Il terremoto che ha consegnato a Matteo Salvini le terre di Alcide De Gasperi

            L’ultima scossa sismica in Trentino risale al 17 aprile scorso, per fortuna senza danni. Il terremoto politico è arrivato invece domenica 21 ottobre, nelle urne, con la vittoria leghista che ha chiuso una lunghissima stagione democristiana, comprensiva della coda targata Pd.

            E’ stata una scossa fortissima, che ha coinvolto la limitrofa provincia altoatesina di Bolzano e deve essere stata avvertita metaforicamente anche a Roma, nell’atrio della Basilica di San Lorenzo fuori le mura. Dove riposa  il figlio più celebre e insieme recente della terra trentina: Alcide De Gasperi. Che fu sepolto davanti al Verano, lontanissimo delle sue montagne, in omaggio al ruolo politico svolto a Roma, protagonista di otto governi a cavallo fra la Monarchia e la Repubblica, ma soprattutto per desiderio del Vaticano. Fra le cui mura De Gasperi aveva trovato rifugio negli anni dell’antifascismo e non ne avevano dimenticato poi la riconoscenza, espressa anche con l’impegno personale da lui profuso, come presidente del Consiglio, per la ricostruzione proprio di quella Basilica, danneggiata dai bombardamenti americani del 19 luglio 1943. Fra le cui rovine corse Papa Pacelli in una visita all’intero quartiere romano di San Lorenzo così duramente colpito, con più di 700 morti e 1600 feriti. Mussolini sarebbe caduto meno di una settimana dopo.

             Sarebbe sin troppo facile, quasi banale, immaginare le ossa di De Gasperi rivoltate nella tomba per le novità politiche provenienti dalla sua terra all’insegna della destra sovranista nella quale viene generalmente indentificata la Lega di Matteo Salvini: l’opposto degli ideali e della pratica del leader storico della Dc. Ma va detto con altrettanta onestà che nell’Europa minacciata dal sovranismo leghista, e movimenti affini oltre le Alpi, anche De Gasperi avrebbe avuto oggi difficoltà a riconoscersi, tanto è diventata diversa o lontana dalla concezione solidaristica coltivata da lui in Italia, da Konrad Adenauer nella Germania ancora divisa e da Robert Schuman in Francia.

            Va anche detto che la Lega, a dispetto del disprezzo che ostenta, e che accomuna Umberto Bossi a Salvini, per la storia della cosiddetta prima Repubblica, più che la costola della sinistra immaginata in un suo congresso dall’ospite allora potente Massimo D’Alema, è nata dalla Dc. Ne ha raccolto i voti, i militanti e gli amministratori a cavallo fra gli anni Ottanta e Novanta nel Nord, dove lo scudo crociato trasformato dalla lunga gestione demitiana era diventato indigesto.

            Durante la cosiddetta seconda Repubblica un’azione di contenimento dello smottamento dell’elettorato democristiano verso la Lega è stata efficacemente condotta da Silvio Berlusconi con la sua Forza Italia  e varianti, come fu il Pdl.

            Esaurito per una serie di ragioni il fenomeno politico del berlusconismo, ora ridotto ormai ad una sola cifra elettorale, col Cavaliere che anche sul piano sportivo si  occupa del Monza e non più del Milan, la Lega ha rotto gli argini e ha preso il posto centrale che fu della Dc. E che è paradossalmente minacciato solo dalla sua alleanza temporanea di governo con i grillini, se Salvini non la saprà gestire con la necessaria accortezza: quella che forse Berlusconi, in fondo consapevole del proprio declino, si aspettava quando autorizzò il leader leghista, nella scorsa primavera, a mettere un piede fuori dal centrodestra per fare con i pentastellati il governo del cosiddetto cambiamento. Che al Cavaliere serviva solo per evitare le elezioni anticipate e trasformare il proprio declino in una scomparsa politica ravvicinata.  

 

 

 

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La sinistra barbosa sfottuta da Grillo ha forse bisogno di saltare in braccio a Benigni

Dalla sinistra “antipatica” di Luca Ricolfi, che ne ha scritto e ne scrive con rammarico per i voti che essa ha perso dall’alto della sua presunzione, o senso di superiorità, siamo passati alla sinistra “barbosa” di Beppe Grillo. Che ne ha parlato, di certo senza rammarico, nel comizio-spettacolo con cui ha chiuso al Circo Massimo il raduno annuale di Italia 5 Stelle. Egli ha attribuito alla noia procurata dalla “vecchia” sinistra, anche quando a indossarne i panni sono i giovani della Leopolda riuniti a Firenze dall”ebetino” Matteo Renzi, il segreto del successo travolgente del proprio movimento, cresciuto con l’allegria dei suoi discorsi.

I grillini in effetti si divertono molto agli spettacoli peraltro gratuiti del comico genovese, anche se poi, tornando a casa e andando all’occorrenza alle urne, riescono a tradurre l’allegria in risentimento, odio e quant’altro verso quelli che hanno imparato a scambiare per i nemici quasi personali, sommersi dagli insulti e dalle solite parolacce del loro garante, elevato e quant’altro . Si va dai “gufi” operosi nei giornali, da mangiare giusto per avere poi il gusto di vomitarli , ai “malati di mente” delle agenzie di rating, che aiutano gli speculatori a giocare coi titoli di Stato italiani come se fossero birilli; dai preoccupati dell’effetto Serra, che non sanno quanto sia bello poter fare i bagni a Genova anche fuori stagione, al “maggiordomo” messo dalle correnti del Nazareno alla segreteria del Pd, e ai “bambini violentati dagli anziani”, che crescendo conquistano anche l’Eliseo, con tanto di citazione di Macron. Col quale comunque i conti li fa adesso l’affidabile Salvini. E pazienza se la madre del Matteo padano quella volta non preferì la pillola, come Grillo allegramente le rimproverò al telefonino passatogli dal figlio nel primo, occasionale incontro avuto col leader leghista in un aeroporto. Dove magari un giorno si metterà una targa commemorativa dell’evento inconsapevolmente storico.

L’unica cosa che sembra sfuggita incresciosamente al fondatore del movimento delle 5 stelle sul palco del Circo Massimo è stata la disapprovazione dei troppi poteri che avrebbe il capo dello Stato in Italia. Pertanto il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, l’ex “professorino”, come apparve a Grillo quando glielo presentarono, cresciuto moltissimo nei primi 143 giorni del suo governo, si è affrettato a telefonare a Sergio Mattarella per scusarsi. E il suo vice Di Maio, una vera “macchina da guerra”, l’ha definito Grillo, ha tenuto a certificare che una riforma dell’istituto presidenziale non è -per fortuna, aggiungo io- nel “contratto” del governo gialloverde.

Passata la festa del Circo Massimo e superato in qualche modo anche il pasticcio politico e istituzionale del decreto sull’innominabile condono fiscale, torna di attualità il problema dei problemi di questa incipiente terza Repubblica. Che è quello della praticabilità di una vera opposizione, la cui sostanziale assenza é paradossalmente avvertita e lamentata spesso dallo stesso presidente del Consiglio con battute più o meno riuscite quando parla con i giornalisti e avverte, diversamente dal livore che mostra nei loro riguardi Grillo, che neppure loro hanno una grande voglia di rompergli tanto le scatole.

Viste le difficoltà quasi insormontabili del centrodestra, dove Salvini ha ottenuto dopo le elezioni di marzo dallo stesso Berlusconi la licenza di fare il governo con i grillini per evitare un ricorso anticipato alle urne destinato, come si sta vedendo nelle elezioni locali, a segnare un vantaggio sempre più grande della Lega su Forza Italia, la scommessa di un’alternativa si può giocare per ora solo a sinistra. Ma qui francamente sembra avere ragione Grillo, almeno dal suo punto di vista, a indicarne la barbosità, aggravata da perduranti, anzi crescenti conflittualità interne per una nuova leadership, prima ancora che essa possa prendere corpo davvero.

Viene voglia di chiedersi, paradossalmente ma sino ad un certo punto, anche a costo di inorridire il mio amico e saggio Emanuele Macaluso, se anche la sinistra in questo bailamme politico non abbia bisogno di essere guidata da un comico, visto ciò che Grillo è riuscito a fare nel suo indefinibile campo in una decina d’anni soltanto.

È davvero nel Pd il momento di Nicola Zingaretti, di Marco Minniti, di Matteo Richetti, di Teresa Bellanova o non di Roberto Begnini? O di Maurizio Crozza, che con la sua fantasia nelle elezioni del 2013 contribuì a far perdere a Pier Luigi Bersani la vittoria piena che l’allora segretario del Pd sentiva di avere già in tasca, e a bagnare le polveri pur modeste, sempre a sinistra, del magistrato allora tra i più famosi e temuti d’Italia. Che era Antonio Ingroia, uscito come uno straccio dalle urne dove era entrato come aspirante addirittura a Palazzo Chigi.

Passatevi la mano sulla coscienza, cari Benigni e Crozza, e chiedetevi se non sia il caso di offrirvi alla buona causa della sinistra che piange tra le risate di Grillo.

 

 

Pubblicato sul Dubbio

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