Berlusconi chiude la quinta colonna protestataria delle sue televisioni

            Almeno sui giornali, e negli uffici del Quirinale dove si prepara il secondo giro delle consultazioni per la soluzione della crisi di governo, la coalizione di centrodestra uscita -essa sì- dalle urne del 4 marzo col maggior numero di voti, più di quelli certamente ragguardevoli presi dal movimento grillino, avrebbe ritrovato la sua unità. E ciò grazie anche all’autorete compiuta dall’aspirante pentastellato a Palazzo Chigi, Luigi Di Maio, reclamando un giorno sì e l’altro pure la rottura del patto elettorale fra Matteo Salvini, il suo interlocutore privilegiato, e Silvio Berlusconi.

            Non ha funzionato, almeno sinora, neppure il tentativo grillino di intimidire Salvini aprendo generosamente al Pd ancora renziano con la proposta, appena affidata in una intervista a Repubblica, di “sotterrare l’ascia di guerra”.

            Dalle parti del Pd leader, leaderini e comparse sono ancora troppo presi a farsi la guerra fra di loro, addebitandosi a vicenda la responsabilità della sconfitta elettorale, per diventare una sponda credibile dei grillini in funzione antiberlusconiana. Le guerre di superficie e ancora più quelle sotterranee nel partito dove c’è sempre una nuova scissione alle porte, questa volta attribuita addirittura a Renzi in versione Macron, inumidiscono tutte le munizioni offerte dai  grillini  per tentare l’ultimo assalto all’uomo di Arcore. Che con il suo ormai modesto 14 per cento dei voti, e con i conti ancora aperti con la giustizia, resta ancora l’incubo del  movimento 5 stelle. Sarebbe materia da psicanalisi più che di analisi politica, ma così è. E non resta che prenderne atto.

            Berlusconi dunque, visto lo stato confusionale dei suoi nemici dichiarati, e considerate le resistenze sino ad ora opposte dal suo alleato Salvini ai loro tentativi di metterglielo davvero contro, potrebbe dormire sonni tranquilli. E preparare con tutta tranquillità il repertorio del secondo giro di consultazioni al Quirinale, dove saprà sicuramente trovare il modo di non passare inosservato nell’incontro che il presidente della Repubblica avrà con la delegazione comune, e perciò affollata, della coalizione di centrodestra. Che è invece salita sul colle nei giorni scorsi in ordine separato, e secondo le graduatorie elettorali che hanno consentito ai leghisti, grazie al sorpasso del 4 marzo, di dire l’ultima parola.

            Eppure Berlusconi non è sereno. O non lo è del tutto. Egli non riesce ancora a capacitarsi di quel maledetto sorpasso. E si è deciso a convincersi di ciò che inutilmente prima e durante la campagna elettorale in tanti gli avevano segnalato, dentro e fuori il suo partito, se non dentro la sua stessa famiglia intesa in senso lato, com’è nelle abitudini del Cavaliere.

            In particolare, Berlusconi si è convinto che a favorire il sorpasso elettorale dei leghisti sono state le sue stesse televisioni con trasmissioni, in verità, non di altissimo ascolto, almeno per i gusti e le convenienze degli inserzionisti pubblicitari, ma di buona capacità emulativa, dentro e fuori casa.

            Forse è esagerato definirle “purghe”, come ha commentato il Fatto Quotidiano di Marco Travaglio, ma certamente non sono stati premi per gli interessati sia la sostituzione di Maurizio Belpietro alla conduzione della trasmissione di Rete 4 “Dalla parte vostra”, che spesso era quella della Lega, al di là delle stesse intenzioni del direttore del quotidiano La Verità, sia la decisione di chiudere a fine mese la “Quinta colonna”, sempre di Rete 4, condotta da Paolo Del Debbio. Che era più volte incorso nei mesi scorsi, anche mentre i giornali lo accreditavano di fantasmagorici progetti politici, nelle proteste pubbliche di esponenti di peso della stessa Mediaset, persino del presidente Fedele Confalonieri, lasciatosi scappare un “forse stiamo esagerando” a dare voce a tutti gli scalmanati in giro per le piazze fisiche e mediatiche del Paese.

            Mai titolo di trasmissione come quello di “Quinta colonna” si è forse rivelato così perversamente azzeccato, almeno per l’editore che ne ha subìto gli effetti, al di là delle stesse responsabilità di un conduttore che conobbi tanti anni fa nell’allora Fininvest come un giovane e assai mite filosofo. Di cui mai avrei immaginato doti da Truman Show, titolo di un famoso e fortunato film drammatico del 1998.  

La grazia di Di Maio a Renzi non spalanca le porte del Pd ai grillini

             Per quanto tattica, forse strumentale soltanto ad aumentare il proprio potere contrattuale con l’interlocutore privilegiato, che resta il segretario leghista Matteo Salvini, il giovane aspirante grillino a Palazzo Chigi ha annunciato nel primo giro di consultazioni al Quirinale un’apertura al Pd non più condizionata alla soluzione dei suoi problemi interni, cioè all’emarginazione dell’ex segretario Matteo Renzi. Cui insomma è stata concessa una specie di grazia politica da chi lo aveva scambiato per un Nerone dei nostri tempi.

            Il capo dello Stato deve essere stato convincente con Luigi Di Maio a spiegargli che non si può cercare di interferire così sfacciatamente nelle vicende interne di un partito come il suo interlocutore aveva fatto sino a quel momento, per quanto forse anche a Mattarella non siano comprensibilmente piaciute alcune recenti sortite dell’ex segretario del Pd. Penso, fra l’altro, alle doglianze di Renzi, anzi alle sue proteste, per il rifiuto delle elezioni anticipate oppostogli dal Quirinale dopo la bocciatura referendaria della riforma costituzionale, ritenuta dall’allora segretario del partito di maggioranza e presidente del Consiglio dimissionario alla stregua di una fine della diciassettesima legislatura. Alla quale in effetti -va detto- il predecessore di Mattarella aveva assegnato come prevalente, se non esclusivo, proprio l’obiettivo della riforma istituzionale con la formazione del governo delle larghe intese di Enrico Letta prima e dello stesso Renzi poi.

            Probabilmente, per il ruolo equidistante impostogli dal ruolo presidenziale, al di là delle sue opinioni sul leader di Forza Italia, comunque da lui ricevuto con tutti gli onori al Quirinale per le consultazioni, Mattarella ha cercato di far capire a Di Maio che non è corretto nemmeno il tentativo di interferire nelle vicende interne di una coalizione presentatasi come tale alle elezioni e uscitane peraltro col maggior numero di voti, anche rispetto a quelli raccolti abbondantemente dal movimento delle 5 stelle.

            Ma Di Maio e i suoi da quest’orecchio continuano a non sentire, per cui non rinunciano a lavorare ai fianchi di Salvini per farlo litigare con Berlusconi. Che dal canto suo ha profittato proprio delle consultazioni al Quirinale per ricambiare i sentimenti di avversione dei grillini denunciandone il pauperismo, il giustizialismo, l’invidia, l’odio e altro ancora, per quanto ne abbia sino ad ora accettato i voti per l’elezione di una forzista alla presidenza del Senato, di un’altra forzista alla vice presidenza della Camera e di altri ancora al vertice delle due assemblee legislative coi gradi di questori e segretari.

           Più discretamente Salvini e meno il suo vice Giancarlo Giorgetti non hanno gradito la reazione dura di Berlusconi, considerandola quanto meno “un errore tattico”, ha detto in particolare Giorgetti avvertendo che “il cinema è finito”, non si è ben capito in che senso e misura: se alludendo, per esempio, al desiderio coltivato già prima delle elezioni dall’alleato forzista di adottare come interlocutore privilegiato del centrodestra il Pd.

            Ora al Pd ha invece aperto più di prima, come si è detto, Di Maio rinunciando a fare lo schifiltoso con Renzi, prendendone il partito tutto intero com’è, e sperando anche di impaurire così Salvini e indurlo a scaricare l’ingombrante alleato.

            Vedremo se e quanto Salvini si lascerà intimidire, sino a rischiare di fare con Di Maio un accordo da sottomesso, vista la sproporzione tra la consistenza elettorale e parlamentare della Lega, presa singolarmente, e del movimento delle 5 stelle. Ma si è già visto il risultato alquanto modesto ottenuto nel Pd dall’aspirante grillino a Palazzo Chigi nella versione depurata dell’antirenzismo.

            Poche ore dopo la correzione tattica di Di Maio, all’uscita dall’udienza al Quirinale, si è assistito nel salotto televisivo di Piazza pulita, a la 7, allo spettacolo non di un renziano ma di un suo avversario o antagonista interno, il guardasigilli Andrea Orlando, contrario a intese di governo con i grillini. E’ stato uno spettacolo spiazzante anche per il conduttore della trasmissione, che ha tradito la sua predisposizione favorevole a un contratto, come preferisce chiamarlo Di Maio, fra Pd e 5 stelle. Ma spiazzante pure per un ospite come il giornalista americano Alan Friedman, di solito così solerte e severo nel giudicare la spesa pubblica italiana, che certamente non si ridurrebbe con i grillini al governo, per quanto convertiti a un contratto con i piddini. Fanno pure rima, come vedete.

Occhio alla ciccia di questa lunga e complicata crisi di governo

            Ci sono due titoli di giornale, entrambi di prima pagina, che danno bene l’idea della ciccia, diciamo così, della crisi di governo dividendo l’attenzione fra gli sviluppi del dibattito politico nel quale sono impegnati i partiti con i loro leader, veri o presunti che siano, e le consultazioni del presidente della Repubblica al Quirinale.

            Il primo titolo è quello del Fatto Quotidiano di Marco Travaglio, che non si dà pace dello stato di sequestro in cui si troverebbe il reggente del Pd, Maurizio Martina, sotto il ferreo controllo delle guardie dell’ex segretario Matteo Renzi. Il quale ha inchiodato il partito, col peso che continua ad avere nell’assemblea nazionale, nella direzione e nei gruppi parlamentari, all’opposizione al progetto di governo del movimento delle 5 stelle, per cui -protesta il giornale vigilante sui grillini- “spinge Di Maio nelle braccia di Salvini”.

          Ma il peggio è nella parte finale del titolo, dove si afferma in modo categorico e indignato che il leader leghista, per quanto premiato dagli elettori col sorpasso su Forza Italia all’interno della coalizione di centrodestra, “resta incollato a B”. Cioè a Berlusconi, contro il quale invece Di Maio pratica e reclama un ostracismo politico e morale, per quanto al Quirinale gli abbiano dato ancora dell’onorevole nel calendario delle consultazioni, alle quali l’ex presidente del Consiglio è stato convocato con le due donne promosse capigruppo parlamentari.

            Che Berlusconi sia l’ossessione del Fatto Quotidiano è noto. Che i grillini condividano questa ossessione è altrettanto noto. Che però siano disposti a sacrificare a questo incubo anche l’occasione, che potrebbe essere l’unica, offerta loro dagli elettori di essere protagonisti di governo, e non solo di opposizione, un po’ sorprende chi è abituato a considerare il realismo necessario alla politica non meno del consenso, e dei voti.

            I due vincitori delle elezioni, entrambi condannati per questo a governare secondo lo schema applicato da Aldo Moro ai risultati elettorali del pur lontano 1976, sono il movimento delle 5 stelle e la coalizione del centro destra. Rompendo la quale, come pretendono Di Maio e Travaglio, il segretario leghista finirebbe di essere uno dei due vincitori e diventerebbe, col suo 18 per cento dei voti, un po’ più della metà del suo eventuale alleato leghista al governo. Ne diventerebbe cioè una specie di attendente. Non ci vuole molto, francamente, a capirlo.

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          L’altro titolo spia di questa crisi di governo nelle mani del capo dello Stato è quello del Corriere della Sera in cui si riferiscono sommariamente notizie, indiscrezioni e quant’altro del navigatissimo quirinalista Marzio Breda sugli elementi di conoscenza e di giudizio che Sergio Mattarella intende raccogliere fra il primo, il secondo e forse anche un terzo giro di consultazioni per regolarsi su chi chiamare a formare un governo con qualche possibilità concreta di disporre di una maggioranza parlamentare insieme sufficiente e realistica.

            Questa maggioranza dovrà risultare sufficiente sul piano dei numeri, mancando i quali diventerebbero inevitabili le elezioni anticipate, e realistica sul piano dei conti economici e -si legge nel titolo del Corriere della Sera- della “fedeltà ai vincoli europei”. Che purtroppo non sembra proprio siano in cima ai pensieri né dei grillini né dei leghisti, specie se scollati  questi ultimi, come vorrebbe Travaglio, da B, con o senza il punto abbreviativo.

Quella staffetta mancata fra Craxi e De Mita a causa del referendum sui giudici

E’ vero. Come ha raccontato Paolo Delgado cercando ironicamente di suggerire a Luigi Di Maio e a Matteo Salvini di conciliare le loro aspirazioni a Palazzo Chigi con una staffetta analoga a quella concordata nel 1983 fra Bettino Craxi e Ciriaco De Mita, ma persasi rovinosamente per strada, l’impressione che diede il leader socialista fu di volersi sottrarre all’intesa quando il segretario della Dc mise all’incasso la cambiale. Ciò avvenne il 3 marzo 1987 con le dimissioni di Craxi e la riapertura di una crisi già tentata nell’estate precedente, ma rattoppata all’ultimo momento con una mediazione dell’allora ministro degli Esteri Giulio Andreotti. Al quale il leader socialista si impegnò a passare la mano l’anno dopo per fargli concludere la legislatura alla scadenza ordinaria del 1988.

“Non capisco -mi raccontò in quel frangente Craxi- quale interesse abbiano i democristiani a riprendersi Palazzo Chigi nell’ultimo anno della legislatura, il più rognoso di tutti, quando si moltiplicano le tentazioni elettorali di spesa e non si hanno i mezzi per soddisfarle. Contenti loro….”.

La crisi per l’operazione staffetta subentrò però all’ammissione, da parte della Corte Costituzionale, di un grappolo di cinque referendum abrogativi ad altissima tensione politica, su quattro dei quali i partiti della maggioranza erano divisi, a dir poco, se non dilaniati.

Tre  referendum riguardavano le procedure e agevolazioni per la costruzione di centrali per la produzione nucleare di energia elettrica, diventate impopolarissime dopo l’incidente di Cernobyl, verificatosi in Ucraina nell’aprile del 1986. I repubblicani, i liberali e una parte della Dc erano contrari all’abrogazione, sostenuta invece dai socialisti e da un’altra parte della Dc.

Un altro referendum, promosso da radicali, socialisti e liberali, riguardava l’abrogazione di tre articoli del vecchio codice di procedura civile che mettevano i magistrati al riparo dalla responsabilità appunto civile per i danni procurati con i loro errori. Proposto sulla scia della clamorosa vicenda di Enzo Tortora, letteralmente perseguitato con accuse di camorra da cui sarebbe uscito alla fine assolto ma dopo avere subìto danni irreparabili alla salute, quel referendum era inviso naturalmente ai magistrati e ai partiti o correnti più sensibili alle loro proteste.

Solo sul quinto referendum non c’erano contrasti seri, riguardando l’abolizione della commissione parlamentare inquirente per i procedimenti d’accusa, in modo da far giudicare i reati ministeriali non più dalla Corte Costituzionale ma dalla magistratura ordinaria.

Sul tema della responsabilità civile dei magistrati la Dc, spalleggiata in verità dall’opposizione comunista, fu talmente intransigente, o timorosa delle reazioni della lobby giudiziaria, da preferire il ricorso alle elezioni anticipate per rinviare la prova referendaria. E così avvenne, fra le inutili proteste di Craxi. Che rivendicava il diritto di gestire col suo governo dimissionario l’anticipo delle elezioni, dovendo la staffetta riguardare, secondo lui, solo un governo per l’esaurimento ordinario della legislatura, comprensivo quindi della gestione dei referendum.

Il contrasto fra Craxi e De Mita fu fortissimo, con parole più o meno pesanti scambiate a distanza, ed anche con qualche oggettiva forzatura politica e istituzionale riconosciuta pure all’interno della Dc. Dove, in particolare, sia Andreotti, sottrattosi del tutto all’incarico per la soluzione della crisi, sia il ministro uscente dell’Interno Oscar Luigi Scalfaro, formalmente incaricato di formare il nuovo governo, si rifiutarono di prestarsi all’operazione voluta dal segretario del loro partito. Che ricorse alla fine al presidente uscente del Senato Amintore Fanfani. Al cui governo monocolore democristiano, che non mancava neppure di un ministro per i rapporti col Parlamento in via di scioglimento, Craxi -su suggerimento dell’amico Francesco Cossiga, presidente della Repubblica- decise di accordare la fiducia dei socialisti per obbligarlo a governare sino all’anno successivo. E ciò anche a causa di alcuni importanti adempimenti internazionali, come un vertice europeo organizzato a Venezia per il mese di giugno del 1987.

Per scampare paradossalmente alla fiducia e obbligare il capo dello Stato a sciogliere le Camere i deputati della Dc si astennero nella votazione per appello nominale nell’aula di Montecitorio. A quel prezzo pure l’opposizione comunista, favorevole allo scioglimento per evitare il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, si sentì a disagio. E non lo nascose.

L’unica ritorsione di Craxi fu quella di pretendere, ad elezioni avvenute, di condizionare la ripresa della collaborazione di governo con la Dc, che mandò a Palazzo Chigi Giovanni Goria, la riduzione dei tempi del rinvio dei referendum. Che si svolsero, con un’apposita legge, a novembre di quell’anno, anziché nella primavera dell’anno successivo.

I sì all’abrogazione delle norme che risparmiavano ai magistrati  la responsabilità civile valida invece su tutte le altre categorie a rischio di errori, come medici e ingegneri, furono una valanga: più dell’80 per cento dei voti. Ma la lobby giudiziaria, prevedendo l’esito, aveva saputo mettersene al riparo. Era stata già predisposta a livello politico una legge sostitutiva di quelle norme approvata a tamburo battente, in pochi mesi. La sua applicazione si rivelò di una tale difficoltà da non produrre praticamemte effetti di sorta. Le toghe continuarono a godere di una sostanziale immunità civile.

Craxi, pago del successo referendario, si affidò ciecamente per il dopo-referendum alle valutazioni e alle iniziative dell’autorevolissimo guardasigilli socialista Giuliano Vassalli, fra le inutili proteste o i mugugni dei compagni di partito e, all’esterno, dei radicali. Che gridarono al referendum “tradito”. “Di Vassalli -mi disse poi Craxi, come per giustificarsi- non potevo non fidarmi. I miei rapporti con lui erano come quelli con Sandro”, cioè con Pertini.

Ereditata dal governo Goria, quella legge fu la prima pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica sotto il governo De Mita, nominato il 13 aprile 1988 e dimessosi il 19 maggio 1989 per essere sostituito il 22 luglio dal sesto e penultimo governo Andreotti.

Della difficilissima applicazione di quelle norme cominciarono a fare le spese dopo pochissimi anni le vittime degli errori, che certo non mancarono, nelle indagini e nei processi demolitori della cosiddetta prima Repubblica. Mi riferisco naturalmente ai procedimenti giudiziari della presunta, assai presunta epopea di “Mani pulite”.

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

Anche gli storici sbandano alle prese con questa crisi di governo

            La tentazione di paragonare i partiti di questa stagione politica a quelli della cosiddetta prima Repubblica,  ghigliottinata dalla magistratura più che dagli elettori, fa vacillare anche i professori, che inciampano nei paradossi. E’ il caso di Ernesto Galli della Loggia, che sul Corriere della Sera ha intravisto nel Pd uscito con le ossa rotte dalle elezioni del 4 marzo scorso il Psi portato ai suoi minimi storici nel 1976 da Francesco De Martino. Che aveva provocato il ricorso anticipato alle urne  facendo cadere il bicolore Moro-La Malfa con l’annuncio che mai più i socialisti avrebbero partecipato ad una maggioranza senza i comunisti.

            Il Pd malmesso di oggi per uscire dalla crisi in cui si trova avrebbe bisogno, fra l’altro o innanzitutto, di trovare un nuovo, dinamico e autorevole leader, come avvenne nel 1976 al Psi con Bettino Craxi. Che ridiede in effetti al suo partito grande autonomia partecipando alla maggioranza di cosiddetta solidarietà nazionale, col Pci di Enrico Berlinguer, a sostegno di due governi monocolori democristiani guidati da Giulio Andreotti, solo per il tempo necessario -due anni e mezzo- a ristabilire un’alleanza privilegiata con lo scudo crociato. Un’alleanza che Craxi volle talmente paritaria da guidarla di persona a Palazzo Chigi dal 1983 al 1987, pur avendo i socialisti molto meno della metà dei voti democristiani. Ancor meno, del resto, ne aveva il repubblicano Giovanni Spadolini, succeduto col suo 3 per cento dei voti ad Arnaldo Forlani come presidente del Consiglio già nel 1981.

            Il carattere paradossale del paragone dell’editorialista del Corriere della Sera fra il Pd di oggi e il Psi del dopo-elezioni anticipate del 1976 sta nel fatto che l’edizione 2018, diciamo così, del Pd aveva già come leader, prima delle elezioni del 4 marzo scorso, un leader dinamico, ambizioso e forte come Craxi nella persona di Matteo Renzi, costretto alle dimissioni dopo il voto con lo stesso metodo sbrigativo, o quasi, usato nel Psi 42 anni  fa contro De Martino.

            Francamente, nel Pd oggi guidato provvisoriamente dal vice segretario Maurizio Martina, in attesa di un’assemblea nazionale che deciderà se e come sostituirlo, non si vedono leader più dinamici, più grintosi, più autorevoli del sostanzialmente dimissionato Renzi: uno che assomigli a Craxi più di lui, che pure -altro paradosso a furia di fare o tentare paragoni- si è sempre rifiutato di mettere Craxi nel Pantheon della sinistra riformista, preferendogli nientedimeno che il comunista Enrico Berlinguer. Il quale negli anni Settanta e Ottanta fu il più accanito, irriducibile avversario del leader socialista, sino a morire delle sconfitte subite combattendolo. Lo ha onestamente riconosciuto nella propria autobiografia “Per passione” Piero Fassino, l’ultimo segretario dei Ds-ex Pci, rimasto nel Pd con Renzi quando i suoi vecchi compagni del Pci Massimo D’Alema e Pier Luigi Bersani ne uscirono, l’anno scorso, per antirenzismo viscerale.

            Come in un gioco perverso di scatole cinesi, ai due paradossi in cui è caduto Ernesto Galli della Loggia dovrebbe aggiungersene un altro: quello di paragonare il coraggio tattico e persino strategico di Craxi a quello di un esponente del Pd che riuscisse oggi a strappare il partito al ruolo di opposizione, assegnatogli da Renzi, per offrire al grillino candidato a Palazzo Chigi, Luigi Di Maio, il secondo forno di andreottiana memoria.

            D’altronde, già i direttore del Corriere della Sera, Luciano Fontana, ha visto tracce di Andreotti in Di Maio, che pertanto dopo avere trattato il pane di cui ha bisogno  con il leghista Matteo Salvini,  e il centrodestra che gli è alle spalle, potrebbe poi trattarlo col Pd. Dove c’è gente che muore dalla voglia di venderglielo e spera di averne l’occasione dal presidente della Repubblica, al termine del lungo percorso della crisi: quando Sergio Mattarella, sfinito dalle consultazioni avviate oggi nel bui più completo,  potrebbe tirare fuori dal cilindro e proporre un governo per il quale si sprecano le definizioni. Si parla, in particolare, di nuova solidarietà nazionale, come quella del 1976, di responsabilità, di decantazione, di emergenza, di scopo e quant’altro.  Manca solo “il governo balneare” degli anni di Giovanni Leone a Palazzo Chigi solo perché Mattarella sembra sia allergico ai governi “a termine”. E quello balneare lo sarebbe sfacciatamente.

            Nell’ottica di una soluzione della crisi trovata con un accordo fra il movimento delle 5 stelle e un Pd definitivamente affrancato dalla linea di opposizione, i grillini diventerebbero come i democristiani dei tempi antichi. Eppure ci sono esegeti di sinistra dei pentastellati che li paragonano ai comunisti di un tempo. E questi esegeti stanno nel Pd: proprio quello che l’editorialista del Corriere della Sera ha paragonato al Psi del 1976, pasticciando un po’ -a questo punto- con le due figure politicamente opposte e francamente inconciliabili come i compianti De Martino e Craxi: l’uno rassegnato e l’altro per niente ad un rapporto sostanzialmente ancillare con i comunisti, di vecchio e nuovo conio che possano essere considerati.

            Paradosso per paradosso, ci sarebbe allora da chiedersi a chi poter paragonare i leghisti e i loro alleati di centrodestra guardando ai partiti della lontana prima Repubblica, con o senza scomporli. Mi sembra francamente difficile confinarli solo nel vecchio Movimento Sociale, neppure di Gianfranco Fini ma di Giorgio Almirante. Del quale la vedova Assunta si pente ancora di avere assecondato la scelta di allevare come delfino quel giovanotto destinato ad annegare politicamente non nelle acque, ma in uno stagno di Montecarlo.  

Questa crisi di governo senza la frusta e la luce di Giovanni Sartori…

             Condivido il rimpianto di Giovanni Sartori, Vanni per gli amici, che ad un anno dalla morte ha espresso sul Fatto Quotidiano un esperto di politologia come Gianfranco Pasquino. Ah, quanto mi manca in questa ingarbugliatissima situazione politica la sarcastica e spietata capacità del professore fiorentino di rappresentarla, sezionarla e giudicarla. Lo immagino con quelle mani congiunte come in una preghiera laica e quegli occhi rivolti, anzi sbarrati in alto come per chiedere che cosa avesse fatto lui di male per doversi trovare di fronte ad una simile sciagura da interpretare e bollare alla sua maniera.

            Ha fatto in tempo, il povero Sartori, alla bella età dei 93 anni che stava per compiere, a risparmiarsi lo spettacolo della vittoria virtuale dei grillini nelle elezioni politiche del 4 marzo scorso: virtuale, semplicemente perché insufficiente a realizzare, per fortuna, il loro sogno di governare da soli. E ciò anche se l’aspirante pentastellato a Palazzo Chigi Luigi  Di Maio stenta a rendersene conto, o finge di non essersene ancora accorto ogni volta che ripete le sue giaculatorie ambiziose col richiamo persino ossessivo agli  “undici milioni di elettori” che lo avrebbero incoronato presidente del Consiglio. Come se gli altri 22 milioni e rotti di voti, distribuiti fra centrodestra, centrosinistra, liberi e uguali, e disuguali ancora più sparsi, non dovessero contare nulla in una democrazia, per quanto malandata essa sia.

            Del grillismo, comunque, era bastato a Sartori vedere gli esordi nelle elezioni amministrative del 2007 per non riderne soltanto. E per rimproverarne le origini o cause nella “retorica ipocrita dello spontaneismo dispensata da Romano Prodi e da Silvio Berlusconi”: l’uno allora al governo e l’altro all’opposizione, ma destinato a tornare l’anno dopo, e per l’ultima volta, a Palazzo Chigi. Intanto a Firenze, la sua Firenze, si faceva le ossa come amministratore locale Matteo Renzi, destinato ad essere liquidato da Sartori, una volta assurto a livello nazionale, come “un imbroglione aggressivo”. Sulla cui riforma costituzionale bocciata il 4 dicembre del 2016 il professore non versò certamente lacrime, ma non per questo si prodigò in elogi per i vincitori del referendum, fra i quali c’erano personaggi di cui Sartori diffidava fortemente, a dir poco, a cominciare da Berlusconi, considerandoli dei pasticcioni.

            Peccato che il professore non ci sia più anche per il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che avrebbe potuto ispirarsi a qualche suo monito o consiglio nelle fatiche che lo attendono con le consultazioni per la formazione del nuovo governo. Lo scrivo con cognizione di causa perché, per niente infastidito dall’ironia fatta da Sartori anche sulla legge elettorale che luì battezzò “Mattarellum” aprendo la serie di leggi latinizzate nei loro difetti, come il “Porcellum”, l’attuale capo dello Stato fu tra i più generosi nel celebrare Sartori alla notizia della sua morte.

            “E’ stato -scrisse di suo pugno Mattarella di Sartori- maestro della scienza della politica. Spirito libero e indipendente, ha sempre incoraggiato e insegnato la formazione del giudizio critico. La molteplicità delle sedi in cui ha sviluppato ed esposto il suo pensiero -scientifico, didattico, giornalistico- lo ha reso autorevole protagonista del confronto culturale sulle istituzioni, non soltanto in Italia, contribuendo al rigore del dibattito sulla democrazia”. Un rigore, quello di Sartori, che rimarrà a lungo senza uguali.  

I grillini eredi davvero arbitrari dei democristiani e dei comunisti

La “bolla” nella quale Roberto Fico ha simpaticamente confessato al Fatto Quotidiano –e a chi sennò ?- di essersi sentito passando davanti al Corpo di Guardia del Quirinale, dove lo aspettava il presidente della Repubblica per festeggiare e onorare insieme la nuova terza carica dello Stato, dev’essersi ulteriormente gonfiata. In particolare, quando il presidente della Camera ha letto in rassegna o in originale un articolo di Ernesto Mazzetti dedicatogli sul Mattino. Che è lo storico giornale di Napoli, dove Fico è nato 43 anni e mezzo fa.

Con la sola eccezione della barba, che invece mi sembra donargli molto, ma Mazzetti gli ha consigliato di farsi tagliare per ridurla a un paio di baffetti, il giornalista del più importante quotidiano del Sud fondato nel 1892 da Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao ha metaforicamente letto nelle mani di Fico un avvenire ancora più radioso del presente, all’altezza di tre conterranei che lo hanno preceduto sullo scranno di Montecitorio: Enrico De Nicola, Giovanni Leone e Giorgio Napolitano, tutti e tre saliti al vertice dello Stato repubblicano.

Dei tre, anche De Nicola, come Napolitano nel 2013, sarebbe stato rieletto, dopo i due anni di capo provvisorio, se avesse avuto più riguardi verso l’allora partito di maggioranza, la Dc. Che era stata sfiancata dalle sue minacce di dimissioni ad ogni piè sospinto, ad ogni mosca che gli saltasse al naso, come soleva raccontare l’allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giulio Andreotti. Al quale Alcide De Gasperi soleva affidargli il compito delle relazioni con Palazzo Giustiniani, dove De Nicola preferì lavorare da capo dello Stato un po’ per rispettare il carattere limitato del suo mandato, in attesa che le prime Camere della Repubblica eleggessero il presidente secondo le procedure della nuova Costituzione, e un po’ per scaramanzia tutta napoletana. Il Quirinale, si sa,  era stato anche sede pontificia, da cui Pio IX si distaccò, diciamo così, con un certo malumore quando le truppe piemontesi irruppero a Roma per farne finalmente la Capitale d’Italia.

Al movimento grillino delle 5 stelle – dove Fico ha fatto una carriera di tutto rispetto, superando sino ad ora sul piano istituzionale il compagno di partito Luigi Di Maio, che è stato solo vice presidente della Camera e non si sa ancora se riuscirà davvero a raggiungere l’obiettivo di Palazzo Chigi affidatogli da Grillo- si prendono continuamente le misure elettorali, geometriche e d’altro tipo ancora per paragonarlo a qualcuno dei due maggiori partiti della cosiddetta Prima Repubblica. E ciò col compiacimento del “garante”, “elevato” e quant’altro si senta o venga ritenuto il comico fondatore del movimento, divertito  a sentirsi  considerare un po’ democristiano e un po’ comunista.

In effetti, c’è chi si è avventurato ad attribuire ai grillini, in questa nascente terza Repubblica, la centralità che fu della Democrazia Cristiana. Una centralità provvista anche dei due forni di andreottiana memoria, per cui Di Maio si sente autorizzato a trattare per il  nuovo governo con Matteo Salvini ma anche a strizzare l’occhio al Pd. Che, indebolito dalla sconfitta elettorale e dalle conseguenti dimissioni di Matteo Renzi da segretario, potrebbe essere quanto meno utile ad aumentare la capacità contrattuale del pentastellato col segretario leghista vincolato dall’alleanza elettorale con Silvio Berlusconi, al cui solo nome il giornale più letto dai grillini, naturalmente il Fatto Quotidiano di Marco Travaglio, rischia di incepparsi nelle rotative.

Ma c’è anche chi si è avventurato ad attribuire al movimento delle 5 stelle la natura di sinistra del Pci, e persino i suoi numeri elettorali. Che, in verità, furono anche superiori, con quel 34 per cento e più conquistato nelle elezioni politiche del 1976 e apparso ad Aldo Moro come il segno di una vittoria simile a quella conseguita dalla sua Dc col 38 per cento e più. Nacque allora, proprio con Moro, la teoria dei due vincitori condannati per questo a collaborare, non disponendo né l’uno né l’altro di alleanti sufficienti a formare una maggioranza autonoma.

Certo, se fosse vera, come io non ritengo, la classificazione tutta a sinistra del movimento grillino, dove non mancano pulsioni tipiche di una destra neppure moderata, per esempio sul problema oggi nevralgico dell’immigrazione, sarebbe stupefacente la rapidità con la quale i pentastellati hanno potuto massimizzare il loro ruolo a livello istituzionale.

Al Pci, che pure era il Pci, con la sua mastodontica organizzazione, una classe dirigente di tutto rispetto e di grande esperienza, formatasi nelle carceri fasciste e nelle scuole di partito, partecipe determinante della Resistenza armata al nazifascismo e della Costituente repubblicana, di cui assunse anche la presidenza con una personalità come Umberto Terracini, occorsero circa trent’anni, equivalenti a 360 mesi, per aggiudicarsi la presidenza della Camera. Ciò avvenne con Pietro Ingrao nel 1976, l’anno della maggioranza di “solidarietà nazionale” concordata fra Moro ed Enrico Berlinguer di fronte ai due vincitori usciti dalle urne. Ai grillini, per portare Roberto Fico al vertice di Montecitorio, e aggiungere il suo ritratto nella galleria della Camera a quello, fra gli altri, di una donna indimenticabile come Nilde Jotti, sono bastati cinque anni, pari a 60 mesi.

Si potrà dire che i comunisti dovettero fare i conti con la realtà di un mondo bipolare, diviso in Europa fra due blocchi concordati a Yalta tra i vincitori della seconda guerra mondiale. E l’Italia rientrava nel blocco occidentale, dove la sola elezione di Ingrao alla Camera e un’astensione comunista ad un governo interamente democristiano presieduto da Andreotti crearono brividi nel Dipartimento di Stato americano. E fecero alzare qualche sopracciglio anche negli uffici e nei saloni del Cremlino. Fra quelle mura i comunisti italiani facevano francamente più comodo all’opposizione che altrove, specie quando Enrico Berlinguer, in una intervista al Corriere della Sera, definì l’Alleanza Atlantica un ombrello utile anche a garantire l’autonomia del Pci dall’allora Unione Sovietica.

Ma vincoli internazionali, a dire il vero, esistono o dovrebbero esistere anche oggi. Non si può certamente negare che tra Berlino, Parigi e Bruxelles, dove si fanno le pulci ai nostri bilanci, e dipendono quindi tante scelte della politica economica italiana, non vi sia una certa apprensione per gli sviluppi della situazione politica a Roma. Ed è tutto da dimostrare che si possa reagire a quell’apprensione facendo spallucce, non importa se alla maniera un po’ spiccia di Salvini o a quella adesso meno spiccia, o più realistica, come preferite, di Di Maio.

Non so se stia dietro l’angolo più il cosiddetto sovranismo o il rischio di una pantomima greca, che potrebbe fare scoppiare all’improvvisa anche la simpatica bolla di Roberto Fico.

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

In gita fuori porta (da Mattarella) i governativi antirenziani del Pd

            Fanno un po’ una gita fuori porta, in linea col calendario in questo lunedì di Pasqua, quegli esponenti del Pd che, non avendo i numeri né nella direzione del partito né nei gruppi parlamentari per cambiare la linea tracciata da Matteo Renzi lasciando la segreteria al reggente Maurizio Martina, si appellano più o meno direttamente ed esplicitamente al presidente della Repubblica per essere tolti dal ruolo sgradito dell’opposizione ad un governo dei vincitori delle elezioni del 4 marzo. Che potrebbe essere formato da grillini e centrodestra, comprensivo -secondo le intenzioni del segretario legista Matteo Salvini- di Forza Italia, per quanti mal di pancia possa creare questa partecipazione ai dirigenti e ancor più alla base digitale del movimento delle 5 stelle.

            La corte che critici ed avversari di Renzi stanno facendo a Sergio Mattarella per essere messi in gioco durante le consultazioni al Quirinale per la soluzione della crisi parte dal presupposto, tutto da verificare, che il presidente della Repubblica possa e voglia prestarsi ad un’operazione di disturbo, di strappo anziché di composizione di intese che si stanno tentando sul versante di quelli che il capo dello Stato preferisce chiamare “i prevalenti”, anziché i vincitori del 4 marzo.

            Più che di costoro, delle loro possibili intese programmatiche, dei loro compromessi anche sulla scelta finale, se vi sarà, di un presidente del Consiglio da proporre al capo dello Stato, diverso sia da Salvini, che si è già dichiarato disposto a rinunciare, sia da Di Maio, che ancora resiste, convinto che undici milioni di elettori gli impediscano un passo indietro, il presidente della Repubblica dovrebbe quindi occuparsi o preoccuparsi delle vicende interne del suo partito di ultima provenienza: il Pd. Dove si vuole trasferire sul piano istituzionale una crisi che non si riesce a risolvere sul piano politico. O che non si ha la voglia o il tempo, o entrambi, di affrontare nell’unico modo possibile in una situazione ordinaria, cioè andando ad un congresso chiarificatore. Che d’altronde è statutariamente imposto dalle dimissioni del segretario sconfitto nelle elezioni: dimissioni reclamate all’annuncio dei primi exit poll elettorali, la sera del 4 marzo, e ottenute alla proclamazione dei risultati non ancora ufficiali e definitivi.

            Una volta, negli anni della mai abbastanza rimpianta prima Repubblica, quando il partito di o della maggioranza si trovava in condizioni incerte un paziente e disponibile capo dello Stato provvedeva a improvvisare un governo provvisorio, d’attesa, definito anche “balneare”, per la stagione in cui di solito si creavano queste situazioni dopo elezioni di primavera. Si creò addirittura uno specialista di queste operazioni di sostanziale supplenza nella persona di Giovanni Leone, che sapeva pure scherzarci sopra da buon napoletano. E che anche per sua capacità di adattamento, di pazienza e di ironia riuscì alla fine del 1971 ad essere eletto presidente della Repubblica, non immaginando di dover concludere il suo mandato in circostanze drammatiche. Accadde nel 1978, sei mesi prima dalla scadenza del suo settennato e poco meno di due mesi dopo l’uccisione di Aldo Moro, che lui aveva tentato di evitare mettendosi di traverso alla cosiddetta linea della fermezza. Lo fece sino a predisporre la grazia ad una dei tredici detenuti con i quali i brigatisti rossi volevano scambiare il presidente della Dc sequestrato fra il sangue di tutti i cinque agenti della sua scorta, trucidati per strada.

            Per non rinfacciargli questa “colpa”, temendo la impopolarità, i protagonisti della linea della fermezza, curiosamente spalleggiati dai radicali di Marco Pannella, che pure si erano battuti per la trattativa, pretesero le dimissioni di Leone a causa di una presunta questione morale smentita poi nelle aule dei tribunali, dove fu processata e condannata l’autrice di un libro contro il presidente della Repubblica, accusato di concedere grazie a pagamento, o quasi, e di essere compromesso nello scandalo degli aerei militari  Loocheed venduti con tangenti all’Italia. Dopo, ma molto dopo, in tempo comunque perché lui potesse togliersi  prima di morire almeno questa pur insufficiente soddisfazione, arrivarono a Leone anche le scuse dei politici che lo avevano ingiustamente allontanato dal Quirinale in una serata di giugno sotto una pioggia torrenziale, che non bastò certamente a cancellare il disonore procuratosi dalla politica con quel rito odiosamente sacrificale.

            Ma, per tornare ai governi balneari del povero Leone, le pause rappresentate da quegli espedienti nascevano da crisi -ripeto- di partiti di o della maggioranza, come la Dc e il suo principale alleato socialista. Questa volta la crisi è di un Pd che non è più di maggioranza, essendo stato superato nelle urne non da uno ma da due concorrenti: il movimento delle 5 stelle e la coalizione di centrodestra, dove peraltro il bastone di comando, o qualcosa che gli assomiglia, è passato dalle mani di Berlusconi, che col Pd si metterebbe pure d’accordo, a quelle di Salvini, che col Pd non vuole governare. Non parliamo poi del giudizio che del Pd hanno sempre avuto i grillini, senza neppure tante distinzioni tra Renzi e i suoi avversari interni.

Quella bolla d’aria in cui il presidente della Camera ha confessato di sentirsi

             La “prima intervista” in assoluto del nuovo presidente della Camera Roberto Fico non poteva che essere rilasciata al Fatto Quotidiano, il giornale di Marco Travaglio più seguito e letto dagli elettori grillini, a nome dei quali esso di frequente cerca anche di richiamare all’ordine i dirigenti del movimento. Che ogni tanto fanno venire il batticuore, e altro ancora, al loro vigilante mediatico:  per esempio, quando abbassano la guardia verso Silvio Berlusconi, pur continuando a insultarlo e a negargli appuntamenti.

          Ciò è notoriamente accaduto con l’elezione della berlusconiana di ferro Maria Elisabetta Alberti Casellati alla presidenza del Senato, già incorsa in passato negli attacchi di Travaglio per qualche bega familistica e per la difesa dell’uomo di Arcore dai processi che ne hanno accompagnato e accompagnano ancora la carriera politica.

            Ma ciò potrebbe accadere di nuovo, stavolta a livello di governo, e non più di istituzioni parlamentari, se dovesse rafforzarsi la tentazione che ogni tanto si avverte in Luigi Di Maio e amici di scambiare furberscamente Berlusconi per Matteo Salvini, suo alleato, o viceversa, nel senso di accettare le istanze, richieste, proposte berlusconiane fingendo che siano salviniane.

            Questo gioco di specchi potrebbe essere praticato in una trattativa per la formazione del governo, se vi si dovesse arrivare dopo la gimcana delle consultazioni al Quirinale, con la comparsa improvvisa di qualche candidatura berlusconiana, di natura politica o tecnica, a ministro o sottosegretario accettata dai grillini perché formulata da Salvini come capo non solo della Lega ma di tutto il centrodestra. Di cui il partito dell’ex presidente del Consiglio fa parte per un accidente – potrebbero dire i grillini- estraneo alla loro volontà.

            A una simile pantomima potrebbe alla fine prestarsi anche Berlusconi, fra le comprensibili crisi di nervi di Travaglio, che preferirebbe un’intesa di governo dei grillini col più debole Pd. Dove peraltro c’è gente disposta a muoversi in questa direzione e ad aggirare la contrarietà ostinata e ingombrante del pur ex segretario Matteo Renzi con la scusa di dovere accettare qualche invito alla responsabilità e a quant’altro del capo dello Stato, magari sfinito dai tempi lunghi della crisi. Ma non è detto che Mattarella voglia assecondare una simile operazione, e non voglia invece limitarsi ad attendere gli sviluppi dei rapporti in corso fra Di Maio e Salvini, o viceversa, senza disturbarli coltivando subordinate ai loro progetti.

            Che Berlusconi possa prestarsi alla partita di Di Maio e Salvini lo lascia capire non solo la rapida ricucitura dello strappo avvenuto con l’alleato leghista quando questi propose per la presidenza del Senato la forzista Anna Maria Bernini, al solo scopo -si sarebbe poi capito- di schiodare il macigno della candidatura di Paolo Romani, ma anche il calendario delle consultazioni al Quirinale. Che sembra studiato apposta per soddisfare le esigenze di teatro di Berlusconi, atteso dal capo dello Stato con le due donne promosse alla testa dei gruppi parlamentari e forse anche col presidente forzista del Parlamento europeo Antonio Tajani, diventato un po’ il fiore all’occhiello del capo di Forza Italia.

           A Berlusconi, con l’abitudine o la disinvoltura che ha di farsi concavo o convesso secondo le circostanze, potrebbe bastare e avanzare in questo difficile passaggio della sua avventura politica, dopo il sorpasso elettorale subìto ad opera dei leghisti, il credito certificatogli dal presidente della Repubblica. E lasciare a Salvini e a Di Maio le miserie dei giochi dietro le quinte, nella speranza magari di uscirne fra qualche mese  alla grande, si fa per dire, con la riabilitazione chiesta dai suoi avvocati al tribunale di sorveglianza di Milano, e forse anche con la sentenza a lui favorevole della corte europea dei diritti umani dopo il ricorso contro l’applicazione retroattiva della legge Severino. Che gli costò cinque anni fa la  clamorosa decadenza del Senato per una frode fiscale contestatagli con condanna definitiva.

            In questo contesto, cioè con tutto ciò che avviene o può maturare dietro le quinte, e con i giochi allo specchio cui sono costretti per realismo politico anche i grillini controllati a vista da Travaglio, è comprensibile quel moto di sincerità col quale il nuovo presidente della Camera ha confessato al Fatto Quotidiano di essergli “sembrato di vivere in una bolla” d’aria, passando nel cortile del Quirinale davanti al Corpo di Guardia per la prima udienza da terza carica dello Stato. Già, una vera e propria bolla d’aria.

 

 

  

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