La manovra finanziaria del governo gialloverde finisce in Procura

            Inedito, clamoroso, scandaloso, sconcertante e chissà quanti e quali altri aggettivi potrà meritare l’annuncio televisivo del vice presidente grillino del Consiglio Luigi Di Maio, a Porta a porta, di una denuncia alla Procura della Repubblica di Roma per la manipolazione che avrebbe subito il testo della manovra fiscale approvata dal governo, in particolare nella parte riguardante il condono.  O come altro preferiscono chiamarlo nel partito dello stesso Di Maio per rendere meno indigesto al loro pubblico digitale il provvedimento reclamato dagli alleati leghisti, in cambio del sostegno al cosiddetto reddito di cittadinanza preteso dal movimento delle cinque stelle.

            La manipolazione sarebbe stata eseguita per estendere il condono ben oltre le intese raggiunte nel Consiglio dei Ministri e nei vertici che lo avevano preceduto: sino a inserirvi, fra l’altro, i capitali all’estero e uno scudo penale.

            A Di Maio il testo manipolato risultava già pervenuto al Quirinale, dove però hanno annunciato di non averlo ricevuto. Qualcuno forse si sarà perso il documento per strada nel breve tragitto fra Palazzo Chigi e il Colle: forse nella Galleria Alberto Sordi, ex Colonna, o a Fontana di Trevi, o davanti a qualcuna delle gelaterie affollate di turisti e disseminate prima della curva finale verso il Palazzo della Presidenza della Repubblica.

            Se ne occuperà forse la Procura della Repubblica, anche se il compito assegnatole da Di Maio col suo annuncio televisivo è di dare un nome alla persona o all’ufficio ministeriale dove la manipolazione della manovra sarebbe avvenuta.

            Prima ancora che potessero cominciare ad occuparsene i magistrati, e quando già il Quirinale aveva aggiunto altro giallo a quello della denuncia del vice presidente del Consiglio, i sospetti degli addetti ai lavori sono caduti sul potente sottosegretario leghista alla Presidenza del Consiglio Giancarlo Giorgetti, che non solo coordina per conto del presidente grillino Giuseppe Conte i rapporti con i ministri ma redige i verbali delle riunioni del governo. Ma Di Maio ha immediatamente precisato di “fidarsi” di tutti i componenti politici del governo, per quanto da non pochi giorni le cronache politiche abbondino di malumori fra i grillini verso il troppo ingombrante sottosegretario leghista, che si sarebbe messo frequentemente di traverso rispetto alle richieste pentastellate di maggiori fondi a sostegno dei programmi di spesa.

            Esclusi quindi i politici, a meno che Di Maio alla fine non scopra con l’aiuto della Procura di essere stato tradito da uno di questi, i sospetti andrebbero circoscritti fra i tecnici, o burocrati, come preferite. Di cui ovviamente abbondano i Ministeri, e che i grillini hanno più volte indicato come sabotatori effettivi o potenziali dei loro progetti di “cambiamento”.

            I tecnici o burocrati maggiormente presi di mira dalla propaganda grillina, e persino dalle telefonate del portavoce di Palazzo Chigi, anche per la loro autonomia garantita da leggi e regolamenti difficilmente aggirabili, si trovano al Ministero dell’Economia, retto dal professore Giovanni Tria. Che da un po’ di tempo si trova pure lui politicamente in bilico, per quanto egli si presti ogni giorno a fingere di non capire e non sentire pur di evitare le dimissioni e spalancare la porta ad una crisi di governo di cui il capo dello Stato non vuole neppure sentir parlare, fra le scadenze costituzionali del bilancio e gli esami dei conti italiani da parte degli organismi preposti dell’Unione Europea. Dove sembra di capire che i contrasti siano soprattutto sui tempi entro cui bocciare i numeri del governo italiano dopo una formale richiesta di cambiarli per non deviare troppo dai parametri dei trattati e dagli accordi assunti dai precedenti esecutivi, ma dietro le quinte anche da quello in carica.

           Stefano Rolli.jpg Il disagio, per non parlare d’altro, del presidente della Repubblica in questa situazione politica e persino giudiziaria, dopo l’annuncio televisivo di Di Maio, si può ben comprendere. In attesa di qualche esternazione di Sergio Mattarella, magari profittando della prima occasione offertargli dal calendario di visite, incontri e quant’altro, accontentiamoci della fantasia del vignettista Stefano Rolli. Che sul Secolo XIX attribuisce al capo dello Stati il consiglio ai suoi collaboratori di controllare bene “i congiuntivi” del testo della manovra, se e quando verrà recuperato e arriverà davvero al Quirinale per gli adempimenti di rito, e non solo. Già, perché nessuna firma del presidente della Repubblica è scontata, salvo quella per la promulgazione di una legge approvata dalle Camere, da lui rinviata con messaggio motivato ma da queste confermata con un’altra votazione.

           Ogni allusione di Rolli ai congiuntivi per il cui uso disinvolto si è distinto in passato Di Maio è naturalmente voluta, per niente casuale.

 

 

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Un segnale a Salvini il Matteo Renzi in quattro puntate sul Biscione

Partita in salita con l’ostentazione di uno scarso interesse da parte di Mediaset  per ragioni più politiche che commerciali, nel timore di alimentare polemiche su vere o presunte nostalgie del vecchio e sfortunato “patto del Nazareno” con Silvio Berlusconi, la trattativa sui documentari televisivi su Firenze condotti da Matteo Renzi non è stata soltanto “lunga”, come annunciato alla sua positiva conclusione. E’ stata di una difficoltà enorme, non sempre di natura economica.

Protagonisti ed attori non lo ammetteranno mai, per comprensibili ragioni di opportunità, ma vi è stato per tutto il percorso del negoziato un ingombrante convitato di pietra: il leader leghista Matteo Salvini. Che è l’uomo più sospettoso, a dir poco, in materia di rapporti fra Berlusconi, che rimane il suo alleato di centrodestra in tante parti d’Italia, e il pur ormai ex segretario del Pd.

Quando scoppiò il contenzioso estivo, poi superato, sulla candidatura leghista di Marcello Foa alla presidenza della Rai, il rimprovero che Renzi fece pubblicamente a Berlusconi fu quello di lasciare votare troppo spesso i parlamentari di Forza Italia “con” quelli del Pd. Fu proprio a causa della convergenza fra gli uni e gli altri che nella commissione bicamerale di vigilanza mancò in prima battuta la conferma di Foa, eletto presidente della Rai dal consiglio di amministrazione. Guarda caso, nel secondo e contestato passaggio, dopo la rielezione di Foa, e fra annunci di ricorsi e quant’altro, la controversia politica fra Salvini e Berlusconi si chiuse con la fine dell’allineamento parlamentare tra forzisti e piddini: gli uni diventati alla fine favorevoli e gli altri rimasti contrari alla nuova presidenza dell’azienda radiotelevisiva di Stato.

Ciò accadde sull’onda, cioè per effetto, di una serie di incontri conviviali e non, fra Arcore e Roma, per un chiarimento all’interno del centrodestra in vista delle prossime elezioni regionali e, più in generale, amministrative: un terreno su cui erano emerse forti alcune tentazioni della Lega di far correre da soli, o chissà con quali altre combinazioni, i loro candidati.

I convitati di Arcore e di Roma si trovarono d’accordo non solo nel rimanere alleati in sede amministrativa, ma anche nel sentirsi legati ancora al programma elettorale di governo nazionale con cui il centrodestra si era presentato alle elezioni politiche del 4 marzo scorso. Per cui Berlusconi si ritenne autorizzato a sperare che poi Salvini nell’azione di governo con i grillini per la definizione della manovra finanziaria e del bilancio del 2019 tenesse duro, per esempio, sulla cosiddetta tassa piatta. E non se la lasciasse sacrificare dai grillini per finanziare, in deficit, il cosiddetto reddito di cittadinanza.

La delusione di Berlusconi per come si sono poi sviluppate e concluse le trattative nel governo fra leghisti e grillini su manovra finanziaria e bilancio è stata grande. Se ne sono fatti portavoce i berlusconiani di più stretta osservanza, al netto dei soliti malumori di quanti in Forza Italia non gradiscono rapporti troppo tesi con la Lega, e sono addirittura tentati dall’aderirvi, prima o poi. E se non vi è già stato uno smottamento in questo senso, lo si deve forse più che alla capacità di attrazione di Berlusconi, alla cautela di Salvini. Che ha disposto al suo partito di non promuovere o accettare passaggi a livello parlamentare, o di un certo rilievo locale, proprio per non moltiplicare le difficoltà del Cavaliere. E farsi magari accusare da lui delle stesse scorrettezze che nel 1994 l’allora capo del Carroccio Umberto Bossi contestò a Berlusconi: di fare o lasciar fare campagne acquisti fra i leghisti. A quell’epoca forzisti e leghisti erano alleati di governo: non separati come adesso, fuori o dentro la maggioranza. Il che accentua il significato della prudenza assunta da Salvini di fronte a quanti da Forza Italia sono già o potrebbero essere da lui tentati.

Ma i riguardi, diciamo così, del leader leghista non bastano evidentemente a rasserenare Berlusconi, viste le sue reazioni alla manovra finanziaria e le accuse di cedimento, tradimento e quant’altro che gli esponenti forzisti a lui più vicini muovono al vice presidente del Consiglio.

In questo contesto va forse visto o letto anche l’annuncio della trattativa conclusa favorevolmente da Mediaset col produttore dei quattro documentari televisivi  di Renzi su Firenze.

I maliziosi, fedeli alla scuola di Giulio Andreotti, convinti cioè  che a pensare male, appunto, si faccia peccato ma s’indovini, potrebbero vedere nell’epilogo imprevisto della lunga trattativa commerciale sui documentari di Renzi un calo dell’interesse di Berlusconi a non insospettire o irritare Salvini sul terreno dei rapporti con l’ex segretario del Pd. Che potrà sicuramente trarre vantaggio mediatico, e di riflesso anche politico, dalle sue performance televisive, come ne sta traendo dall’attività di conferenziere a livello internazionale.

Un’altra coincidenza che potrebbe alimentare la fantasia dei maliziosi è fra l’annuncio dell’accordo commerciale con Mediaset, onorato personalmente da Renzi partecipando con la moglie al raduno annuale, a Cannes, di produttori televisivi e telematici, e l’imminente apertura della nona edizione della “Leopolda”, il raduno dei renziani a Firenze.

Il tema della “Leopolda” di quest’anno è “ritorno al futuro”. La linea politica del raduno renziano corrisponde alla linea culturale dei quattro documentari televisivi su Firenze, tradotta dalla cronaca del Corriere della Sera da Cannes così: “bellezza contro odio e paura, apertura contro protezionismo”, o sovranismo, potremmo dire. E’ la linea della contrapposizione politica fra Renzi e Salvini, dagli sviluppi e intrecci ancora imprevedibili, per quanto il primo arranchi, in un partito per niente pacificato, e il secondo sembri in crescita.

 

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

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