Di Maio scaricato anche da Travaglio dopo l’attacco a Draghi

               Questa volta il vice presidente grillino del Consiglio Luigi Di Maio, uscendo apposta da Palazzo Chigi per raggiungere la solita postazione dei giornalisti e attaccare l’italiano forse più noto e stimato nel mondo, il governatore della Banca Centrale Europea Mario Draghi, l’ha fatta tanto grossa da essere scaricato pure da Marco Travaglio.

Travaglio.jpgIl direttore del Fatto Quotidiano si è sentito finalmente in dovere di scendere dal pero della sua supponenza contro tutti gli avversari e i critici di Di Maio per unirsi a loro nel denunciare l’”infantilismo” e l’”ineguatezza” del capo politico del movimento 5 stelle. Che è arrivato ad arruolare d’ufficio persino Draghi fra i nemici dell’Italia, e non solo del governo gialloverde, per non avere applaudito la manovra finanziaria e i suoi effetti, a cominciare dalle sofferenze del sistema bancario dopo l’aumento dello spread. E per finire, per ora, alla inversione negativa delle valutazioni e previsioni dell’agenzia internazionale Standard & Poor’s, dopo il declassamento del debito apportato da Moody’s.

            L’attacco a Draghi  di questo gigante dell’economia e della politica che si considera Di Maio, autopromossosi, data la prevalenza politica sul presidente del Consiglio Giuseppe Conte, superministro dello Sviluppo Economico e del Lavoro, va letto anche in relazione ai rapporti con la Lega. Che non sono solo quelli risultanti pubblicamente dalla spalla che, pur fra alti e bassi, dimostrati questi ultimi dalla recente rissa sul condono fiscale, finisce sempre per fornire a Di Maio l’altro vice presidente del Consiglio e ministro dell’Interno Matteo Salvini.

            In realtà, Di Maio ha attaccato Draghi per non attaccare direttamente l’uomo di fiducia di Salvini a Palazzo Chigi, che è il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giancarlo Giorgetti. Del quale sono non noti ma arcinoti negli ambienti politici e finanziari i vecchi rapporti fiduciari proprio col governatore della Banca Centrale Europea, sopravvissuti ai dubbi espressi da Draghi sulla manovra – mitigati però dall’auspicio di un compromesso nella vertenza apertasi con la Commissione di Bruxelles- perché evidentemente condivisi dall’autorevole esponente leghista. Il quale non a caso si risparmia i truculenti messaggi politici di Salvini e Di Maio, accumunati nella promessa, o minaccia, come preferite, di non arretrare “neppure di un millimetro” dalle posizioni di attacco alla Commissione, o di difesa dei conti della manovra fiscale, e del bilancio peraltro da definire ancora.

            Il governo insomma naviga in una grave turbolenza finanziaria e politica, anche se i piloti -si fa per dire- sembrano ancora refrattari alle cinture di sicurezza.

 

 

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Il silenzio assordante e vigliacco sui funerali di Gilberto Benetton

            Neppure i funerali, svoltisi nel Duomo di Treviso nell’”assenza della politica”, fatta eccezione per il governatore leghista del Veneto Luca Zaia, e nell”abbraccio dell’economia”, come ha riferito l’inviato Giampaolo Visetti su Repubblica, che ne ha però confinato la cronaca molto all’interno, hanno riportato sulle prime pagine dei giornali il dramma di Gilberto Benetton. Che è stato stroncato lunedì scorso da una polmonite sopraggiunta alla leucemia, ma forse ancor più al linciaggio subito con la famiglia per il crollo del ponte Morandi a Genova. Come se fossero stati i Benetton in persona i responsabili di quella tragedia e delle vittime che provocò. Come se fossero stati loro, e Gilberto per primo in quanto responsabile del settore finanziario di un gruppo noto in tutto il mondo, a impedire una manutenzione regolare e avveduta del viadotto, capace di impedirne il crollo, o di prevenirlo con la sospensione del traffico e quant’altro: tutte cose di competenza comunque anche di altri, a cominciare dal Ministero dei Trasporti o, come si chiama adesso, delle Infrastrutture. Che non a caso è stato coinvolto nelle indagini della Procura di Genova.

             Dei funerali di Gilberto Benetton non si è trovato un rigo, e non solo una foto, neppure sulla prima pagina del giornale della Confindustria, il Sole 24 Ore, il quotidiano cioè degli industriali, a dispetto del già ricordato “abbraccio dell’economia” riferito, per la diffusa partecipazione degli imprenditori, nella lontana pagina 22 di Repubblica. Dove non vorrei che, a dispetto della prima reazione del direttore Mario Calabresi, fossero rimasti consapevoli o inconsapevoli sensi di colpa, o solo di disagio, dopo le sconsiderate accuse del vice presidente grillino del Consiglio Luigi Di Maio, e del suo collega di partito e di governo alla guida del dicastero delle Infrastrutture Danilo Toninelli, di avere rappresentato e coperto gli interessi della famiglia Benetton per la partecipazione del gruppo editoriale di Carlo De Benedetti e figli alle società autostradali degli imprenditori trevigiani.

             Spiace dirlo e scriverlo. Ma il silenzio, o l’assai modesto, quasi imbarazzato grado di attenzione riservato ai funerali di Gilberto Benetton è la conseguenza più emblematica e devastante del linciaggio compiuto contro di lui in vita, sull’onda di una condanna morale comminatagli dal governo in violazione di ogni regola, dal “popolo” digitale delle 5 stelle.: linciaggio ripetuto all’arrivo della notizia della morte.

Matteo Renzi sulla strada di Pio XII con i comitati civici contro il fronte gialloverde

L’ultima sfida, per ora, di quel “perdente di successo” come gli avversari si divertono a chiamare Matteo Renzi è davvero mozzafiato. Più ancora della scelta di Sergio Mattarella per il Quirinale nel 2015, anche a costo di rompere il famoso patto del Nazareno con Silvio Berlusconi sulle riforme, a cominciare da quella costituzionale promossa, con un’altra sfida, dal proprio governo, anziché lasciarla proporre più prudentemente dai gruppi parlamentari della maggioranza. Più ancora della personalizzazione del referendum proprio su quella riforma, mettendo in palio anche il suo destino politico, per poi ripiegare, a sconfitta avvenuta, sulla separazione delle cariche di segretario del partito e di presidente del Consiglio. Che egli aveva unificato con baldanza, incurante della sfiga, dicono a Roma, portata nella Dc da quella combinazione a Ciriaco De Mita, e prima ancora ad Amintore Fanfani. Cui Renzi ogni tanto mostra di assomigliare nella fortuna, per quel 40 per cento e più di voti raccolti col Pd post-comunista e post-democristiano nelle elezioni europee del 2014 e per l’ostinazione del “Rieccolo” di montanelliana memoria, ma anche nella sfortuna, cioè nelle sconfitte. Ed è proprio con un ritorno a Fanfani, come vedrete, che si chiuderà questa rievocazione dei “comitati civici” del 1948 in qualche modo imposta dalla quasi riesumazione che ha voluto farne Renzi alla Leopolda, annunciandoli al servizio della “resistenza civile” all’imbarbarimento della politica, e più in generale del Paese, intervenuto con la nascita del governo gialloverde.

Il preambolo è stato lungo, lo so: un interminabile capoverso. Di cui mi scuso con i lettori e col collega che confeziona questa pagina del Dubbio. Ma le osservazioni mi sono uscite così concatenate che quando ho cercato di separarle ho fatto cilecca. Sarà per un’altra volta.

I comitati civici di Renzi nascono all’esterno del Pd e dei suoi circoli statutari, ma con una proiezione interna: come quelli affidati 70 anni fa da Pio XII -e spero che Renzi non si monti ancora di più la testa- a Luigi Gedda. Essi nacquero al di fuori della Dc, ma allo scopo di condizionarne la linea, e persino di prenderne il posto se le circostanze lo avessero consigliato o imposto.

La Dc del 1948 era reduce dai governi di unità nazionale del dopoguerra, archiviati l’anno prima da Alcide De Gasperi, ma anche da Giuseppe Saragat, rispettivamente con la rinuncia a collaborare con i comunisti di Palmiro Togliatti, e i socialisti di Pietro Nenni, e con la scissione socialista consumatasi a Palazzo Barberini proprio sui rapporti col Pci.

Per quanto costretta dalla situazione internazionale, e dalla stessa politica interna prodotta dalle sue scelte, a contrapporsi elettoralmente al cosiddetto fronte popolare delle sinistre, la Dc saldamente guidata da De Gasperi impensieriva il Vaticano. Dove pure l’allora presidente del Consiglio aveva trovato protezione negli anni dell’antifascismo ed era circondato da stima ed affetto ricambiati. Papa Pacelli, Pio XII all’anagrafe pontificia, si lasciò convincere dai cardinali più ansiosi che il buon De Gasperi, nonostante la rottura intervenuta con Togliatti, non fosse abbastanza deciso sul fronte anticomunista, come forse Renzi -speriamo, ripeto, che non si monti troppo la testa- teme che il Pd non lo sia abbastanza sul fronte antigrilloleghista.

A insospettire, anzi ad allarmare certi cardinali di Santa Romana Chiesa era la scelta rigorosamente centrista di De Gasperi, che escludeva alleanze elettorali e poi anche di governo con le destre, nella convinzione che potessero e dovessero bastare le forze della Dc e dei partiti laici minori a sconfiggere il fronte delle sinistre, e in prospettiva a romperlo. Allora Pio XII, non volendo o non potendo utilizzare sul fronte elettorale l’Azione Cattolica, troppo composita e al tempo stesso troppo legata alla Chiesa, allestì come mezzi di soccorso e insieme di stimolo i famosi comitati civici, affidandone la guida e l’organizzazione al vice presidente dell’Azione Cattolica Luigi Gedda, un po’ in dissidenza dal presidente Vittorino Veronese.

Luigi Gedda era un medico veneziano, laureato in Piemonte, consideratosi a torto coinvolto nell’infausto manifesto del 1938 “in difesa della razza”. Egli prese molto sul serio la missione affidatagli dal Vaticano e organizzò i suoi comitati civici su basi parrocchiali e diocesane. Ne nacquero circa ventimila in pochi mesi e parteciparono alla campagna elettorale anticomunista del 1948 come cavallette.

Nonostante la loro derivazione, anzi appartenenza cattolica, i comitati civici vollero e seppero sedurre anche elettori laici invogliandoli a votare per la Dc, aumentandone i voti e al tempo stesso rafforzandone la parte più intransigente nella lotta anticomunista, pur se refrattaria ad operazioni con la destra neofascista del Movimento Sociale, i monarchici e i qualunquisti messi in campo da Guglielmo Giannini.

Il mio compianto amico e maestro Indro Montanelli mi perdonerà dove si sta godendo il riposo e l’eternità se scrivo che il suo famoso invito a metà degli anni Settanta a votare per la Dc in funzione anticomunista, anche a costo di turarsi il naso, e nonostante il Pci di Enrico Berlinguer non fosse esattamente quello di Palmiro Togliatti, era stato sostanzialmente preceduto nel 1948 dall’azione dei comitati civici di Luigi Gedda. Che naturalmente rivendicò il merito nelle elezioni storiche del 18 aprile di quell’anno di avere contribuito ad assicurare alla Dc 12 milioni 741 mila e rotti voti, pari al 48 per cento, contro il 31 raccolto dal “fronte popolare” dei socialisti e comunisti.

Pensate: 12 milioni 741 mila voti alla Dc, 8 milioni 135 mila al Pci, 1 milione 858 mila voti ai socialisti nel 1948. Dopo l’appello di Montanelli nel 1976, l’anno successivo alla forte avanzata del Pci nelle elezioni regionali, la Dc raccolse 14 milioni 209 mila e rotti voti, pari al 38,71 per cento, il Pci di Enrico Berlinguer 12 milioni 615 mila, pari al 34,37 per cento, e il Psi di Francesco De Martino poco più di 3 milioni e mezzo, pari al 9,64 per cento.

Gedda e i cardinali che gli stavano dietro tentarono di investire subito la loro forza nel gioco delle correnti democristiane, ma non riuscirono a intaccarne gli equilibri. De Gasperi, forte dal canto suo di avere dimostrato l’ininfluenza delle destre sul risultato elettorale, rimase fermo nella sua posizione centrista. E non si smosse quattro anni dopo, nel 1952, quando Gedda, nel frattempo spinto dal Papa anche alla presidenza dell’Azione Cattolica, propose per le elezioni comunali di Roma l’alleanza della Dc con le destre.

De Gasperi non volle arrendersi neppure di fronte al nome prestigioso di don Luigi Sturzo, il progenitore della Dc con la fondazione del Partito Popolare, che obbedendo al Vaticano si era reso disponibile a contrapporsi a Francesco Saverio Nitti, messosi alla bella età di 84 anni a capo del blocco delle sinistre. Il presidente del Consiglio sfidò la Curia stringendosi agli alleati centristi di governo per evitare da soli che il Campidoglio fosse conquistato dai “cosacchi”, temuti già nel 1948 oltre Tevere.

Il Papa, per quanto o forse proprio perché De Gasperi alla fine dimostrò di avere ragione, avendo le sinistre perduto la battaglia capitolina, non gliela perdonò. Fra l’altro, gli negò un’udienza familiare che De Gasperi gli aveva chiesto, tramite Giulio Andreotti, in occasione del trentesimo anniversario delle sue nozze. Anche di quella delusione, oltre che delle sofferenze procurategli all’interno della Dc dal gioco delle correnti, in particolare dalla smania di Amintore Fanfani di scalare il vertice del partito, lo statista sarebbe morto dopo due anni, nell’estate del 1954.

In Vaticano ne ebbero forse rimorso, visto che a De Gasperi fu destinata per la tomba la Basilica di San Lorenzo al Verano, per la cui ricostruzione, dopo i danni del bombardamento americano del 1943, egli si era personalmente prodigato come presidente del Consiglio. Le sue ossa in questi giorni  si saranno probabilmente rivoltate nel sarcofago che le contiene nell’atrio della Basilica  per la fine del suo Trentino bianco, conquistato elettoralmente dalla Lega di Matteo Salvini, il leader del sovranismo all’assalto politico dell’Europa. Il cui processo unitario però -bisogna dire anche questo- si è sviluppato, nell’impatto con la crisi economica e col fenomeno dell’immigrazione, senza quello spirito solidaristico sognato negli anni del pionierismo europeo proprio da De Gasperi in Italia, da Konrad Adenauer nella Germania ancora divisa e da Robert Schuman in Francia.

La Lega, del resto, sta completando con Salvini al Nord l’assorbimento dello spazio elettorale e sociale che fu della Dc, a lungo occupato, dopo la caduta della cosiddetta prima Repubblica, da Silvio Berlusconi con Forza Italia, prima che ne sopraggiungesse il declino.

Ma torniamo alla nostra storia. Nel dopo-De Gasperi ma ancor più nel dopo-Pio XII, morto nel 1958, i comitati civici di Gedda non trovarono terreno fertile per la loro azione di vigilanza o interferenza nelle scelte democristiane. Non vi riuscirono neppure quando la preparazione del centrosinistra, esaurita davvero la fase centrista, li allarmò e li rimise in qualche modo in azione, naturalmente per contrastare l’apertura ai socialisti.

Giovanni XXIII era di sensibilità diversa da Papa Pacelli. E Aldo Moro, sopraggiunto a Fanfani alla segreteria della Dc nel 1959, si mosse nella direzione del Psi mescolando coraggio e accortezza. Prima ancora di proporre il centrosinistra al congresso scudocrociato di Napoli, nel 1962, egli aveva voluto consultare, e convincere, quasi uno per uno tutti i vescovi italiani, sgonfiando in qualche modo le gomme all’auto di Gedda, per quanto quest’ultimo fosse riuscito a strappare una volta una nota preoccupata per lo sviluppo della situazione politica italiana sull’Osservatore Romano. Che ridiede un po’ fiato ai centristi di Mario Scelba nella Dc, ma durò poco.

Moro condusse il processo di avvicinamento ai socialisti per un’alleanza di governo, facendone sperimentare prima l’astensione da Fanfani con un governo monocolore delle cosiddette convergenze parallele, cui ne seguì uno tripartito, con il Psdi e il Pri, appoggiato esternamente dal Psi, con tale gradualità e astuzia da spiazzare tutti.  Una volta egli chiuse la riunione della direzione della Dc annunciando l’approvazione di un documento politico “con le consuete riserve” della corrente centrista. Levatosi Scelba a parlare per precisare di non avere nulla da eccepire sul documento predisposto dal segretario del partito, Moro gli disse: “D’accordo, ma è più opportuno che voi vi asteniate”. Gli serviva, evidentemente, nella conduzione delle trattative con i socialisti.

Una decina d’anni dopo arrivò il passaggio politicamente scabrosissimo, per la Dc, della legge istitutiva del divorzio, promossa in tandem dai liberali e dai socialisti. Arnaldo Forlani, dall’autunno del 1969 segretario della Dc, la fece passare, pur col voto contrario dei democristiani, senza compromettere l’alleanza di governo con i socialisti, a condizione che fosse garantito il ricorso al referendum abrogativo, previsto dalla Costituzione ma non ancora disciplinato per legge, e quindi impraticabile. E così avvenne.

Ciò indusse Gedda a riattivare col più giovane, o meno anziano, Gabrio Lombardi i comitati civici per la raccolta delle cinquecentomila firme necessarie alla richiesta di referendum, pensando forse di cavalcare l’azione di contrasto al divorzio anche per ritentare il condizionamento politico dello scudo crociato. Ma il segretario della Dc astutamente si sottrasse, adoperandosi perché il referendum, indetto per la primavera del 1972, fosse rinviato, anche a costo di ricorrere alle elezioni anticipate. Che restituirono per due anni alle forze politiche la possibilità di tentare la modifica parlamentare della legge sul divorzio, ed evitare il conseguente rischio politico di spaccare su quel tema il Paese e lo stesso elettorato democristiano.

Fanfani, tornato alla segreteria della Dc nel 1973 scalzando il suo ormai ex delfino Forlani, di fatto non assecondò il tentativo di scongiurare il referendum rinviato al 1974. Spalancò metaforicamente le porte del partito alla nuova edizione, diciamo così, dei comitati civici e guidò il partito in una battaglia destinata ad una disastrosa sconfitta. I cui risultati finirono per terremotare l’intero quadro politico e  fare costruire, sul mito ormai caduto della invincibilità della Democrazia Cristiana, nuovi equilibri, nuove formule.

Il Pci sfiorò il sorpasso sulla Dc, come ho già ricordato, nelle elezioni regionali del 1975. E, nonostante il recupero del 1976 col voto a naso montanellianamente turato, la Dc fu costretta prima a cercare l’appoggio dei comunisti ai suoi governi monocolori guidati da Andreotti e poi a recuperare la collaborazione con i socialisti e i laici a un prezzo impensabile prima del referendum sul divorzio: una concezione talmente paritaria dei rapporti con gli alleati da lasciare loro la guida del governo. Ciò avvenne prima col repubblicano Giovanni Spadolini, nel 1981, e poi col socialista Bettino Craxi, nel 1983.

costò a Fanfani, l’anno dopo, la segreteria della Dc e ai comitati civici la sopravvivenza.  D’altronde, neppure quelli dell’immaginifico Renzi, obiettivamente, potrebbero loro assomigliare, anche se imprudentemente l’ex segretario del Pd, volente o nolente,  ha finito per rievocarli, o lasciarli rievocare.

 

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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