A dimostrazione della vittoria conseguita dai grillini sui leghisti nella manovra finanziaria approvata dal Consiglio dei Ministri, più gialla che verde, arrivano le notizie sulle contropartite politiche dei vincitori agli sconfitti. Esse riguardano la sicurezza e le infrastrutture, particolarmente care a Matteo Salvini, volato a Mosca dopo la chiusura della vicenda del bilancio.
La prima, e più significativa, di queste notizie riguarda la riforma della legittima difesa all’esame del Senato. I grillini hanno ritirato gli emendamenti al testo predisposto dal leghista Andrea Ostellari consentendone, fra l’altro, il passaggio dalla Commissione Giustizia all’aula nella prossima settimana.
Gli emendamenti dei grillini, che avevano non poco indispettito i leghisti, miravano ad aumentare la discrezionalità dei magistrati nella valutazione della congruità della reazione alle minacce subite o avvertite dal cittadino, per esempio, in un furto. Il testo proposto dall’avvocato padovano Ostellari, e a lungo minacciato in commissione dalle resistenze anche del guardasigilli grillino Alfonso Bonafede, stabilisce che “agisce sempre in stato di legittima difesa colui che compie un atto per respingere l’intrusione posta in essere con violenza o minaccia d’uso di armi o di altri mezzi”. E’ sulla parola “violenza” che i grillini avevano cercato di intervenire riduttivamente per consentire ai magistrati una valutazione della congruità della reazione più favorevole all’intruso, e più rischiosa per la controparte.
Contemporaneamente, ma alla Camera, nell’esame del decreto sull’emergenza genovese provocata dal crollo del ponte Morandi i grillini hanno consentito di riaprire la porta sbattuta in faccia alla società Autostrade per la demolizione di ciò che resta e per la progettazione del nuovo viadotto, allo scopo di evitare o comunque di contenere il rischio di contenziosi destinati quanto meno ad allungare i tempi del ritorno alla normalità.
Un altro passo indietro è stato compiuto dai grillini nella vicenda della Pedemontana, i cui cantieri possono essere ora sbloccati, come reclamavano da tempo le regioni della Lombardia e del Veneto, entrambe gestite dal centrodestra e interessate alla superstrada per il loro sviluppo economico.
I grillini hanno infine mollato sul fronte del gasdotto Tap, che approderà in Puglia secondo gli accordi già presi a livello internazionale e ribaditi di recente dal presidente della Repubblica, sottraendosi ai quali l’Italia pagherebbe danni per una ventina di miliardi di euro: più del doppio -è stato ricordato dal presidente del Consiglio alle autorità locali dissidenti e sostenute dalla ministra grillina del Mezzogiorno- dello stanziamento faticosamente assicurato nella manovra finanziario al cosiddetto reddito di cittadinanza, la bandiera più sventolata dal movimento delle 5 stelle.
Ripreso da http://www.startmag.it e Policy Maker
Per ora il leader leghista, facendo buon viso a cattivo gioco, sorride e si gratta la fronte. Di Maio invece ride e basta, confortato dai convergenti titoli del Fatto Quotidiano e del Giornale della famiglia Berlusconi, che gli attribuiscono, francamente non a torto, la vittoria in questa partita della manovra fiscale. La quale comunque dovrà ora affrontare i marosi della Commissione europea e dei mercati finanziari.
Diversamente da quanto ha detto per comprensibile dovere di ufficio nel salotto televisivo di Barbara D’Urso – riuscita nel miracolo di non strappargli qualche cattiveria su Silvio Berlusconi, assente ma vero padrone di casa- Di Maio sa che Beppe Grillo continua ad avere su di lui, come “garante”, “elevato” e quant’altro, potere di vita o di morte politica. Sa anche che l’amicizia vantata con Alessandro Di Battista, come col presidente della Camera Roberto Fico, non impedirà né all’uno né all’altro di succedergli se e quando verrà il momento, forse anche prima di quando il vice presidente del Consiglio non si aspetti dietro quella facciata di sicurezza che ostenta sparando cifre e attaccando chiunque osi dubitarne. E ciò non solo fuori dal Parlamento, dove non si avrebbe la legittimità necessaria a criticare o solo a distinguersi dal governo, ma anche dentro. Dove le opposizioni dovrebbero solo vergognarsi di avere lasciato in eredità all’attuale maggioranza le rovine procurate al Paese dai loro governi negli anni della cosiddetta Seconda Repubblica, e anche prima.
Salvini ha inoltre tenuto a prendere in fondo le distanze dal suo stesso compiacimento per l’arresto del sindaco di Riace, espresso in violazione della presunzione costituzionale di non colpevolezza, cioè di innocenza, sino a condanna definitiva dell’imputato, riconoscendo finalmente il merito, dal suo punto di vista, delle prime ispezioni ministeriali nel Comune dei bronzi, oltre che degli immigrati, al governo del tanto odiato Matteo Renzi. Al Viminale c’era ancora Angelino Alfano, sostituito da Marco Minniti solo nel governo successivo di Paolo Gentiloni, dove Alfano si trasferì agli Esteri: ultimo suo traguardo politico prima del ritorno alla professione forense e delle incursioni vacanziere a Capri.
Ora il ministro dell’Interno -o dell’Internamento, secondo il perfido Rolli- ha completato la sua performance governativa ordinando l’allontanamento da Riace di immigrati che saranno pertanto un po’ meno o per niente integrati, per quanto la loro integrazione fosse stata permessa o favorita dal sindaco largheggiando all’anagrafe con certificati, matrimoni e ricongiungimenti. Sono tutti reati, per carità, per quanto limitati a casi che sono la classica goccia nel mare dell’immigrazione clandestina o irregolare, ma sempre in attesa di giudizio. E così poco vissuti come pericoli e scandali fra gli abitanti della zona e, più in generale, d’Italia da avere provocato sul posto raduni di protesta contro la Procura della Repubblica: un inedito assoluto nella storia di un paese purtroppo abituato per più di venticinque maledettissimi anni a sfilate davanti ai tribunali con magliette inneggianti alle manette. Che peraltro fanno pure rima.
Questa volta tuttavia è francamente difficile non condividere l’attacco mosso dal Fatto Quotidiano, appunto, alla presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati per il vitalizio che ha preteso e ottenuto dalla giustizia interna di Palazzo Madama, in cosiddetta autodichia, in relazione ai quattro anni trascorsi al Consiglio Superiore della Magistratura, fra il 2014 e le sue dimissioni per partecipare alle elezioni politiche del 4 marzo scorso. Dalle quali era destinata a uscire, per una serie di coincidenze tanto impreviste quanto fortunate, scalando i vertici istituzionali, sino a conquistare la seconda carica dello Stato.
esidente del Senato, in condizioni non certamente di indigenza, convenga accettare l’invito già rivoltole da qualche parte a rinunciare agli arretrati. Meglio avrebbe fatto, anzi, a precederlo. Se proprio fosse convinta da avvocato di lungo corso della giustezza di quella sentenza curiosamente -o odiosamente?- segreta, la presidente potrebbe destinare la somma a qualche opera o ente di beneficenza. E magari sorridere, da signora davvero, alla immagine attribuitale dal monello del Fatto Quotidiano della “messa in piega della terza Repubblica”.
D’altronde, la competenza che, indispettito, Tria ha rivendicato rispetto ai progetti e annunci grillini di nazionalizzazione di Alitalia, che dovrebbe essere praticamente acquistata dalle Ferrovie dello Stato, dallo stesso Ministero dell’Economia e dalla solita Cassa Depositi e Prestiti, scambiata da Di Maio per una specie di bancomat a disposizione dei progetti pentastellati, è curiosamente risultata di natura soprattutto verbale.
Il capo dello Stato ha parlato ai liceali convenuti sul Colle per una lezione di educazione civica, o di “pedagogia istituzionale”, come ha preferito definirla il quirinalista del Corriere della Sera Marzio Breda, ma pensando al governo gialloverde, o ai suoi uomini di punta. Che sono notoriamente i vice presidenti del Consiglio Luigi Di Maio, per conto dei grillini, e Matteo Salvini, per conto dei leghisti: due vice che non si sentono in imbarazzo neppure quando sostituiscono il pur presente presidente del Consiglio Giuseppe Conte davanti alle telecamere nelle risposte ai giornalisti, quando a costoro è permesso di farne.
La versione amletica dell’ex presidente del Consiglio e di quel che gli resta di Forza Italia si è toccata con mano, diciamo così, nel salotto televisivo della compassata e gradevolissima Barbara Palombelli, sulla rinnovata Rete 4 di Mediaset, con le acrobazie cui si è costretta la sua ospite Elisabetta Gardini. Della quale, in verità, si erano un po’ perse le tracce sia come politica sia come attrice teatrale. Ma la signora, per sua fortuna, è ancora lì, in buona salute e ai suoi posti, compreso quello di capogruppo della componente forzista dei popolari europei nel Parlamento di Strasburgo.