Il presidente del Consiglio fa l’indiano di fronte alle difficoltà del suo governo

               Di ritorno da Nuova Delhi, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha trovato la situazione politica, ma più in particolare quella del suo governo gialloverde, peggiorata rispetto a quella già difficile della partenza. Ma vi ha reagito facendo un po’ l’indiano: tutto previsto e tutto sotto controllo, secondo lui, anche la crescita zero del prodotto interno lordo appena annunciata dall’Istat per il terzo trimestre di quest’anno, il primo gestito dall’esecutivo del “cambiamento”.

           Ruspa e Pil.jpgSarebbe stata presa proprio in previsione di questo risultato la decisione del governo di varare una manovra finanziaria in maggiore deficit, utile ad una prospettiva di ripresa, secondo il presidente del Consiglio. Che pertanto non condivide le preoccupazioni e quant’altro dell’Unione Europea, da cui è appena giunta un’altra lettera critica sul debito pubblico, firmata peraltro dal direttore italiano degli affari economici della Commissione di Bruxelles. Di lui probabilmente il vice presidente grillino del Consiglio, Luigi Di Maio, ripeterà quello che ha già detto del presidente, sempre italiano, della Banca Centrale Europea: un “avvelenatore del clima” politico, economico, finanziario.

            Lo spread, il mostro dei mercati di cui scoprimmo l’esistenza sette anni fa, quando divorò in poche settimane l’ultimo governo di Silvio Berlusconi, è tornato a salire oltre i 300 punti ? Previsto anche quello, forse, per il presidente del Consiglio. Che continua a scommettere sulla sua discesa, prima o dopo.

            Il governo rischia l’incidente, e la crisi, al Senato, dove i numeri sono scarsi, sulla conversione in legge del decreto per la sicurezza fortemente voluto dal vice presidente leghista del Consiglio e ministro dell’Interno Matteo Salvini? Nulla di preoccupante, secondo Conte. Che prima ancora dell’appello e un po’ anche delle minacce ai dissidenti grillini, refrattari alla “testuggine” invocata dallo stesso Di Maio, si era mobilitato chiamando a Palazzo Chigi il senatore pentastellato Gregorio De Falco, comandante di carriera delle Capitanerie di Porto ed ora, volente o nolente, anche della dissidenza grillina contro il decreto Salvini.

            Lo stesso De Falco ha appena raccontato l’incontro con una intervista rivelando di avere concesso a Conte la rinuncia a 16 dei 24 emendamenti al decreto della sicurezza proposti a Palazzo Madama. Ma gli otto rimanenti continuano a bastare e ad avanzare per far saltare i nervi, umanamente e politicamente, a Salvini. Che già è agitato di suo per gli aspetti economici dell’azione di governo, costretto a prendere atto che di piatto è rimasto il pil nel terzo trimestre, dopo il tramonto della tassa piatta da lui promessa agli elettori. Non parliamo poi delle grandi opere minacciate al Nord dai grillini dopo avere dovuto ingoiare la Tap al Sud, fra proteste e roghi di bandiere stellate e di tessere elettorali.

            De Falco.jpgMa torniamo al comandante De Falco prestatosi alla politica. Egli ha detto del presidente del Consiglio, dopo l’incontro, di esserne rimasto “impressionato” per la sua “rapidità di pensiero”. Cui però non corrisponderebbe la necessaria rapidità di “atti concreti”. E questo è un problema per uno come Di Falco, diventato famoso in Italia, ma anche all’estero, per lo scontro in diretta televisiva, o quasi, che ebbe all’epoca del naufragio della Concordia davanti all’isola toscana del Giglio.

            Al comandante della nave, Francesco Schettino, che di concreto aveva appena compiuto lo sbarco personale, mentre centinaia di passeggeri continuavano ad essere in pericolo e altri erano già morti, De Falco ordinò dalla Capitaneria di Porto di Livorno di risalire a bordo, rafforzando la disposizione con una parolaccia, alla grillina, che un po’ ne fece la fortuna mediatica, e poi anche politica.

            Non vorrei che finisse così anche il rapporto avviato fra De Falco e il presidente del Consiglio. Quello con entrambi i vice presidenti mi sembra già compromesso.

Il tramonto del modello moroteo dei “due vincitori” condannati ad accordarsi

Pur così diverse, apparentemente imparagonabili, le crisi per ora virtuali dei governi a Roma e a Berlino, dove neppure Angela Merkel è peraltro sfuggita alla maledizione del quarto mandato dei suoi illustri predecessori Konrad Adenauer ed Helmut Kohl, sembrano segnare la fine del teorema di Aldo Moro sui “due vincitori” obbligati ad accordarsi dopo le elezioni, quando la partita delle urne si è chiusa senza che né l’uno né l’altro siano autosufficienti.

Ciò accadde in Italia nel 1976 ai democristiani, dello stesso Moro e di Giulio Andreotti, e ai comunisti di Enrico Berlinguer, accordatisi perciò  all’insegna dell’emergenza e della solidarietà nazionale, come fu chiamata la maggioranza che ne derivò in Parlamento. E si è in qualche modo ripetuto in questo 2018 con i grillini e i leghisti alla fine di una crisi gestita, forse non a caso, da un capo dello Stato di formazione e cultura morotea come Sergio Mattarella.

Diversamente dagli omologhi di una quarantina d’anni fa, grillini e leghisti, a dispetto anche dei conflitti dai quali escono solo per rientrarvi il giorno dopo, si sono proposti di far durare la loro alleanza per tutta la legislatura, sino al 2023. “Fatevene una ragione”, ha detto il presidente del Consiglio Giuseppe Conte parlando al recente raduno nazionale dei pentastellati al Circo Massimo.

Più modestamente, prudentemente, realisticamente, come preferite, democristiani e comunisti, pur avendo raccolto insieme circa il 70 per cento dei voti, contro il poco più del 50 per cento dei gialloverdi nelle urne del 4 marzo scorso, si erano dati una scadenza di due anni e mezzo. Tanti ne mancavano allora alla fine del mandato di Giovanni Leone al Quirinale, attorno alla cui successione si sarebbero ridefiniti gli equilibri politici secondo la parte una volta segreta ma poi rivelata degli accordi fra Moro e Berlinguer.

Per inciso, e per la eventuale curiosità di chi  mi legge senza essere un addetto ai lavori, il mandato dell’attuale presidente della Repubblica scadrà nel 2022, quindi al quarto e penultimo anno della legislatura corrente. Forse Beppe Grillo, il “garante”, l'”elevato”, e non so cos’altro nel suo movimento sogna di condividere con Matteo Salvini la regia della prossima edizione della corsa al Quirinale.

In Germania i “due vincitori” delle elezioni sono stati per molti anni i democristiani e i socialdemocratici, uniti poi nei governi di “grande coalizione”. L’ultimo dei quali, quello in carica, è stato formato con particolari difficoltà e sta costando parecchio ad entrambi i protagonisti, che perdono voti ad ogni consultazione locale, ultimamente in Baviera e in Assia.

Che cosa ha messo in crisi, se non addirittura archiviato, la teoria di Moro dei due vincitori condannati a governare insieme dal dovere di garantire il sistema? Forse proprio la crisi del sistema, non più avvertito come qualcosa di sacrale per la sopraggiunta miscela esplosiva di sovranismo e populismo.

Il sovranismo, a dire la verità, dovrebbe accentuare e non ridurre l’attaccamento al sistema, e quindi la sua difesa. Ma di questo i sovranisti, almeno quelli di casa nostra, non sono consapevoli, forse perché sentono il sistema nel frattempo corrotto, distorto e quant’altro dai trattati europei, o almeno dall’applicazione che ne è stata fatta. E che si è tradotta, almeno secondo la percezione più diffusa, nel predominio dei Paesi più forti e/o più ricchi sugli altri, fra i quali l’Italia è stata classificata, a torto o a ragione, a causa del suo enorme debito pubblico.

In un tale sistema pertanto i sovranisti italiani, alla Salvini e simili, non si riconoscono. E di difenderlo non hanno alcuna voglia, anche se buona parte del loro elettorato ne avrebbe bisogno per continuare a guadagnare, come nel Nord Est, o per cominciare a farlo, come nel Sud, uscendo dal sempre accidentato e insufficiente assistenzialismo. Che però i grillini, alleati dei leghisti, intendono rafforzare col cosiddetto reddito di cittadinanza, illudendosi ch’esso possa bastare, o serva addirittura ad eliminare la povertà. Vasto programma, avrebbe detto il generale Charles De Gaulle con la sovrana ironia che lo distingueva.

Il populismo, dal canto suo, é in conflitto quasi genetico col sistema. Lo è in quanto il richiamo ossessivo al popolo nasconde una realtà ben diversa dalle parole. Il populismo fa rima col qualunquismo più che con l’altruismo, e quindi con la solidarietà. Il populismo altro non è che un egoismo travestito, la somma di tanti egoismi, localismi e siamili, ciascuno dei quali si confonde col popolo, o presume di rappresentarlo meglio di altri.

Pensateci bene. Da pugliese vi dico che i miei conterranei di Melendugno, precipitatisi  a votare il 4 marzo scorso per i grillini che li avevano illusi di sopprimere o dirottare chissà dove il gasdotto transadriatico noto come Tap, difendono l’integrità ambientale e quant’altro della loro spiaggia Santa Foca perché li identificano con quelli del popolo, che però, ripeto, non va oltre i loro confini. Il guadagno che potrebbe derivare dall’opera anche alla loro collettività da un’energia meno costosa e dalle misure “compensative” dei danni che accompagneranno l’approdo del gasdotto nel territorio salentino non è minimamente avvertito da chi, sentendosi popolo, esaurisce tutto nelle proprie dimensioni.

D’altronde, come in nome della Patria, anche in quello del Popolo, con la maiuscola, sono stati compiuti sempre e dappertutto i peggiori misfatti.

Al di là di un sistema, e persino contro, quando non lo si riconosce più o lo si combatte ritenendolo solo al servizio di privilegi, intesi anche come diritti acquisiti grazie a scandalose concessioni dei governi precedenti, il populismo diventa solo avventurismo.

In un contesto del genere, che comincia a sconfinare ben oltre le Alpi, e gli stessi oceani, il già ricordato, e da me rimpianto, teorema di Moro dei due vincitori destinati a governare insieme col senso della responsabilità e della misura sembra purtroppo aver fatto davvero il suo tempo. A vantaggio di chi o di cosa francamente non so neppure immaginare, tanto forse ne ho paura.

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

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