La bruciante sconfitta di Matteo Salvini nella manovra fiscale di Luigi Di Maio

            Altro che il pareggio annunciato dai volenterosi, o buonisti, alla fine della partita della manovra fiscale giocata nella maggioranza fra grillini e leghisti, ma più in particolare fra i vice presidenti del Consiglio Luigi Di Maio e Matteo Salvini.

            In realtà, quest’ultimo è stato soronamente battuto dal suo alleato ma concorrente: di una concorrenza pari alla rivalità, se si considera la posta in gioco fra i capi del movimento 5 Stelle, per ora, e della Lega.

            In gioco è, in particolare, la successione all’attuale governo gialloverde, transitorio a dispetto della forte maggioranza di cui dispone in Parlamento, della luna di miele che, a torto o a ragione, molti intravedono nei sondaggi e della debolezza delle opposizioni: sia quella di centro rappresentata da Forza Italia a livello nazionale, essendo il centrodestra ancora operante a livello locale, sia quella di sinistra rappresentata da un Pd incapace di affrancarsi dalle sue lotte interne. Che ne hanno determinato la dura sconfitta elettorale molto più dei sicuri errori di gestione, e temperamento, compiuti dal suo ex segretario Matteo Renzi.

             Quando finirà la corsa di questo governo, non abbastanza coeso, quanto a programma e a riferimenti sociali, per durare tutta la legislatura, si vivrà -vedremo in che modo e con quali reali rapporti di forza, con chi all’opposizione e chi al comando – il nuovo bipolarismo italiano sbocciato dalle elezioni del 4 marzo scorso.

            Nelle curve finali e al traguardo della manovra fiscale Luigi Di Maio ha rimontato tutto, o quasi, lo svantaggio accumulato nei primi mesi dell’esperienza governativa gialloverde rispetto a Salvini. Il grillino ha presentato e fatto pagare al leader leghista di un fiato il conto di tutto lo spazio lasciatogli sul terreno dell’immigrazione e della sicurezza. Gli ha svuotato praticamente la cosiddetta flat tax, gli ha ridotto ai minimi termini il condono fiscale, che peraltro non ha neppure il diritto di chiamarsi così.  E gli ha strappato la soglia di difesa delle pensioni alte, chiamate ridicolmente d’oro, dai 5000 euro concordati nel contratto di governo a 4500. Che è una riduzione del 10 per cento, e un conseguente aumento dei tagli che dovranno subire i percettori. Di cui si continua a reclamare ciò che si sa materialmente impossibile per una serie di ragioni tecniche e giuridiche: il ricalcolo col metodo contributivo. In realtà, si eseguiranno tagli a prescindere dai contributi, ma in base all’età in cui si è andati in pensione, inferiore a quella oggi permessa ma perfettamente legittima ai tempi dell’uscita dal lavoro.

            Di Maio ha tentato in materia di tagli alle pensioni del ceto medio-alto, che sono tutt’altra cosa rispetto alle pensioni veramente d’oro dei ventimila, trentamila, quarantamila e persino cinquantamila euro mensili, persino l’uso del decreto legge. Cui egli è stato costretto a rinunciare non per le resistenze di Salvini, deboli quanto le altre, ma per i dubbi di costituzionalità espressi dall’indisponibile presidente della Repubblica nella sua attività di persuasione morale, dietro le quinte.

            Il percorso parlamentare dei tagli, inseriti nel bilancio del 2019, sarebbe comunque rimasto privilegiato, cioè rapido, per un ricorso al regolamento che il partito di Salvini aveva permesso, votandolo.

            L’unica concessione che Di Maio ha fatto a Salvini, in cambio della sostanziale resa dei leghisti al carattere assistenziale e all’onerosità del cosiddetto reddito di cittadinanza vendutosi dai grillini nella campagna elettorale, è la cosiddetta quota 100 dell’accesso alla pensione, possibile da febbraio a 62 anni di età con 38 di contributi. Ma è una concessione avvelenata, perché la insostenibilità finanziaria di questa riforma, o “cancellazione” della odiatissima legge Fornero, è destinata per quasi unanime valutazione degli esperti ad emergere prima ancora di quella del reddito di cittadinanza. E Salvini dovrà assumersene e portarne tutta la responsabilità, con i conseguenti effetti elettorali, sicuramente successivi all’appuntamento della prossima primavera con le urne per il rinnovo del Parlamento europeo, ma non per questo abbastanza lontani da superare anche la scadenza ordinaria della legislatura.

            Titolo del Fatto.jpgPer ora il leader leghista, facendo buon viso a cattivo gioco, sorride e si gratta la fronte. Di Maio invece ride e basta, confortato dai convergenti titoli del Fatto Quotidiano e del Giornale della famiglia Berlusconi, che gli attribuiscono, francamente non a torto, la vittoria in questa partita della manovra fiscale. La quale  comunque dovrà ora affrontare i marosi della Commissione europea e dei mercati finanziari.

 

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Il merito che Salvini non sa di avere è la piazza di Riace contro un pubblico ministero

Può darsi che, da pensionato d’oro assai presunto, e in pieno conflitto d’interessi, come si dice, dovrò coltivare risentimento personale nei riguardi di Matteo Salvini per le troppo deboli e contraddittorie resistenze opposte, sino al momento in cui scrivo, alla falce impugnata dai grillini. Che hanno ora annunciato di bloccare anche le rivalutazioni delle pensioni auree in relazione al costo della vita, non sapendo che esse ne sono di fatto già escluse da parecchio tempo, per cui    il presunto oro ha perso carati per strada. Ma rimarrò ugualmente grato a Salvini, da giornalista impegnato sul fronte garantista, del fatto di avermi procurato finalmente, per quanto involontariamente, lo spettacolo di una dimostrazione di protesta contro una Procura della Repubblica, e ,in difesa di un indagato finito pure agli arresti, per quanto domiciliari: il sindaco di Riace Domenico Lucano, Mimmo per gli amici e per gli immigrati che ha saputo accogliere e integrare nel suo piccolo e quasi disabitato Comune calabrese, noto però in tutto il mondo per i due guerrieri greci di bronzo recuperati nelle sue acque 46 anni fa.

Peccato che il centinaio di immigrati ora presenti a Riace rischino, se non saranno salvati dal Tar cui il Comune ha annunciato di ricorrere, di doversene andare per una circolare appena emessa dal Viminale. Dove hanno precisato con involontaria ironia che il trasferimento sarà non coatto ma “volontario”, al prezzo però di perdere ogni forma di assistenza in caso di rifiuto di una nuova destinazione. Il carattere volontario, ripeto, del trasferimento diventa così un ossimoro come l’obbligo “flessibile” di vaccinazione adottato nei mesi scorsi dal governo, alla vigilia del nuovo anno scolastico.

Alla notizia dell’arresto del sindaco di Riace, disposto dal giudice competente tagliando però drasticamente l’elenco dei reati proposto dal pubblico ministero, il ministro dell’Interno ritenne di reagire con un “ciaone” di glaudio quanto meno inopportuno per un membro del governo legato al giuramento di fedeltà ad una Costituzione che ancora contiene il principio della presunzione di non colpevolezza, cioè di innocenza, di un imputato sino a condanna definitiva.

D’accordo, nella cosiddetta prima Repubblica era accaduto anche di peggio, con ministri e persino capi dello Stato esultanti per l’arresto di un sospettato, fra le proteste politiche e istituzionali della sola opposizione comunista,e per fortuna ancora garantista. Ma di acqua ne è passata da allora sotto i ponti, persino quella degli anni orribili e terribili di “Mani pulite”, per cui Salvini farebbe male a difendersi con quei precedenti.

A dimostrazione della tanta acqua passata sotto i ponti, proprio dopo il “ciaone” del ministro dell’Interno al sindaco di Riace appena arrestato fu possibile una reazione inusuale come un raduno popolare di protesta non solo contro Salvini, ma anche contro la magistratura che egli aveva apprezzato, diversamente da quelle di Agrigento e di Palermo. Che nelle settimane precedenti gli avevano riservato la sorpresa -si fa per dire- di un procedimento penale, sulla corsia protetta del cosiddetto tribunale dei ministri, per la vicenda della nave Diciotti. Di cui il ministro dovrà rispondere con l’imputazione di sequestro aggravato degli immigrati trattenuti per alcuni giorni sul pattugliatore della Guardia Costiera nel mare e infine nel porto di Catania.

Neppure con quella reazione diretta, in Facebook, dal suo ufficio al Viminale, opponendo la sua legittimità elettorale a quella meramente burocratica o amministrativa della magistratura, Salvini riuscì a scaldare i cuori dei suoi sostenitori, spingendoli alla protesta ad Agrigento o a Palermo contro le rispettive Procure. Come invece sarebbe riuscito a fare poi, a sua insaputa o in autorete, con la vicenda di Riace provocando una dimostrazione di protesta anti giudiziaria.

Per uno come me, immemore di quei cortei per le strade di Milano, e sotto le finestre del tribunale, di dimostranti in maglietta che chiedevano, in particolare all’allora sostituto procuratore Antonio Di Pietro, di “sognare” le manette ai polsi  della maggior parte possibile di politici o politicanti, la svolta di Riace è stata una festa. Della quale, ripeto, non sarò mai grato abbastanza a Salvini.

Mi corre tuttavia l’obbligo di ricordare che di quei cortei milanesi finì per preoccuparsi con pubbliche dichiarazioni persino l’insospettabile capo della Procura Francesco Saverio Borrelli. Che non a caso dopo un po’ d’anni avrebbe chiesto “scusa” agli italiani per il terremoto politico procurato inutilmente al Paese guidando l’operazione “Mani pulite”. E si sarebbe perciò guadagnato il ringraziamento di una delle vittime di quella stagione: il socialista Claudio Martelli, che già lo stesso Borrelli aveva definito “il migliore ministro della Giustizia” che avesse visto all’opera da magistrato.

 

 

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