Le contropartite a Salvini dopo le rinunce sulla manovra finanziaria

            A dimostrazione della vittoria conseguita dai grillini sui leghisti nella manovra finanziaria approvata dal Consiglio dei Ministri, più gialla che verde, arrivano le notizie sulle contropartite politiche dei vincitori agli sconfitti. Esse riguardano la sicurezza e le infrastrutture, particolarmente care a Matteo Salvini, volato a Mosca dopo la chiusura della vicenda del bilancio.

            La prima, e più significativa, di queste notizie riguarda la riforma della legittima difesa all’esame del Senato. I grillini hanno ritirato gli emendamenti al testo predisposto dal leghista Andrea Ostellari consentendone, fra l’altro, il passaggio dalla Commissione Giustizia all’aula nella prossima settimana.

            Gli emendamenti dei grillini, che avevano non poco indispettito i leghisti, miravano ad aumentare la discrezionalità dei magistrati nella valutazione della congruità della reazione alle minacce subite o avvertite dal cittadino, per esempio, in un furto. Il testo proposto dall’avvocato padovano Ostellari, e a lungo minacciato in commissione dalle resistenze anche del guardasigilli grillino Alfonso Bonafede, stabilisce che “agisce sempre in stato di legittima difesa colui che compie un atto per respingere l’intrusione posta in essere con violenza o minaccia d’uso di armi o di altri mezzi”. E’ sulla parola “violenza” che i grillini avevano cercato di intervenire riduttivamente per consentire ai magistrati una valutazione della congruità della reazione più favorevole all’intruso, e più rischiosa per la controparte. 

            Contemporaneamente, ma alla Camera, nell’esame del decreto sull’emergenza genovese provocata dal crollo del ponte Morandi i grillini hanno consentito di riaprire la porta sbattuta in faccia alla società  Autostrade per la demolizione di ciò che resta e per la progettazione del nuovo viadotto, allo scopo di evitare o comunque di contenere il rischio di contenziosi destinati quanto meno ad allungare i tempi del ritorno alla normalità.

            Un altro passo indietro è stato compiuto dai grillini nella vicenda della Pedemontana, i cui cantieri possono essere ora sbloccati, come reclamavano da tempo le regioni della Lombardia e del Veneto, entrambe gestite dal centrodestra e interessate alla superstrada per il loro sviluppo economico.

            I grillini hanno infine mollato sul fronte del gasdotto Tap, che approderà in Puglia secondo gli accordi già presi a livello internazionale e ribaditi di recente dal presidente della Repubblica, sottraendosi ai quali l’Italia pagherebbe danni per una ventina di miliardi di euro: più del doppio -è stato ricordato dal presidente del Consiglio alle autorità locali dissidenti e sostenute dalla ministra grillina del Mezzogiorno- dello stanziamento faticosamente assicurato nella manovra finanziario al cosiddetto reddito di cittadinanza, la bandiera più sventolata dal movimento delle 5 stelle.

 

 

 

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La bruciante sconfitta di Matteo Salvini nella manovra fiscale di Luigi Di Maio

            Altro che il pareggio annunciato dai volenterosi, o buonisti, alla fine della partita della manovra fiscale giocata nella maggioranza fra grillini e leghisti, ma più in particolare fra i vice presidenti del Consiglio Luigi Di Maio e Matteo Salvini.

            In realtà, quest’ultimo è stato soronamente battuto dal suo alleato ma concorrente: di una concorrenza pari alla rivalità, se si considera la posta in gioco fra i capi del movimento 5 Stelle, per ora, e della Lega.

            In gioco è, in particolare, la successione all’attuale governo gialloverde, transitorio a dispetto della forte maggioranza di cui dispone in Parlamento, della luna di miele che, a torto o a ragione, molti intravedono nei sondaggi e della debolezza delle opposizioni: sia quella di centro rappresentata da Forza Italia a livello nazionale, essendo il centrodestra ancora operante a livello locale, sia quella di sinistra rappresentata da un Pd incapace di affrancarsi dalle sue lotte interne. Che ne hanno determinato la dura sconfitta elettorale molto più dei sicuri errori di gestione, e temperamento, compiuti dal suo ex segretario Matteo Renzi.

             Quando finirà la corsa di questo governo, non abbastanza coeso, quanto a programma e a riferimenti sociali, per durare tutta la legislatura, si vivrà -vedremo in che modo e con quali reali rapporti di forza, con chi all’opposizione e chi al comando – il nuovo bipolarismo italiano sbocciato dalle elezioni del 4 marzo scorso.

            Nelle curve finali e al traguardo della manovra fiscale Luigi Di Maio ha rimontato tutto, o quasi, lo svantaggio accumulato nei primi mesi dell’esperienza governativa gialloverde rispetto a Salvini. Il grillino ha presentato e fatto pagare al leader leghista di un fiato il conto di tutto lo spazio lasciatogli sul terreno dell’immigrazione e della sicurezza. Gli ha svuotato praticamente la cosiddetta flat tax, gli ha ridotto ai minimi termini il condono fiscale, che peraltro non ha neppure il diritto di chiamarsi così.  E gli ha strappato la soglia di difesa delle pensioni alte, chiamate ridicolmente d’oro, dai 5000 euro concordati nel contratto di governo a 4500. Che è una riduzione del 10 per cento, e un conseguente aumento dei tagli che dovranno subire i percettori. Di cui si continua a reclamare ciò che si sa materialmente impossibile per una serie di ragioni tecniche e giuridiche: il ricalcolo col metodo contributivo. In realtà, si eseguiranno tagli a prescindere dai contributi, ma in base all’età in cui si è andati in pensione, inferiore a quella oggi permessa ma perfettamente legittima ai tempi dell’uscita dal lavoro.

            Di Maio ha tentato in materia di tagli alle pensioni del ceto medio-alto, che sono tutt’altra cosa rispetto alle pensioni veramente d’oro dei ventimila, trentamila, quarantamila e persino cinquantamila euro mensili, persino l’uso del decreto legge. Cui egli è stato costretto a rinunciare non per le resistenze di Salvini, deboli quanto le altre, ma per i dubbi di costituzionalità espressi dall’indisponibile presidente della Repubblica nella sua attività di persuasione morale, dietro le quinte.

            Il percorso parlamentare dei tagli, inseriti nel bilancio del 2019, sarebbe comunque rimasto privilegiato, cioè rapido, per un ricorso al regolamento che il partito di Salvini aveva permesso, votandolo.

            L’unica concessione che Di Maio ha fatto a Salvini, in cambio della sostanziale resa dei leghisti al carattere assistenziale e all’onerosità del cosiddetto reddito di cittadinanza vendutosi dai grillini nella campagna elettorale, è la cosiddetta quota 100 dell’accesso alla pensione, possibile da febbraio a 62 anni di età con 38 di contributi. Ma è una concessione avvelenata, perché la insostenibilità finanziaria di questa riforma, o “cancellazione” della odiatissima legge Fornero, è destinata per quasi unanime valutazione degli esperti ad emergere prima ancora di quella del reddito di cittadinanza. E Salvini dovrà assumersene e portarne tutta la responsabilità, con i conseguenti effetti elettorali, sicuramente successivi all’appuntamento della prossima primavera con le urne per il rinnovo del Parlamento europeo, ma non per questo abbastanza lontani da superare anche la scadenza ordinaria della legislatura.

            Titolo del Fatto.jpgPer ora il leader leghista, facendo buon viso a cattivo gioco, sorride e si gratta la fronte. Di Maio invece ride e basta, confortato dai convergenti titoli del Fatto Quotidiano e del Giornale della famiglia Berlusconi, che gli attribuiscono, francamente non a torto, la vittoria in questa partita della manovra fiscale. La quale  comunque dovrà ora affrontare i marosi della Commissione europea e dei mercati finanziari.

 

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Il merito che Salvini non sa di avere è la piazza di Riace contro un pubblico ministero

Può darsi che, da pensionato d’oro assai presunto, e in pieno conflitto d’interessi, come si dice, dovrò coltivare risentimento personale nei riguardi di Matteo Salvini per le troppo deboli e contraddittorie resistenze opposte, sino al momento in cui scrivo, alla falce impugnata dai grillini. Che hanno ora annunciato di bloccare anche le rivalutazioni delle pensioni auree in relazione al costo della vita, non sapendo che esse ne sono di fatto già escluse da parecchio tempo, per cui    il presunto oro ha perso carati per strada. Ma rimarrò ugualmente grato a Salvini, da giornalista impegnato sul fronte garantista, del fatto di avermi procurato finalmente, per quanto involontariamente, lo spettacolo di una dimostrazione di protesta contro una Procura della Repubblica, e ,in difesa di un indagato finito pure agli arresti, per quanto domiciliari: il sindaco di Riace Domenico Lucano, Mimmo per gli amici e per gli immigrati che ha saputo accogliere e integrare nel suo piccolo e quasi disabitato Comune calabrese, noto però in tutto il mondo per i due guerrieri greci di bronzo recuperati nelle sue acque 46 anni fa.

Peccato che il centinaio di immigrati ora presenti a Riace rischino, se non saranno salvati dal Tar cui il Comune ha annunciato di ricorrere, di doversene andare per una circolare appena emessa dal Viminale. Dove hanno precisato con involontaria ironia che il trasferimento sarà non coatto ma “volontario”, al prezzo però di perdere ogni forma di assistenza in caso di rifiuto di una nuova destinazione. Il carattere volontario, ripeto, del trasferimento diventa così un ossimoro come l’obbligo “flessibile” di vaccinazione adottato nei mesi scorsi dal governo, alla vigilia del nuovo anno scolastico.

Alla notizia dell’arresto del sindaco di Riace, disposto dal giudice competente tagliando però drasticamente l’elenco dei reati proposto dal pubblico ministero, il ministro dell’Interno ritenne di reagire con un “ciaone” di glaudio quanto meno inopportuno per un membro del governo legato al giuramento di fedeltà ad una Costituzione che ancora contiene il principio della presunzione di non colpevolezza, cioè di innocenza, di un imputato sino a condanna definitiva.

D’accordo, nella cosiddetta prima Repubblica era accaduto anche di peggio, con ministri e persino capi dello Stato esultanti per l’arresto di un sospettato, fra le proteste politiche e istituzionali della sola opposizione comunista,e per fortuna ancora garantista. Ma di acqua ne è passata da allora sotto i ponti, persino quella degli anni orribili e terribili di “Mani pulite”, per cui Salvini farebbe male a difendersi con quei precedenti.

A dimostrazione della tanta acqua passata sotto i ponti, proprio dopo il “ciaone” del ministro dell’Interno al sindaco di Riace appena arrestato fu possibile una reazione inusuale come un raduno popolare di protesta non solo contro Salvini, ma anche contro la magistratura che egli aveva apprezzato, diversamente da quelle di Agrigento e di Palermo. Che nelle settimane precedenti gli avevano riservato la sorpresa -si fa per dire- di un procedimento penale, sulla corsia protetta del cosiddetto tribunale dei ministri, per la vicenda della nave Diciotti. Di cui il ministro dovrà rispondere con l’imputazione di sequestro aggravato degli immigrati trattenuti per alcuni giorni sul pattugliatore della Guardia Costiera nel mare e infine nel porto di Catania.

Neppure con quella reazione diretta, in Facebook, dal suo ufficio al Viminale, opponendo la sua legittimità elettorale a quella meramente burocratica o amministrativa della magistratura, Salvini riuscì a scaldare i cuori dei suoi sostenitori, spingendoli alla protesta ad Agrigento o a Palermo contro le rispettive Procure. Come invece sarebbe riuscito a fare poi, a sua insaputa o in autorete, con la vicenda di Riace provocando una dimostrazione di protesta anti giudiziaria.

Per uno come me, immemore di quei cortei per le strade di Milano, e sotto le finestre del tribunale, di dimostranti in maglietta che chiedevano, in particolare all’allora sostituto procuratore Antonio Di Pietro, di “sognare” le manette ai polsi  della maggior parte possibile di politici o politicanti, la svolta di Riace è stata una festa. Della quale, ripeto, non sarò mai grato abbastanza a Salvini.

Mi corre tuttavia l’obbligo di ricordare che di quei cortei milanesi finì per preoccuparsi con pubbliche dichiarazioni persino l’insospettabile capo della Procura Francesco Saverio Borrelli. Che non a caso dopo un po’ d’anni avrebbe chiesto “scusa” agli italiani per il terremoto politico procurato inutilmente al Paese guidando l’operazione “Mani pulite”. E si sarebbe perciò guadagnato il ringraziamento di una delle vittime di quella stagione: il socialista Claudio Martelli, che già lo stesso Borrelli aveva definito “il migliore ministro della Giustizia” che avesse visto all’opera da magistrato.

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

L’equilibrismo di governo superiore persino alle vignette che lo celebrano

            L’equilibrista che Emilio Giannelli ha raffigurato con la sua vignetta di prima pagina sul Corriere della Sera nella persona del presidente del Consiglio Giuseppe Conte, in bilico su un filo alle cui estremità lo stanno a guardare, ben saldi sulle loro rocce, i vice presidenti grillino e leghista Luigi Di Maio e Matteo Salvini, non è una forzatura satirica. E’ purtroppo una realtà politica, cui però Giannelli ha forse sbagliato a considerare estranei, scambiandoli per i soli controllori di Conte, i leader dei due movimenti che fanno parte del governo. Sono anch’essi degli equilibristi, che si illudono di stare sicuri e solidi sulle loro postazioni, come li ha appunto rappresentati il vignettista del Corriere.

             Pure Di Maio e Salvini fanno gli equilibristi, osservati nei loro partiti da chi è pronto o tentato a prenderne le distanze per cercare di evitare di essere trascinati nella loro caduta.

          Di Maio e D'Urso.jpg  Diversamente da quanto ha detto per comprensibile dovere di ufficio nel salotto televisivo di Barbara D’Urso – riuscita nel miracolo di non strappargli qualche cattiveria su Silvio Berlusconi, assente ma vero padrone di casa-  Di Maio sa che Beppe Grillo continua ad avere su di lui, come “garante”, “elevato” e quant’altro, potere di vita o di morte politica. Sa anche che l’amicizia vantata con Alessandro Di Battista, come col presidente della Camera Roberto Fico, non impedirà né all’uno né all’altro di succedergli se e quando verrà il momento, forse anche prima di quando il vice presidente del Consiglio non si aspetti dietro quella facciata di sicurezza che ostenta sparando cifre e attaccando chiunque osi dubitarne. E ciò non solo fuori dal Parlamento, dove non si avrebbe la legittimità necessaria a criticare o solo a distinguersi dal governo, ma anche dentro. Dove le opposizioni dovrebbero solo vergognarsi di avere lasciato in eredità all’attuale maggioranza le rovine procurate al Paese dai loro governi negli anni della cosiddetta Seconda Repubblica, e anche prima.

            Matteo Salvini, risparmiato dal processo ai partiti di governo del passato per avere consentito dopo il 4 marzo ai grillini di superare l’inconveniente di non avere i numeri elettorali e parlamentari necessari a comandare da soli, è costretto pure lui all’equilibrismo, dietro la facciata dell’uomo sicuro di sé che è riuscito a costruirsi. Vi è costretto un po’ dal passato, appunto, del suo movimento e un po’ dalla consapevolezza dei malumori e delle paure che vi serpeggiano, soprattutto sul terreno economico,  Dove Salvini gioca in difesa rispetto ai grillini, che gli chiedono sempre di più sulla strada del deficit e del debito in cambio della tolleranza o copertura garantitagli sul versante dell’immigrazione e della sicurezza fino ad ora. Ma, appunto, fino ad ora, e fin quando il vice presidente del Consiglio e ministro dell’Interno vorrà, saprà o potrà accontentare gli alleati di governo sul versante dell’assistenzialismo, delle nazionalizzazioni e simili.

            Dev’essere stato proprio il disagio emerso fra e dai grillini sulla vicenda di Riace – dopo l’arresto del sindaco e il trasferimento annunciato degli immigrati che vi sono stati accolti e integrati con abusi contestati dalla magistratura, e in attesa di giudizio- a indurre pure Salvini all’equilibrismo di un comunicato del suo Ministero sul carattere “volontario”  e non coatto degli allontanamenti dal Comune calabrese. Che ha smesso di essere famoso solo per i due guerrieri greci di bronzo scoperti e recuperati dalle sue acque nel 1972.

            L’allontanamento “volontario”, senza il quale chi rimane a Riace del centinaio di immigrati accoltivi perderà ogni forma di assistenza, equivale all’ossimoro dell’”obbligo flessibile” della vaccinazione inventato dai grillini nei mesi scorsi.

           Alfano.jpg Salvini ha inoltre tenuto a prendere in fondo le distanze dal suo stesso compiacimento per l’arresto del sindaco di Riace, espresso in violazione della presunzione costituzionale di non colpevolezza, cioè di innocenza, sino a condanna definitiva dell’imputato, riconoscendo finalmente il merito, dal suo punto di vista, delle prime ispezioni ministeriali nel Comune dei bronzi, oltre che degli immigrati, al governo del tanto odiato Matteo Renzi. Al Viminale c’era ancora Angelino Alfano, sostituito da Marco Minniti solo nel governo successivo di Paolo Gentiloni, dove Alfano si trasferì agli Esteri: ultimo suo traguardo politico prima del ritorno alla professione forense e delle incursioni vacanziere a Capri.

            Ah, cosa si deve fare e dire, o non fare e non dire, per governare da equilibristi: persino proporsi, come ha appena fatto Di Maio, il blocco sostanzialmente punitivo delle rivalutazioni delle pensioni cosiddette d’oro, già minacciate di tagli dopo i contributi di solidarietà degli anni scorsi. Quel blocco esiste sostanzialmente già da tempo ed ha già contribuito a ridurre di molto i carati del presunto oro delle pensioni di 90 mila euro lordi non mensili, che fecero giustamente scandalo quando se ne scoprì un esemplare, ma annui.   

Quando il ministro Matteo Salvini se le va proprio a cercare al Viminale

            C’è sicuramente dell’esagerazione, per quanto congenita alla satira, nella vignetta con la quale Stefano Rolli sulla prima pagina del Secolo XIX ha voluto ribattezzare col nome di “Ministero dell’Internamento”, anziché dell’Interno, il Viminale gestito dal leader leghista Matteo Salvini. Che però questa volta -diciamo la verità- è andato proprio a cercarsela con la disposizione che ha dato di allontanare dal comune calabrese di Riace un centinaio di immigrati che vi si erano integrati col metodo del sindaco Domenico Lucano, Mimmo per gli amici: finito agli arresti domiciliari proprio per le maniere, diciamo così, disinvolte con le quali usava trattare nel suo territorio il fenomeno dell’immigrazione.

           Già Salvini se n’era fregato -scusate il termine, che però il ministro usa molto spesso quando reagisce a ciò o a qualcuno che non gli piace – della norma costituzionale sulla presunzione di non colpevolezza, cioè di innocenza, sino a condanna definitiva applaudendo l’arresto del sindaco. Che peraltro, pur finendo ai domiciliari, era stato accusato dal pubblico ministero anche di reati, oltre al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, non condivisi dal giudice competente.

           Schermata 2018-08-20 alle 06.36.13.jpg Ora il ministro dell’Interno -o dell’Internamento, secondo il perfido Rolli- ha completato la sua performance governativa ordinando l’allontanamento da Riace di immigrati che saranno pertanto un po’ meno o per niente integrati, per quanto la loro integrazione fosse stata permessa o favorita dal sindaco largheggiando all’anagrafe con certificati, matrimoni e ricongiungimenti. Sono tutti reati, per carità, per quanto limitati a casi che sono la classica goccia nel mare dell’immigrazione clandestina o irregolare, ma sempre in attesa di giudizio. E così poco vissuti come pericoli e scandali fra gli abitanti della zona e, più in generale, d’Italia da avere provocato sul posto raduni di protesta contro la Procura della Repubblica: un inedito assoluto nella storia di un paese purtroppo abituato per più di venticinque maledettissimi anni a sfilate davanti ai tribunali con magliette inneggianti alle manette. Che peraltro fanno pure rima.

            Di questa inversione di tendenza paradossalmente si potrebbe anche ringraziare Salvini. E perdonargli l’errore contestatogli da Rolli con la forza disarmata della satira.

Imbarazzo al Senato e dintorni sul vitalizio arretrato della presidente Casellati

            Il livore che di solito vi ci mette, storpiando i nomi dei malcapitati e abusando delle formule giudiziarie, per cui si può diventare pregiudicati, per esempio, e indicati perciò al pubblico ludibrio anche per essere stati condannati per diffamazione  nell’esercizio di una professione ad alto rischio in questo campo come quella giornalistica, porta di solito a diffidare delle campagne più o meno moralizzatrici del Fatto Quotidiano, specie da quando ne ha assunto la direzione Marco Travaglio. Che sta al fondatore e primo direttore del suo giornale, il mio amico Antonio Padellaro, come un monello ad un padre irreprensibile.

           Casellati.jpg Questa volta tuttavia è francamente difficile non condividere l’attacco mosso dal Fatto Quotidiano, appunto, alla presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati per il vitalizio che ha preteso e ottenuto dalla giustizia interna di Palazzo Madama, in cosiddetta autodichia, in relazione ai quattro anni trascorsi al Consiglio Superiore della Magistratura,  fra il 2014 e le sue dimissioni per partecipare alle elezioni politiche del 4 marzo scorso. Dalle quali era destinata a uscire, per una serie di coincidenze tanto impreviste quanto fortunate, scalando i vertici istituzionali, sino a conquistare la seconda carica dello Stato.

            In quei quattro anni trascorsi nel Palazzo dei Marescialli , percependo un’indennità pari o superiore al cinquanta per cento dell’indennità spettante ai parlamentari, l’amministrazione di Palazzo Madama non corrispose alla consigliera superiore della magistratura il  vitalizio maturato come ex senatrice. Glielo impediva l’articolo 6 del regolamento dei vitalizi approvato nel 2012 per chiarire una vecchia e controversa lettura delle precedenti disposizioni, che avevano consentito il cumulo con indennità per mandati costituzionalmente incompatibili con quelli parlamentari. Proprio a quei casi consentiti prima del 2012  si è richiamata la difesa della signora Casellati in una vertenza promossa al Senato.

            La Commissione Istanza di Palazzo Madama ha respinto l’istanza della presidente di riscuotere gli arretrati del vitalizio, ma nel secondo grado di giudizio il Consiglio di Garanzia le ha dato ragione con una sentenza peraltro inaccessibile agli estranei che hanno tentato e vorrebbero tuttora accedervi.  Pertanto la presidente potrà riscuotere arretrati per un ammontare valutato attorno ai 360 mila euro non appena l’amministrazione del Senato ne sarà autorizzata da lei stessa, o dal suo vice vicario Roberto Castelli.  

            Le valutazioni giuridiche in regime di autodichia, cioè di giustizia interna al Senato, già delicate di loro, impallidiscono di fronte a quelle di opportunità politica in considerazione del ruolo della presidente dell’assemblea di Palazzo Madama, e potenziale supplente -non dimentichiamolo- del capo dello Stato. E per giunta in un momento in cui lo stesso Senato si accinge a intervenire con forbici e accette, sulla falsariga di quanto già avvenuto alla Camera, sui vitalizi degli ex parlamentari non coperti da adeguati contributi.

            Non vorrei sembrare impertinente o, peggio ancora, qualunquista ma ritengo che alla prCasellati bis.jpgesidente del Senato, in condizioni non certamente di indigenza, convenga accettare l’invito già rivoltole da qualche parte a rinunciare agli arretrati.  Meglio avrebbe fatto, anzi, a precederlo. Se proprio fosse convinta da avvocato di lungo corso della giustezza di quella sentenza curiosamente -o odiosamente?- segreta, la presidente potrebbe destinare la somma a qualche opera o ente di beneficenza. E magari sorridere, da signora davvero, alla immagine attribuitale dal monello del Fatto Quotidiano della “messa in piega della terza Repubblica”.

La lotta (dis)continua del superministro dell’Economia Giovanni Tria

            Quanto durerà la resistenza opposta dal ministro dell’Economia Giovanni Tria al progetto di statizzazione di Alitalia coltivato e annunciato dal vice presidente grillino del Consiglio e superministro dello Sviluppo Economico e del Lavoro Luigi Di Maio? La domanda è d’obbligo dopo la lotta un po’ (dis)continua di Tria contro l’innalzamento del deficit al 2,4 per cento del pil, sostenuto in tandem da grillini e leghisti per cercare di finanziare le loro promesse elettorali ma caduto come una frana sui rapporti con l’Unione Europea e sui mercati finanziari.

            Tria era contrario anche a quel deficit, sino a minacciare, tra indiscrezioni, voci, smentite e precisazioni, le dimissioni che i grillini si aspettavano senza stracciarsi di certo gli abiti addosso, diversamente dal presidente della Repubblica. Che molto si è prodigato per evitarle, non si sa se più temendo una crisi o non sapendo come sostituirlo. Ora il ministro dell’Economia va in giro come una trottola per il mondo, e non solo in Europa, a cercare di vendersi quel deficit come la svolta coraggiosa e necessaria per la ripresa italiana, sino ad ora più sorprendendo che convincendo i suoi interlocutori.

         Alitalia.jpg   D’altronde, la competenza che, indispettito, Tria ha rivendicato rispetto ai progetti e annunci grillini di nazionalizzazione di Alitalia, che dovrebbe essere praticamente acquistata dalle Ferrovie dello Stato, dallo stesso Ministero dell’Economia e dalla solita Cassa Depositi e Prestiti, scambiata da Di Maio per una specie di bancomat a disposizione dei progetti pentastellati, è curiosamente risultata di natura soprattutto verbale.

            In particolare, più che di essere decisamente contrario, il ministro Tria ha detto di non avere parlato della vicenda Alitalia,  e di essere l’unico titolato a farlo. Egli sa evidentemente che, come nel caso del deficit e via via di quel che ne consegue, c’è sempre tempo evidentemente per cambiare parere e linea, convincersi del contrario e spendere infine le sue maggiori o migliori energie per sostenerlo. E ciò peraltro senza riuscire mai a recuperare abbastanza la fiducia dei grillini. I quali mostrano di continuare a vedere nelle dimissioni di Tria più un affare, una liberazione, che una disgrazia.

La salutare perfidia di Mattarella sui rischi di ebbrezza da potere

              C’è un misto di “autoironia”, da lui stesso raccomandata anche in privato ai politici che gli capita di ricevere e frequentare, e di salutare perfidia -per quanto sembri un ossimoro- nella scelta del verbo “inebriare” compiuta dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella per denunciare gli inconvenienti di un potere male inteso e peggio esercitato, come “dominio”.

           Rolli.jpg Il capo dello Stato ha parlato ai liceali convenuti sul Colle per una lezione di educazione civica, o di “pedagogia istituzionale”, come ha preferito definirla il quirinalista del Corriere della Sera Marzio Breda, ma pensando al governo gialloverde, o ai suoi uomini di punta. Che sono notoriamente i vice presidenti del Consiglio Luigi Di Maio, per conto dei grillini, e Matteo Salvini, per conto dei leghisti: due vice che non si sentono in imbarazzo neppure quando sostituiscono il pur presente  presidente del Consiglio Giuseppe Conte davanti alle telecamere nelle risposte ai giornalisti, quando a costoro è permesso di farne.

            Inebriare equivale nel dizionario della lingua italiana a ubriacare. E solo un ubriaco- o un “non sobrio”, come ha detto recentemente Matteo Salvini del presidente della Commissione Europea Jean Claude Juncker, che aveva appena espresso timori sui conti italiani per evitare che facciano prima o dopo la fine di quelli della Grecia prima del sostanziale commissariamento comunitario- può pensare nel governo di potersi sottrarre al controllo delle autorità di garanzia, a cominciare dalla Banca d’Italia per arrivare in fondo alla stessa Presidenza della Repubblica, negando loro la legittimità di una investitura popolare diretta. Che sarebbe la sola, secondo Di Maio e Salvini, a poter permettere rilievi e contestazioni all’esecutivo da parte di chi non ne fa parte e ignora che esso rappresenta “60 milioni di italiani”, come ha rivendicato in particolare il leader leghista.

            Pazienza se il giurista  Sabino Cassese, credo astemio, si è scomodato a consultare i risultati delle ultime elezioni politiche per ricordare che gli elettori del movimento grillino e della Lega sono stati all’incirca 19 milioni. Cosa che gli ha procurato la bocciatura del solito Fatto Quotidiano, insorto in prima  pagina contro la pretesa del giudice emerito della Corte Costituzionale di difendere la Banca d’Italia, nello scontro col governo sulla valutazione dei conti della previdenza, scambiandola per “le 2 Camere”. Dove i gialloverdi dispongono di una maggioranza che li metterebbe al riparo da tutti e da tutto.

Amleto approda in Forza Italia, accolto personalmente da Silvio Berlusconi

            C’è qualcuno che è messo peggio del ministro dell’Economia Giovanni Tria, che non sa più come dividersi con i suoi conti fra grillini e leghisti, più in particolare fra Luigi Di Maio e Matteo Salvini, per non parlare dei suoi rapporti col Quirinale. Dove Sergio Mattarella nelle ore pari gli manda segnali di incoraggiamento a resistere all’uno o all’altro o a entrambi i vice presidenti del Consiglio, che reclamano coperture ai loro costosi progetti di “cambiamento”, e nelle ore dispari lo fa dissuadere dalle tentazioni alle dimissioni. Il capo dello Stato evidentemente non sa ancora come sostituirlo, ma soprattutto come gestire una crisi di governo a quel punto difficilmente evitabile.

            Peggio di Tria è messo Silvio Berlusconi sia per i voti che il suo partito continua a perdere nei sondaggi, sia per l’amletica opposizione al governo gialloverde cui è costretto da una serie di ragioni in cui si mescolano rapporti e interessi politici e personali.

            Il centrodestra, peraltro a trazione leghista, come si dice da quando la Lega, appunto, ha sorpassato Forza Italia nelle urne il 4 marzo scorso, c’è e non c’è a seconda dei luoghi e dei momenti. Salvini un giorno porta il gelato al Cavaliere, avendone appreso i gusti già ai tempi di Umberto Bossi, e il giorno dopo glielo manda di traverso con un altro allineamento a Di Maio. Di cui  Berlusconi però non può dolersi però più di tanto perché Salvini prontamente gli ricorda il permesso accordatogli nei mesi scorsi, pur di evitare le elezioni anticipate, di fare il governo con gli odiati eredi o emuli dei comunisti e/o dei nazisti, secondo le circostanze e gli umori ad Arcore, sempre negativi comunque.

            Gardini.jpgLa versione amletica dell’ex presidente del Consiglio e di quel che gli resta di Forza Italia si è toccata con mano, diciamo così, nel salotto televisivo della compassata e gradevolissima Barbara Palombelli, sulla rinnovata Rete 4 di Mediaset, con le acrobazie cui si è costretta la sua ospite Elisabetta Gardini. Della quale, in verità, si erano un po’ perse le tracce sia come politica sia come attrice teatrale. Ma la signora, per sua fortuna, è ancora lì, in buona salute e ai suoi posti, compreso quello di capogruppo della componente forzista dei popolari europei nel Parlamento di Strasburgo.

            Ebbene, alle prese con gli affannosi sviluppi delle trattative fra grillini e leghisti nella definizione dei conti e con le bocciature che essi rimediano da ogni parte, a cominciare dai mercati,  prima ancora che qualcuno riesca a chiuderli, la signora Gardini non sapeva come spendersi nella doppia veste di sostegno e di opposizione al governo gialloverde. Di sostegno, in concorrenza peraltro con uno dei direttori di Mediaset collegato con lo studio dall’esterno, per la pretesa dell’Unione Europea e delle agenzie internazionali di rating di scrivere loro il bilancio italiano. Di opposizione, in concorrenza con l’altro ospite politico di studio, il vice presidente piddino della Camera Ettore Rosato, ma anche dell’ex direttore della Stampa Marcello Sorgi, per i guasti che sono destinate a procurare le misure messe in cantiere dal governo per cercare addirittura di abolire la povertà, almeno in Italia. Dove però il cosiddetto reddito di cittadinanza rischierà di portare in galera per sei anni i titolari che dovessero cercare di pagarsi con quei soldi anche le sigarette o qualche bottiglia di buon vino. Debbono continuare ad essere poveri, visto che gli stanziamenti possibili sono quelli che sono, ma astemi. E non fumatori.

 

 

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Le parole magiche ma sfortunate rubate alla sinistra dai gialloverdi

Nella loro ansia di cambiamento, insofferenti a tutti gli ostacoli che incontrano, grillini e leghisti hanno adottato nella loro azione di governo due parole magiche della sinistra: magiche ma purtroppo sfortunate, come vedremo.

“Più ci attaccano più ci compattano”, ha detto orgogliosamente il vice presidente pentastellato del Consiglio Luigi Di Maio scommettendo sull’unita’ del suo movimento e della coalizione di fronte ai “complotti” e quant’altro in corso contro il governo in carica. Ma l’unità, di cui la sinistra è rimasta orfana anche nelle edicole, non essendole bastato lo scempio fattone nella sua lunga storia a livello partitico, parlamentare e sindacale, è un po’ problematica a vedersi sotto le cinque stelle.

Basta osservare le distanze silenziose che ha preso da ciò che sta accadendo Beppe Grillo, quasi sorpreso pure lui dalle prove che danno i suoi nelle stanze dei bottoni. Dove peraltro già Pietro Nenni scoprì nel 1963, approdato a Palazzo Chigi con Aldo  Moro, che mancavano del tutto.

Sempre più visibile invece è l’attivismo del presidente della Camera Roberto Fico, reduce da una missione a Bruxelles non proprio in sintonia con l’assalto all’arma bianca dei suoi compagni di governo agli uomini e agli organismi dell’Unione Europea. Di cui Di Maio ha quasi celebrato il funerale politico, sicuro che non potranno uscirne vivi dalle elezioni continentali della prossima primavera.

Circa l’unità della coalizione governativa, sarei più cauto di fronte a certe sofferenze all’interno della Lega, di cui forse si è fatto interprete negli ultimi giorni l’anziano ed esperto ministro degli affari europei Paolo Savona. Il cui peso, forse anche agli occhi del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che pure non lo volle qualche mese fa alla testa del super dicastero dell’Economia,è cresciuta man mano che si è ridotta, al di là delle sue stesse responsabilità, quella del volenteroso titolare Giovanni Tria. Che è stato impietosamente ripreso televisivamente mentre il presidente leghista della Commissione Bilancio della Camera gli spegneva il microfono.

All’unisono con Matteo Salvini, reduce a sua volta da un incontro con la leader della destra francese Marine Le Pen risultato particolarmente indigesto al già ricordato Fico, il vice presidente grillino del Consiglio grida “avanti” ad ogni richiamo non dico a tornare indietro, ma a fermarsi con la sua macchina curiosamente provvista, a quanto pare, di una sola marcia.

Avanti, rafforzata con l’esclamativo, è stata la parola magica e storica dei socialisti italiani, mutuata dai compagni tedeschi e tradotta anch’essa in una gloriosa testata giornalistica, scomparsa dalle edicole prima ancora dell’Unita’ fondata da Antonio Gramsci.

Matteo Renzi, pur togliendole scaramanticamente l’esclamativo, cercò non più tardi dell’anno  scorso di raccogliere e rilanciare la parola magica dei socialisti adottandola come titolo di un suo libro biografico e programmatico, scritto col proposito di riprendersi dalla sconfitta referendaria del 4 dicembre 2016 sulla riforma costituzionale e dalla rinuncia a Palazzo Chigi. Si sa com’è finita: con la sconfitta elettorale del 4 marzo scorso e con la rinuncia anche alla segreteria del Pd.

Di Renzi, per quanto incredibile possa sembrare per l’animosità dei loro rapporti, Di Maio ha finito in questi giorni per ripetere anche il coraggio o l’imprudenza, secondo i gusti, di un attacco frontale alla Banca d’Italia nella persona del suo governatore Ignazio Visco. Del quale l’allora segretario del Pd reclamò inutilmente la testa, peraltro alla scadenza ordinaria del primo mandato, rimproverandogli una scarsa vigilanza su banche poi fallite. Di Maio invece lo ha sfidato, con una variante dei vaffa di Grillo, a presentarsi alle elezioni per conquistarsi il diritto, che oggi quindi non avrebbe, di giudicare la manovra economica del governo o, solo, di esprimere dubbi sulla sostenibilità dei costi dell’ennesima riforma previdenziale in arrivo.

 

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

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