandato esplorativo affidatole dal capo dello Stato dopo due giri di consultazioni a vuoto- è rimasta senza conferma la visione di “uno spiraglio” attribuita alla presidente del Senato durante la diretta televisiva di Enrico Mentana, a La 7. Si era appena concluso un sofferto incontro con la delegazione del movimento delle 5 stelle a Palazzo Giustiniani. Dove Luigi Di Maio e amici si erano peraltro presentati con un ritardo indicativo già di suo delle difficoltà, contraddizioni e preoccupazioni montanti fra i grillini sugli sviluppi della crisi di governo. L’esploratrice ne ha ricavato solo “quale spunto di riflessione” riferito poi al capo dello Stato.

            All’uscita dalla sala dell’incontro con la presidente del Senato l’aspirante pentastellato a Palazzo Chigi ha dettato, per un’intesa contrattuale col segretario leghista Matteo Salvini, condizioni ben al di là, o al di qua, secondo i gusti, del perimetro preciso dell’esplorazione indicato nel comunicato letto al Quirinale dal Segretario generale della Presidenza della Repubblica, Ugo Zampetti, per descrivere l’incarico affidato dal capo dello Stato a Maria Elisabetta Alberti Casellati.

            Rileggiamolo insieme quel documento sul mandato di “verificare l’esistenza di una maggioranza parlamentare tra i partiti della coalizione di Centrodestra e il Movimento Cinque Stelle e un’indicazione condivisa per il conferimento dell’incarico di presidente del Consiglio per costituire il governo”.

            Ebbene, dopo avere definito nel primo incontro con la Casellati “un artificio” la coalizione di centrodestra menzionata nel comunicato del Quirinale, Di Maio non solo ha ripetuto, dopo il secondo incontro, di considerare Salvini il suo unico interlocutore, escludendo anche la sola possibilità di incontrare in una eventuale trattativa rappresentanti di Forza Italia e dei Fratelli d’Italia, ma ha aggravato il quadro, forse senza neppure rendersene conto, con una curiosa e provocatoria concessione. Egli ha cioè offerto agli interlocutori rifiutati la possibilità di appoggiare dall’esterno il governo da lui negoziato col solo Salvini. Un appoggio che, bontà sua, Di Maio considererebbe “non ostile”, concesso autonomamente dai partiti di Silvio Berlusconi e di Giorgia Meloni. Che naturalmente non ci pensano neppure. Berlusconi si è affrettato anche ad annunciarlo con un comunicato mentre partiva per il Molise, dove domenica si voterà per il rinnovo del Consiglio regionale.

            La maggioranza di governo delineata da Di Maio è ben diversa, nello spirito e nella sostanza, da quella dell’esplorazione affidata alla presidente del Senato, per nulla confondibile per lo “spiraglio” venduto, diciamo così, alla diretta televisiva di Mentana su La 7.

           Presumo che Di Maio non ne sia neppure consapevole, date la sua giovane età -beato lui- e la scarsa conoscenza storica già dimostrata in altre occasioni, ma egli ha un po’ riportato col suo progetto la politica italiana ai lontanissimi anni 1957 e 1958. Allora governò un monocolore democristiano presieduto da Adone Zoli, romagnolo come Benito Mussolini. Dei cui resti mortali, sotto quel governo, fu finalmente possibile la traslazione dal cimitero in cui erano stati nascosti, più che sepolti, per il loro voluto anonimato. Essi furono trasferiti a Predappio, la città natale di Mussolini.

            Quel governo, guarda caso, durò per poco meno di 500 giorni grazie all’appoggio esterno delle destre: tutte le destre, compresi i missini. I cui voti però, per quanto decisivi, furono sprezzantemente definiti alla Camera “né richiesti né graditi” da Adone Zoli. Che per sottolineare il concetto pronunciò quelle parole volgendo le spalle ai banchi del Movimento Sociale allora guidato da Arturo Michelini.

            Pazienza per Giorgia Meloni, che guida un partito in qualche modo collegabile col Movimento Sociale, pur essendo lei nata addirittura 40 anni dopo il governo Zoli. Ma per Silvio Berlusconi non deve essere stato gratificante sentir trattare il suo partito da Di Maio come quello di Michelini nel 1957 dall’avvocato di Cesenatico cui capitò di diventare il sesto presidente del Consiglio della Repubblica italiana.

           Schermata 2018-04-20 alle 07.51.52.jpg Non parliamo poi della macabra ironia alla quale il trattamento di Berlusconi da parte di Di Maio si è prestata sulla prima pagina del solito Fatto Quotidiano, che ha titolato su Berlusconi che “rifiuta il concorso esterno” neppure offertogli ma solo tollerato con sufficienza dal candidato grillino a Palazzo Chigi. Concorso esterno, come quello alla mafia per il quale è già in carcere il berlusconianissimo Marcello Dell’Utri, non avendovi potuto mandare lo stesso Berlusconi taluni magistrati e opinionisti che se ne sono a lungo e ripetutamente occupati anche sotto questo profilo.

 

 

 

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La crisi ormai avviata verso il piano inclinato di un governo di emergenza

              Come spesso gli accade felicemente, è stato il manifesto a sintetizzare meglio di tutti i giornali italiani con quel titolo di copertina Mandato e ritorno il significato della missione esploratrice di 48 ore, non di più, affidato da Sergio Mattarella alla presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati. E ciò allo scopo di cominciare, quanto meno, a tirare la crisi di governo dallo stallo denunciato dallo stesso Mattarella dopo due giorni di consultazioni a vuoto nel suo studio, al Quirinale.

            Accettabile proprio per la sua breve durata, ma anche per l’indicazione precisa dello scenario politico da esaminare, limitato ad una maggioranza composta dalla coalizione di centrodestra e dai grillini, la missione affidata dal presidente della Repubblica alla seconda carica dello Stato è stata messa al riparo da ogni accusa, che pure qualcuno ha formulato lo stesso, di una perdita di tempo, o di un espediente politico per favorire chissà quale oscura operazione.

            Più che un’esplorazione, essendo stato il campo già percorso dallo stesso Mattarella, affiancato da tanto di testimoni, alla presidente del Senato è stata chiesta una certificazione: quella della impraticabilità, sul piano del governo, della maggioranza che pure l’ha portata alla già ricordata seconda carica dello Stato. Il resto è fuffa, al di là dei soliti elementi più o meno spettacolari, e forse anche sgarbati, come è stato considerato da qualcuno -ma non dall’interessata, a quanto sembra- il rifiuto di Matteo Salvini di rinunciare a un convegno a Catania per poter partecipare con i suoi colleghi di partito al primo incontro con l’esploratrice. Alla quale si era d’altronde affrettato a garantire la presenza al secondo, il giorno dopo, e per giunta con tutta intera la delegazione del centrodestra, a conferma anche visiva di un’esistenza della coalizione ostinatamente negata dall’ormai inutile aspirante grillino a Palazzo Chigi: l’ineffabile Luigi Di Maio.

            Quest’ultimo mostra ancora di credere di potere acquistare il pane per il suo governo dall’altro “forno”, costituito non più dalla Lega, indisponibile a scaricare l’alleato Silvio Berlusconi, ma dal Pd del segretario reggente Maurizio Mattina. Ma lo stesso giovanotto crede così poco a questa alternativa da non volersi esporre con un incarico formale, per cui probabilmente il paziente presidente della Repubblica dovrà ricorrere ad un’altra esplorazione, o certificazione. Per la quale si fa già sulle prime pagine di tutti i giornali il nome del titolare della terza carica dello Stato: il presidente della Camera Roberto Fico, collega di partito dello stesso Di Maio.

            Pericolante già negli stessi numeri parlamentari, essendo una maggioranza composta dai grillini e dal Pd tanto esigua al Senato da non potersi permettere più di qualche assenza, fortuita o voluta, l’alternativa inutilmente minacciata da Di Maio al leghista Salvini chiude il cerchio delle ipotesi, diciamo così, ordinarie della crisi apertasi con le dimissioni del governo Gentiloni. Che la diciottesima legislatura uscita dalle urne del 4 marzo ha ereditato dalla precedente.

            Non si potrà allora passare che a formule speciali, del resto non nuove nella storia più che settantennale della Repubblica, di prima o seconda edizione. Il quirinalista del Corriere della Sera Marzio Breda, aduso ai presidenti di turno e ai loro collaboratori, ha tagliato corto a tutte le definizioni con le quali si sono cimentati in questi giorni i suoi colleghi, gli immancabili professori e gli esponenti più o meno autorevoli dei vari partiti, ed ha chiamata davvero per nome il governo a quel punto imposto dai fatti alle riflessioni e decisioni del capo dello Stato: “governo di emergenza”. E così sia.

 

 

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Quella volta che Gabriele Cagliari mi disse: pagheremo cara l’amicizia con Craxi

Non ho il piacere di conoscere Stefano Cagliari, di cui ho appena finito di leggere la toccante intervista a Giovanni Maria Iacobazzi sul libro che rievoca la tragica vicenda del padre, Gabriele, morto suicida il 20 luglio 1993 nel carcere di San Vittore. Dove gli era stata fatta inutilmente sperare la scarcerazione, vanificata anche per le ferie di un magistrato che lo aveva interrogato per una delle indagini passate alla storia col nome di “Mani pulite”.

Il mio rimpianto dell’amico Gabriele è naturalmente ben poca cosa rispetto a quello del figlio. Al quale tuttavia tengo a raccontare l’ultimo incontro avuto col padre. Che come presidente dell’Eni era, fra l’altro, il mio editore.

Era la mattina di un lunedì afoso della primavera del 1992 a San Donato Milanese. Ci eravamo dati appuntamento per le ore 11 del 4 maggio nel suo ufficio, dove Gabriele aveva voluto vedermi per tentare di dissuadermi dal proposito già annunciato di lasciare la direzione del Giorno alla scadenza del contratto triennale. Che avevo stipulato sotto la presidenza Eni di Franco Reviglio nella primavera del 1989.

Ero letteralmente stressato dall’assedio politico e sindacale subìto dal 17 febbraio di quel maledetto 1992 , quando fu arrestato in flagranza di reato di corruzione e altro il presidente socialista del Pio Albergo Trivulzio di Milano, Mario Chiesa.

Nonostante Il Giorno fosse stato l’unico giornale a dare la mattina del 18 febbraio in prima pagina quella notizia destinata a funzionare come il detonatore della cosiddetta Tangentopoli, dal 19 febbraio fui accusato o sospettato, secondo le preferenze, di volere minimizzare la vicenda e le relative indagini giudiziarie perché amico di Bettino Craxi: il segretario del partito di Chiesa e di molti altri che sarebbero stati poi coinvolti nelle inchieste. Magari solo coinvolti perché assolti dopo anni, ma il coinvolgimento bastava e avanzava per liquidarli come delinquenti. E anche registrarne qualche suicidio come confessione di colpa, secondo un giudizio espresso da un magistrato che questa colpa, essa sì, non ha mai pagato nella sua carriera, proseguita con tutti gli onori della casta di appartenenza.

Non c’era giorno che qualcuno, fuori e dentro il giornale da me diretto, non facesse il conto delle pagine, del loro ordine e delle colonne dedicate alle indagini della Procura milanese: mai abbastanza, e/o mai abbastanza evidenti per essere giudicate all’altezza delle attese. Neppure il povero Antonio Di Pietro, Tonino per gli amici, riuscì ad alleggerire questo controllo sindacale e politico dichiarando, bontà sua, in una intervista che Il Giorno non aveva mai ignorato o sottovalutato i prodotti delle sue indagini. E come poteva d’altronde essere diversamente, con tutti quegli arresti quotidiani eseguiti o preannunciati ?

Per tutta la durata di quel mio assedio Gabriele fu di un’amicizia e di una lealtà esemplari. Ad uno dei comunicati sindacali che contestavano le mie scelte di collocazione e titolazione delle notizie il presidente dell’Eni reagì con un comunicato di solidarietà della società editrice e con la disposizione di un aumento del mio stipendio. Egli pertanto si sentì autorizzato quella mattina a chiedermi di soprassedere alle dimissioni e di accettare la conferma per un altro triennio. Pertanto mi dispiacque molto deluderlo insistendo, limitandomi solo a procrastinare di un mese, sino a tutto giugno, l’incarico di direttore per dargli il tempo necessario a cercare un successore.

Il discorso passò allora a questioni meno personali, a cominciare dalla complessa situazione politica uscita dalle urne del 5 e 6 aprile e degli intrecci inevitabili fra la ricerca di un nuovo governo e le cronache giudiziarie. In particolare, la conversazione cadde sul nostro comune amico Craxi e sulla convinzione che Bettino ancora aveva di poter controllare la situazione, sino alla realizzazione dell’intesa col segretario della Dc Arnaldo Forlani. Che prevedeva il ritorno di Bettino a Palazzo Chigi dopo il brusco allontanamento voluto nel 1987 da Ciriaco De Mita con le polemiche sulla famosa “staffetta”.

Gabriele non si faceva alcuna illusione. Mi confidò di avere raccolto la sera prima le lacrime della moglie, estimatrice di Bettino. Che non si dava pace della “trappola” tesa al leader socialista.

Quando venne il momento di separarci, convinti che difficilmente ci saremmo incontrati, di nuovo a breve termine, Gabriele mi ringraziò del lavoro svolto al giornale abbracciandomi e dicendomi, con voce strozzata dall’emozione: “Ci aspettano mesi terribili. Pagheremo tutti cara la nostra amicizia con Bettino”. Ebbi la sensazione, francamente, che  egli già avvertisse nell’aria i rischi giudiziari che lo aspettavano.

Ci risentimmo poi una sola volta per telefono, quando mi chiamò per chiedermi per quale motivo non scrivessi più per Il Giorno, dando per scontato che il nuovo direttore mi avesse offerto una collaborazione, e non sapendo che in ogni caso non l’avrei accettata. Non mi erano mai piaciute professionalmente le minestre riscaldate, come mi aveva insegnato a definire simili soccorsi Indro Montanelli al Giornale.

            L’arresto di Gabriele avvenne il 9 marzo 1993, il suicidio il 20 luglio, come ho già ricordato, dopo che gli era stato, peraltro, di fatto impedita anche la partecipazione ai funerali della giovane nuora: la moglie di Stefano.

Di prima mattina del 23 luglio, nell’obitorio di Lambrate, mi presentai per rivedere Gabriele davvero per l’ultima volta, composto in una bara. Stentai a riconoscerlo in quel pallore della morte, e col cranio avvolto nell’ovatta sistemata dopo l’autopsia. Solo il personale di guardia mi aiutò a non confonderlo con l’altra salma esposta.

Uscii straziato  dall’obitorio per partecipare poco dopo ai funerali di Gabriele, nella Chiesa di San Babila, dove gli occhi erano troppo bagnati di lacrime perché potessi vedere bene il solito spettacolo degli sciacalli, già distratti del resto da un  altro suicidio appena avvenuto a poca distanza: quello di Raul Gardini. Che si era ucciso proprio quella mattina a casa per paura di doverlo poi fare pure lui in carcere, come Gabriele, dopo esservi stato tradotto e dimenticato per un bel po’.

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

Proposto il ricorso alla macchina della verità per Luigi Di Maio

            Inventata o autentica che sia, è formidabile la battuta attribuita a Matteo Renzi di fronte ai repentini cambiamenti di posizione dei grillini per adattarsi ad una trattativa di governo col Pd: “Bisognerebbe sottoporre Luigi Di Maio alla macchina della verità”.

            Persino il programma elettorale del movimento delle 5 stelle, elaborato e infine approvato con le solite modalità digitali, è stato modificato in alcuni passaggi -come ha rivelato impietosamente Il Foglio tra precisazioni e smentite a dir poco imbarazzate- per renderlo compatibile, all’esame di un professore arruolato in tutta fretta da Di Maio, prima con quelli, indifferentemente, della Lega e del Pd, e poi solo o soprattutto col secondo.

            E’ infatti accaduto che l’aspirante grillino a Palazzo Chigi abbia deciso di allontanarsi dal forno di Matteo Salvini, adoperato per la spartizione dei vertici del Parlamento eletto il 4 marzo scorso ma frequentato anche dal troppo ingombrante e sgradito Silvio Berlusconi, per accostarsi a quello del segretario reggente del Pd Maurizio Martina. Nella cui vetrina sono stati appena rispolverati, non so francamente se più casualmente o apposta, tre vecchi punti programmatici del partito del presidente uscente del Consiglio Paolo Gentiloni e del suo predecessore: reddito di inclusione, salario minimo legale e assegno universale per le famiglie.

Titolo del Fatto.jpg           Ci stiamo, hanno subito commentato Di Maio e amici, senza neppure consultare il professore incaricato del compito di definire le compatibilità fra i vari programmi, o il loro contrario. Contemporaneamente nella redazione del solito Fatto Quotidiano, diretto dall’altrettanto solito Marco Travaglio, hanno provveduto a rifare la prima pagina per sparare un titolo fra il compiaciuto e l’irrisorio, cui da quelle parti non rinunciano mai perché è nella loro natura, come disse lo scorpione alla rana pungendola e affogando insieme nell’acqua. “Dopo 44 giorni in freezer, si scioglie il Pd: il No ai 5 Stelle è già diventato Ni”, ha annunciato il giornale insieme di fiancheggiamento e di sorveglianza del movimento grillino, in piena e totale autonomia naturalmente, spettando solo al suo direttore decidere dove finisce l’appoggio e cominciano invece, secondo le circostanze, i consigli e i moniti.

            Le capacità camaleontiche di un movimento così generosamente premiato -va detto- dagli elettori 44 giorni fa, per stare ai conti del Fatto Quotidiano, prima che costoro potessero accorgersi di queste doti di Di Maio e amici, si sono avvertite soprattutto sul terreno che sembrava il meno adatto ai cambiamenti repentini di posizione: quello della politica internazionale. Dove le reazioni ai missili lanciati contro obiettivi rigorosamente militari della Siria da americani, inglesi e francesi per cercare di neutralizzare  le armi chimiche che il dittatore di quel Paese usa adoperare contro i suoi oppositori, hanno consentito a Di Maio di sorprendere e scavalcare in atlantismo persino l’ex presidente della Commissione Esteri del Senato Pier Ferdinando Casini. A tanto è riuscito il putinismo quasi incondizionato del leader leghista, e del nuovo centrodestra, Salvini.

            Se non gli capiterà di diventare presidente del Consiglio per l’incapacità appena rimproveratagli dal vecchio Emanuele Macaluso di “governare le proprie ambizioni”, il giovane Di Maio potrà candidarsi alla successione all’attuale segretario generale della Nato, il laburista norvegese Jens Stoltenberg. O anche alla successione, l’anno prossimo, al presidente della commissione dell’Unione Europea, visti i cambiamenti intervenuti nel movimento grillino pure sull’euro e dintorni. Tanto, candidarsi non costa niente.

           

Sono un pò troppi -12 milioni e più- gli italiani che Di Maio non riconosce

            A vedere e sentire Luigi Di Maio, nel salotto televisivo di Otto e mezzo, alle prese con la conduttrice Lilli Gruber e col notista politico del Corriere della Sera Massimo Franco, vi confesso di essere stato per un attimo tentato di condividere il pur ardimentoso paragone fatto recentemente dal direttore dello stesso Corriere, Luciano Fontana, fra il candidato grillino a Palazzo Chigi e la buonanima di Giulio Andreotti, naturalmente ringiovanito e privo della storica gobba. Dove un’altra buonanima, quella di Enzo Biagi, immaginava che il sette volte presidente democristiano del Consiglio custodisse i segreti della Repubblica.

            Ma l’impressione, per la capacità del giovanotto di rispondere con prontezza e disinvoltura ai suoi interlocutori, è durata appunto un attimo. E mi è passata quando l’ospite di Lilly ha cercato di spiegare le ragioni per le quali, cercando di imitare Andreotti come cliente o titolare di due forni, ha spiegato per quale motivo la Lega e il Pd sono per lui perfettamente interscambiabili. Come per un certo tempo l’Andreotti degli anni della “centralità” riteneva il Pli di Giovanni Malagodi e il Psi di Pietro Nenni, e l’Andreotti degli anni successivi il Psi di Bettino Craxi e il Pci di Enrico Berlinguer, prima che con Bettino non scoppiasse la piena sintonia di Sigonella.

            Nell’estrapolare la Lega di Matteo Salvini dal centrodestra per ribadire e motivare il veto grillino contro Berlusconi e Forza Italia come partecipi di un “contratto” di governo, Di Maio ha detto, letteralmente, di non conoscere “nessun italiano che abbia votato per il centrodestra” il 4 marzo scorso, ma solo italiani che hanno votato o per la Lega, o per Forza Italia o per Fratelli d’Italia. Eppure per l’assegnazione della parte maggioritaria dei seggi parlamentari quegli elettori hanno votato candidati comuni.

            Beh, a questa rappresentazione politica di un risultato elettorale Andreotti non sarebbe mai arrivato, essendo troppo sconclusionata. Che la coalizione di centrodestra fosse arrivata alle elezioni composita, ed anche eterogenea, incollata pure  dall’opportunismo, e con due galli a cantare -Berlusconi e Salvini-  per la cosiddetta leadership, non si può certo negare. Ma che dodici milioni e più di italiani l’abbiano poi votata, sapendo peraltro che sarebbero stati loro stessi a sciogliere il nodo della guida, com’è avvenuto col sorpasso della Lega su Forza Italia, Di Maio non può negarlo: né come politico, né come fornaio, poco importa se di pane o di pizza, col suo amico Roberto Fico ora ben piazzato alla presidenza della Camera.

            Berlusconi avrà esagerato giovedì scorso nella loggia quirinalizia della Vetrata nei riguardi del padrone di casa Sergio Mattarella, verso i cui ospiti, compresi i grillini, egli doveva il rispetto anche improvvisando un mezzo cabaret. Ma non ha certo esagerato nei riguardi della logica politica quando ha equiparato all’”assenza dell’abc della democrazia” la pretesa di Di Maio di non riconoscere dignità d’interlocuzione ad una coalizione presentatasi regolarmente alle elezioni, e uscita delle urne con più voti del movimento dello stesso Di Maio.

            E’ lesiva dell’onestà politica la pretesa grillina di trattare con Salvini a prescindere dai suoi alleati, che peraltro sono stati trattati e rispettati come tali negli assetti parlamentari e istituzionali, e nonostante i ripetuti rifiuti del segretario leghista di prestarsi a veti contro chi lui rappresenta come leader della coalizione classificatasi al primo posto nella graduatoria elettorale.

           Quella di Di Maio è’ una pretesa che ha, fra l’altro, il torto di interferire anche nelle valutazioni del presidente della Repubblica, che ha preso tanto sul serio la coalizione di centrodestra da riceverne insieme le delegazioni nel secondo e più stringente giro di consultazioni, quando ne ha ricevuto la richiesta. Che, a dire il vero, sarebbe stato meglio formulare anche nel primo giro, proprio per evitare speculazioni grilline.

Il Pantheon repubblicano dei capri espiatori: da De Gasperi a Renzi

L’articolo di Angela Azzaro in difesa di un  Pd, e del suo ex segretario, diventato la sentina di tutti i mali della politica e persino della società italiana dopo i risultati elettorali del 4 marzo, mi ha fatto tornare alla mente un po’ di capri espiatori nella storia più che settantennale ormai della Repubblica.

Tutto sommato, Matteo Renzi può sentirsi in buona compagnia, pur con tutti gli errori che ha sicuramente compiuti, compreso quello che personalmente gli ho più volte rimproverato di avere negato il Pantheon della sinistra riformista italiana a Bettino Craxi. Di cui pure, volente o nolente, lui ha ripercorso alcune tappe nell’azione di partito e di governo, persino quelle delle reazioni più scomposte e indegne dei suoi avversari, che  ne hanno sognato l’arresto, sprovvisto com’era prima dell’elezione a senatore di Scandicci, di quel poco che è rimasto della vecchia immunità parlamentare. O lo hanno più semplicemente scambiato per un aspirante tiranno, come fece appunto con Craxi nel 1983  l’allora segretario del Pci Enrico Berlinguer. Che pure Renzi è tornato anche di recente a preferire al leader socialista nella galleria della sinistra.

Nel 1953 il ruolo del capro espiatorio toccò’ addirittura al protagonista della ricostruzione post-bellica del Paese: Alcide De Gasperi. Al quale non fu rimproverata, per quanto neppure scattata nelle elezioni di quell’anno, una legge chiamata “truffa” perché contemplava un premio di maggioranza in Parlamento per chi avesse raccolto il 50 per cento più uno dei voti. Roba da ridere rispetto ai premi adottati o tentati durante la cosiddetta seconda Repubblica.

Il povero De Gasperi subì l’onta della sfiducia parlamentare ad un governo appena formato, l’ottavo della sua storia personale, e si ritirò fra le montagne del suo Trentino per morirvi praticamente di crepacuore. E ciò mentre il suo successore alla guida della Dc, l’allora giovane Amintore Fanfani, si vantava di essere stato da lui stesso aiutato a subentrargli. “Una fantasia”, soleva commentare a labbra strette Giulio Andreotti, che di De Gasperi era stato il braccio destro.

Toccò poi al medesimo Fanfani diventare il capro espiatorio di una rivolta di partito che lo estromise contemporaneamente da segretario, da presidente del Consiglio  e da ministro degli Esteri. Furono utilizzati contro di lui persino alcuni incidenti ferroviari per dargli del menagramo. E appendergli in fotografia al collo un corno, come fece in una copertina un settimanale allora in voga –Il Borghese- fondato da Leo Longanesi.

Aldo Moro, succeduto a Fanfani come segretario della Dc nel 1959 e poi anche come presidente del Consiglio alla testa, nel 1963, del primo governo “organico” di centro-sinistra, con tanto di trattino, divenne nel 1968 il capro espiatorio del mancato successo elettorale dell’unificazione socialista. Che pure lui aveva cercato di favorire, fra le proteste della maggiore corrente della Dc, quella dei “dorotei”, sponsorizzando nel 1964 l’elezione del suo ministro degli Esteri Giuseppe Saragat al Quirinale. Dove peraltro qualche mese prima il democristiano Antonio Segni era stato colto da ictus in un alterco proprio con Saragat.

Fu proprio la mancanza dell’appoggio di Saragat, nell’estate del 1968, a determinare l’allontanamento di Moro da Palazzo Chigi. “Non lasciatemi morire con Moro”, si lasciò supplicare quell’estate Pietro Nenni, che ne era stato il vice al vertice del governo.

Estromesso dalla presidenza del Consiglio per convergenza di interessi e risentimenti democristiani e socialisti, Moro divenne il bersaglio persino del coltissimo ed ecumenico Giovanni Spadolini. Che da direttore del Corriere della Sera ne contestò in un fondo domenicale il voto espresso nella competente commissione della Camera a favore di un emendamento comunista alla riforma degli esami di Stato, approvato per garantire la promozione dello studente in caso di parità di giudizi.

In quel voto Spadolini vide addirittura tracce o indizi della “Repubblica conciliare”, anticipatrice di quello che sarebbe poi diventato con Berlinguer il progetto del “compromesso storico”. Ricordo ancora lo sconforto confidatomi da Moro per essere stato frainteso da un professore universitario dimentico -mi disse l’ex presidente del Consiglio- che anche un imputato va assolto a parità di voti.

Debbo dire che poi Moro, quando gli capitò da presidente del Consiglio, in un bicolore Dc-Pri con Ugo La Malfa, di far nominare Spadolini ministro gli “regalò” -mi disse- il Ministero dei Beni Culturali fornendogli con un decreto legge il portafogli di cui quel dicastero non disponeva ancora.

Dopo tre anni Moro, nel frattempo detronizzato di nuovo da Palazzo Chigi, sarebbe stato sequestrato e ucciso dalle brigate rosse. Il capro espiatorio anche di quella vicenda, e non solo di un presunto deterioramento dei rapporti fra società civile e politica avvertito dal Pci nei risultati stentati di un referendum contro la legge che disciplinava il finanziamento pubblico dei partiti, fu Giovanni Leone. Il quale fu costretto dalla mattina alla sera a dimettersi da presidente della Repubblica, quando mancavano solo sei mesi alla scadenza del mandato quirinalizio.

Così il povero Leone pagò pure, o soprattutto, la colpa di essersi messo di traverso alla linea della fermezza adottata dal governo di fronte al sequestro del presidente della Dc. Di cui invece il capo dello Stato aveva voluto tentare  uno scambio predisponendo la grazia per Paola Besuschio, compresa nell’elenco dei tredici detenuti che i terroristi avevano chiesto di liberare per restituire vivo l’ostaggio.

Il turno successivo di capro espiatorio toccò ad Arnaldo Forlani, dimessosi da presidente del Consiglio nel 1981 per le liste della loggia massonica P2 di Licio Gelli, in cui c’era anche il nome di un prefetto che era il suo capo di Gabinetto. Poi Forlani dovette difendersi in una causa alla Corte dei Conti per i danni subiti dai massoni, e risarcibili dallo Stato, a causa della diffusione delle liste, per quanto avvenuta d’intesa tra il governo e la competente autorità giudiziaria. Una vicenda tutta italiana per confusione, caccia alle streghe e quant’altro.

Decisamente più drammatica fu, come capro espiatorio, la sorte di Bettino Craxi, perseguito con “una durezza senza uguali”, certificata dopo anni con lettera dell’allora capo dello Stato Giorgio Napolitano alla vedova, per il finanziamento illegale della politica, e reati connessi. Come se Craxi non avesse ereditato ma inventato lui quel fenomeno, per giunta coperto  nel 1989 con un’amnistia che aveva consentito a un bel po’ di politici di farla franca.

Giulio Andreotti divenne invece negli stessi anni il capro espiatorio delle carenze nella lotta alla mafia, per quanto il suo ultimo governo avesse trattenuto con un decreto legge di controversa costituzionalità un bel po’ di mafiosi che avevano maturato il diritto di uscire dal carcere. E avesse arruolato al Ministero della Giustizia, proprio per la lotta alla mafia, un campione come il giudice  Giovanni Falcone, eliminato per questo dai criminali con la strage di Capaci.

Processato, in sovrappiù, ed assolto anche per il delitto Peccorelli, il sette volte presidente del Consiglio, nonché senatore a vita di nomina quirinalizia  avendo “illustrato la Patria – secondo la formula dell’articolo 59 della Costituzione- per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario”, si è portata nella tomba l’onta, ancora rimproveratagli ogni volta che gli capita dal pubblico accusatore Gian Carlo Caselli, di una  prescrizione del reato di associazione a delinquere, prima che diventasse concorso esterno in associazione mafiosa. Da cui in ogni modo Andreotti fu assolto, per ammissione anche di Caselli.

Passati dalla prima alla seconda Repubblica, ci siamo dovuti accontentare, sempre nel campo politico, di capri espiatori, diciamo così, più alla buona. Come il povero Achille Occhetto, sostanzialmente deposto nel 1994 da Massimo D’Alema al vertice dell’ex Pci per la sorprendente e strepitosa vittoria elettorale conseguita sulla sinistra dall’esordiente Silvio Berlusconi. E poi lo stesso Berlusconi per le sue abitudini di vita non da seminario, o per i suoi affari, analoghi a quelli di tutti gli altri imprenditori della sua stazza finanziaria, o persino per le speculazioni subite dai titoli del debito pubblico italiano nell’estate del 2011, quando irruppe sulla scena il loden austero di Mario Monti.

Il ruolo di capro espiatorio è inoltre toccato a D’Alema per essere subentrato nel 1998 a Romano Prodi senza passare per gli elettori con le elezioni anticipate, e per una certa spocchia rimproveratagli a volte a ragione ma a volte anche a torto.

Il povero Fausto Bertinotti, a dispetto delle buone maniere che tutti gli riconoscono, è stato buttato dal mio amico Giampaolo Pansa tra le fiamme come “il parolaio rosso” per non aver voluto a suo tempo sostenere i governi Prodi oltre le loro materiali capacità di resistenza politica.

Walter Veltroni divenne nel 2009 il capro espiatorio di alcuni rovesci locali del Pd da lui stesso fondato due anni prima, scampando al torto più consistente e per lui dannoso di essersi apparentato a livello nazionale nelle elezioni del 2008 con Antonio Di Pietro, subendone la linea.

Matteo Renzi chiude, per ora, la lista per le rottamazioni sbagliate, o per quelle incompiute. E per sopravvivere fisicamente alle sue dimissioni da segretario del Pd dopo la sconfitta del 4 marzo. Già, perché la sua stessa presenza fisica sembra infastidire i vecchi e nuovi avversari politici. E’ incredibile ma vero in questo Paese che continua a chiamarsi Italia.

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

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