Luigi Di Maio e il suo governo ostaggio delle “brigate dello spread”….

             Di una vignetta non si dovrebbe poter dire che sia esagerata senza cadere in un ossimoro, essendo il vignettista dotato di licenza, appunto, di eccedere. Eppure a vedere quella che Vauro Senesi ha confezionato per la prima pagina del Fatto Quotidiano ispirandosi a cronache, polemiche e quant’altro sull’aggiornamento del documento di programmazione economica e finanziaria ( il famoso Def) approvato “salvo intese” -anch’esso, ahimé – dal Consiglio dei Ministri fra le grida e i gesti di vittoria di Luigi Di Maio e amici sul balcone di Palazzo Chigi, viene spontaneo qualche dubbio. Che trattiene il sorriso, o lo trasforma in una smorfia scettica di fastidio.

            Ma, se esagerazione si vuole vedere in quel Di Maio prigioniero delle “brigate dello spread” come il povero Moro sequestrato e poi ucciso dalle brigate rosse più di quarant’anni fa, più che con la fantasia di Vauro bisognerebbe prendersela col modo di pensare, di parlare e di fare del vice presidente grillino del Consiglio. E di quanti, fuori e dentro il suo partito, lo apprezzano, lo difendono, lo giustificano e quant’altro.

            E’ stato proprio Di Maio, con la stessa disinvoltura con la quale vede e indica “assassini”, “aguzzini”, “parassiti”, “disonorevoli” e “sabotatori” dappertutto, a scomodare il terrorismo nella faccenda del deficit fissato al 2.4 per cento del prodotto interno lordo per i prossimi tre anni. Lo ha scomodato immaginando armati di pistole, mitra, manette, bende e catene tutti coloro che hanno osato e osano dubitare della “manovra coraggiosa” in cantiere nel governo per “abolire la povertà” e fare finalmente godere “il popolo”.

            Quello inventatosi da Di Maio è un terrorismo per niente endogeno, come dicevano invece quarant’anni fa i critici del povero Sandro Pertini, che dal Quirinale aveva  avvertito e indicato connessioni internazionali delle brigate rosse, e anche del terrorismo nero. Il nuovo terrorismo antigrillino e anti-“cambiamento” avvertito e denunciato da Di Maio ha le sue centrali decisamente all’estero, tra Bruxelles, Berlino e Parigi, oltrepassa l’Atlantico per approdare nei mercati internazionali e nelle agenzie di rating che ci accingono a svalutare i titoli del debito pubblico italiano a causa dell’indirizzo del governo gialloverde di Roma. E conta infine  in Italia sulla complicità dei grandi giornali, delle opposizioni, della burocrazia, della Confindustria, delle banche e persino del Quirinale. Dove il presidente della Repubblica si permette di esprimere pubblicamente preoccupazioni e moniti per i conti dello Stato e di convocare il presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Dal quale ha appena cercato di farsi spiegare meglio, non so francamente con quali risultati, ciò che bolle nella pentola del governo.

            Tria in fuga.jpgTutto questo è accaduto mentre il povero ministro dell’Economia Giovanni Tria, trattenuto dalle dimissioni proprio al Quirinale mentre i colleghi lo mettevano in minoranza a Palazzo Chigi, si è affacciato alle riunioni comunitarie per allontanarsene rapidamente, avvertendo il clima da processo che lo aspettava.

            Prima o dopo Di Maio finirà per avvertire tracce di terrorismo anche nel suo Sud generoso di voti per il movimento che lui capeggia sotto la sorveglianza dell’”elevato” Beppe Grillo e il monitoraggio telematico di Davide Casaleggio.

              Rolli sul debito.jpgIl tanto reclamato e decandato “reddito di cittadinanza” rischia di arrivare ai destinatari non solo in misura inferiore alle promesse, ma anche o soprattutto, come preferite, in forme non usuali da quelle parti: non in contanti, per esempio, ma con una social card, o qualcosa di simile, che avrà l’inconveniente di poterne controllare l’uso.

            Di Maio preferisce il colore scuro per i suoi abiti. L’ho visto di rado, nelle foto o sul teleschermo, in vestiti chiari. Temo che egli non abbia capito che il nero è un colore preferito dalle sue parti elettorali anche per altri versi, e significati: non per vestirsi ma per guadagnare e spendere.c

 

 

Ripreso da http://www.startmag.it

D’accordo, Sergio Mattarella non è un economista. E con questo ?

Chi ha pensato, fra i grillini, di poter mettere in qualche difficoltà Sergio Mattarella, e contestarne preoccupazioni e moniti espressi sui conti dello Stato, dandogli dell'”uomo più di diritto che di economia”, non sa di averlo compiaciuto.

Questa storia di intendersi poco o niente di economia il presidente della Repubblica se la sente  raccontare da tempo, ben prima dell’approdo al Quirinale, tre anni fa, da un vecchio e carissimo amico, che abbiamo peraltro in comune. La cui grande competenza economica e finanziaria è stata più volte messa a disposizione dello Stato.

Non a caso, del resto, nel curriculum parlamentare di Mattarella manca un qualsiasi riferimento a leggi di spesa o di entrata di cui egli sia stato, per esempio, relatore. Come invece gli accadde nel 1993 alla Camera con la legge elettorale destinata a disciplinare l’anno dopo il rinnovo anticipatissimo delle Camere con l’inedito sistema misto di maggioritario e proporzionale, prodotto da un referendum di marca radicale. A quella legge il compianto Vanni Sartori, traducendo in latino il nome del relatore, impose il marchio di successo Mattarellum.

            Lungi dal sentirsi menomato, il presidente della Repubblica si vanta col nostro comune amico di intendersi di economia meno che di legge, e di politica. Egli ritiene che a un capo dello Stato in tema di economia e finanza debba bastare e avanzare la possibilità di disporre dal suo osservatorio di tutti i punti di riferimento, di consultazione, di consiglio garantiti dalle istituzioni.

D’altronde, di economisti al Quirinale ne abbiamo avuti in più di 70 anni solo due: Luigi Einaudi e Carlo Azeglio Ciampi. Tutti gli altri hanno attinto ciò che serviva per conti e numeri nello stesso Quirinale e dintorni: a cominciare dalla quasi attigua Banca d’Italia, dove si arriva voltando l’angolo, per finire nei Ministeri economici ora accorpati in uno solo, in via XX Settembre. Dove si accede senza neppure voltare d’angolo dall’ingresso alla residenza del capo dello Stato.

Oltre a consigli, informazioni e dossier uno dei predecessori di Mattarella, il suo collega di partito Oscar Luigi Scalfaro, attinse in Banca d’Italia anche uomini da destinare a Palazzo Chigi -Ciampi nel 1993- o ai dicasteri finanziari. E lo stesse fece poi Giorgio Napolitano per scegliere i ministri economici dei governi tecnici, o quasi tecnici, capitatigli di nominare nei suoi nove anni per niente ordinari di mandato presidenziale.

Dall’alto dei loro balconi, dove si affacciano per gridare vittoria ed entusiasmare la folla, i grillini mostrano diffidenza verso tecnici, burocrati e quant’altri ancora operano nei loro dicasteri,  accusandoli di frenarne l’azione di “cambiamento”, o di “boicottaggio” vero e proprio. E proponendosi purghe alla prima occasione. Essi vogliono “politici” dappertutto di cui potersi fidare, e che dovrebbero pertanto essere solo della loro parte.

Anche in questa mania di conquistare palazzi e sventolare sopra e sotto i balconi le bandiere del “popolo” vincente, i grillini dovrebbero andare piano, come ha consigliato loro di  fare l’insospettabile Marco Travaglio. Che sul suo Fatto Quotidiano ha ricordato saggiamente, una volta tanto, al vice presidente pentastellato Luigi Di Maio, reduce appunto da una performance del genere, che “i balconi portano sfiga”, in Italia come altrove.

A parti sia pure rovesciate, essendosi allora trattato di difendere un politico dall’arrivo di un tecnico, o burocrate, vale la pena rievocare l’assalto dei partigiani, guidati da Giancarlo Pajetta, alla Prefettura di Milano alla fine di novembre del 1947. L’allora ministro dell’Interno Mario Scelba aveva appena annunciato la sostanziale destituzione del prefetto Ettore Troilo, già segretario di Giacomo Matteotti e capo di una formazione della Resistenza, per sostituirlo col prefetto uscente di Torino Vincenzo Ciotola.

Conquistata la Prefettura di Milano mentre continuavano a giungere  le dimissioni dei sindaci della provincia per protesta contro il governo, Pajetta telefonò a Roma dall’ufficio di Troilo per annunciare l’epilogo dell’assalto. E si sentì chiedere perfidamente non da Alcide De Gasperi, ben protetto al Viminale, ma dal segretario del Pci Palmiro Togliatti, tornato all’opposizione da giugno per la fine dei governi di unità nazionale: “E ora della Prefettura occupata che ve ne fate?”.

Come Togliatti a novembre del 1947, così Beppe Grillo ha completamento snobbato domenica nel riepilogo della trentatreesima settimana del suo blog personale l’impresa di Di Maio e compagni  sul balcone di Palazzo Chigi per la conquista del deficit al 2,4 per cento del prodotto interno lordo.

Gli avvenimenti o progetti che l'”elevato” delle 5 Stelle ha preferito celebrare sono stati tutti di uso o di lotta alla plastica: da una pista ciclabile di plastica riciclata realizzata in una città olandese alla proposta di mangiare il panino con tutto il suo contenitore e di trangugiare il bicchiere dopo averne bevuto il contenuto, senza buttare nulla nel sacchetto dei rifiuti.  E’ cambiamento, evidentemente, anche questo.

 

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

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