La solitudine degli elettori, senza più Baglioni, e neppure il Carnevale….

            Ora che si è concluso il diversivo, chiamiamolo così, del festival sanremese di Claudio Baglioni, vero vincitore del concorso canoro, e siamo a soli due giorni dalla fine pure del Carnevale, salvo il privilegio dei fedeli di rito ambrosiano, che potranno goderselo sino a sabato 17 febbraio, agli italiani resta solo lo spettacolo della campagna elettorale per il voto del 4 marzo. Che servirà a rinnovare le Camere, e basta, non ad eleggere il nuovo governo, a cominciare dal presidente del Consiglio, come per 24 anni si è lasciato credere scambiando per maggioritario un sistema elettorale che non è mai stato tale, ma al massimo un misto di proporzionale e maggioritario. E tanto meno si eleggerà una nuova maggioranza, lasciando al capo dello Stato solo il compito di scegliere all’interno di questa l’uomo adatto ad essere nominato presidente del Consiglio.

            La legge elettorale in vigore, nota col nome latinizzato del capogruppo uscente del Pd alla Camera, Ettore Rosato, è stata in fondo concepita apposta perché nessuno, sia da solo, come nel caso del movimento grillino delle 5 stelle, sia in coalizione, come gli altri, esca dalle urne disponendo della maggioranza assoluta dei seggi parlamentari. Che è necessaria sulla carta, prevedendo il pieno delle assemblee parlamentari, per garantire la fiducia di entrambe le Camere al governo, anche se poi, di volta in volta, quando il governo deve o può essere sottoposto alla prova appunto della fiducia, basterebbe a concedergliela la maggioranza dei presenti e votanti. Pertanto qualcuno potrebbe dall’opposizione condizionare l’esito della votazione di fiducia col gioco delle assenze. Ma un governo che nascesse con la pretesa di vivere in questo modo, cioè scommettendo sull’aiuto saltuario di qualche pezzo dell’opposizione, sarebbe di fatto un governo di minoranza. Così sarebbe stato quello tentato nel 2013 dall’allora segretario del Pd Pier Luigi Bersani, puntando sulla benevolenza dei grillini. Ma l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano non lo permise, negando a Bersani la nomina.

            Analogo rifiuto è prevedibile da parte del successore di Napolitano, cioè Sergio Mattarella, se a parti rovesciate fossero i grillini a reclamare l’operazione contando sulla maggiore consistenza dei propri gruppi parlamentari rispetto all’ex partito di Bersani, il Pd, o al nuovo. Che è quello dei Liberi e Uguali col braccialetto di Pietro Grasso al polso, quanto meno diviso sulla prospettiva di un soccorso al movimento dei 5 stelle. O anche rispetto ai leghisti, dove qualche pulsione a favore dei grillini si avverte di tanto in tanto, per quanto Matteo Salvini partecipi alle elezioni in coalizione con Silvio Berlusconi, che non è candidabile ma ha proposto i candidati della sua Forza Italia come gli antagonisti principali dei pentastellati.

            Già descritta la situazione in questi termini, che sono quelli reali, viene un po’ il capogiro, com’è accaduto l’altro ieri ad una giornalista della BBC, che mi chiedeva, sfiduciata, come avrebbe potuto raccontare e spiegare al pubblico inglese un simile scenario politico. Nel quale non sarebbe neppure azzardato immaginare Berlusconi che di giorno guida la coalizione di centrodestra, ne minimizza i contrasti interni e ne annuncia una vittoria certa, anche in termini di maggioranza assoluta dei seggi parlamentari, e di notte prega la Madonna di evitargli l’avventura di governare, sia pure per interposta persona a Palazzo Chigi, in perenne trattativa con un alleato come Salvini, essendogli più facile, e forse anche più gradito, accordarsi invece con l’altro Matteo. Che è naturalmente Renzi.

            La solitudine o lo sconcerto degli elettori italiani, e non solo del pubblico inglese, di fronte a questi problemi è comprensibile. Spero che non abbia ragione il mio vecchio amico Rino Formica -diventato un inguaribile pessimista dopo avere dovuto rimpiangere anche gli anni dei “nani e ballerine” che lui denunciava tra le fila del suo partito socialista al governo- a prevedere che le alte percentuali d’ascolto del festival di Sanremo appena concluso finiscano per coincidere il 4 marzo con quelle degli astenuti dal voto.

           

Le buone notizie da Berlino scambiate per cattive in Italia

            Cattive notizie da Berlino, si sono affrettati a dire e a scrivere con un certo compiacimento in Italia gli ostili alle cosiddette larghe intese commentando le tensioni esistenti fra i socialdemocratici tedeschi, dopo l’accordo raggiunto fra i loro dirigenti e i democristiani per la formazione del nuovo governo di grande coalizione guidato dalla cancelliera uscente Angela Merkel. Vedete che non funzionano queste operazioni politiche fra diversi ?, è la domanda sottintesa alle reazioni romane, di destra e di sinistra, all’annuncio dell’imprevista rinuncia del socialdemocratico Martin Schulz, ex presidente del Parlamento europeo, ad assumere  la guida degli Affari Esteri nella nuova combinazione ministeriale.

            Questa rinuncia è, al contrario, una buona notizia ai fini della nuova edizione della grande coalizione tedesca perché ne facilita l’approvazione da parte della base del partito socialdemocratico nel referendum interno che si svolgerà dal 20 febbraio al 2 marzo. Vi parteciperanno i 463.723 risultati iscritti alla data del 6 febbraio scorso.

            Come sempre accade in queste occasioni, a protestare di più, e più insidiosamente, contro gli accordi sono quelli che non ne ricavano vantaggi diretti sul piano personale, subendone anzi i danni. In questo caso Schulz ha giustamente considerato pericolose le proteste levatesi contro le trattative con i democristiani e i loro risultati dal compagno di partito Sigmar Gabriel. Che è il ministro uscente degli Esteri, poco contento evidentemente di dover lasciare il posto a Schulz. Che, pur di smontare la campagna condotta da Gabriel contro di lui, colpevole di avere prima escluso e poi trattato una riedizione del governo con i democristiani su sollecitazione del presidente della Repubblica, anche lui socialdemocratico e preoccupato dell’instabilità tedesca dopo il fallimento del negoziato fra democristiani, liberali e verdi, non ci ha pensato un attimo a togliere dal tavolo, o fra i piedi, l’oggetto vero della contesa. E si è quindi tirato indietro, non per sabotare la ratifica dell’accordo da parte della base ma per facilitarla, dicendo di voler chiudere così “il dibattito sul personale”.

            Da questo fatto emerge un’altra differenza fra la sinistra tedesca e quella italiana, o fra la socialdemocrazia tedesca e quella italiana, per essere più precisi e per prendere per buono l’approdo socialdemocratico vantato dai post-comunisti italiani nel passaggio dal Pci al Pds, e poi dal Pds ai Ds, e infine al Pd.

            In Germania la sinistra ha uno Schulz che si rottama, o quasi, da solo per portare avanti il progetto di una sinistra di governo, e non di mera e rovinosa opposizione, con lo sguardo rivolto più all’avvenire che al passato, anche a costo di perdere un po’ di voti.

           In Italia la sinistra ha avuto e ha invece un D’Alema –Massimo solo nel nome- che prima finge di fare un passo indietro non ricandidandosi volontariamente alle elezioni nel 2013,  dopo una  vita di onori più che di oneri, avendo scalato con successo segreteria del partito, presidenza del Consiglio, Farnesina e quant’altro, e poi spacca il partito e ne fa un altro per cercare di recuperare le posizioni perdute. Cioè per risentimento o vendetta, come hanno avvertito in molti fra le sue sdegnate smentite e proteste. Il cui tasso di credibilità sarà verificato la sera del 4 marzo, quando si conoscerà la percentuale elettorale dei Liberi e Uguali  di D’Alema, Pier Luigi Bersani  e compagni, guidati per il momento dal presidente uscente del Senato, e perciò terminale, Pietro Grasso.                

Il concorrente mancato di Paolo Gentiloni. Sarà per la prossima volta…

            Purtroppo o per fortuna, secondo i gusti, i termini per la presentazione delle liste dei candidati alle elezioni politiche del 4 marzo sono scaduti da un pezzo. E non c’è verso di farli riaprire, neppure da Silvio Berlusconi, che pure secondo i sondaggi che stanno facendo impazzire quelli del Fatto Quotidiano sarebbe tornato a camminare sulle acque, come ai tempi migliori, quando le mamme lo pregavano di guarire i figli ammalati, o i poveri di farli diventare ricchi.

            “L’Italia di Baglioni”, ha titolato Il Messaggero in prima pagina con tanto di corredo fotografico inneggiando al successo del direttore artistico e conduttore del Festival canoro di Sanremo. Che  è riuscito anche nell’edizione di questo anno a tenere incollato ai televisori        mezzo Paese, inutilmente richiamato all’ordine dall’anatema di “rincoglionito” gridatogli dal deputato uscente e non rientrante dei grillini Alessandro Di Battista, Dibba per gli amici e ammiratori di ambo i sessi.

            Altro che Gentiloni, il presidente del Consiglio uscente e probabilmente rientrante che fra i politici è riuscito a conquistare il più alto gradimento nei sondaggi elettorali. E sulla cui popolarità sembra che Matteo Renzi conti molto per evitare al Pd il naufragio che tutti i suoi nemici gli hanno augurato di cuore.

            Altro che Gentiloni, dicevo, col quale peraltro Baglioni fa anche rima. E’ il sessantaseienne cantautore che guida il festival di Sanremo l’uomo del pieno dei consensi popolari. Gli manca solo un partito e una lista. Sarà per la prossima volta, magari l’anno prossimo di questi tempi, se il nuovo Parlamento non avrà trovato nel frattempo un governo al quale poter concedere la fiducia ancora obbligatoria tanto alla Camera quanto al Senato per la Costituzione sopravvissuta alla riforma tentata da Renzi. E naufragata fra le preghiere e infine il sollievo persino del cardinale Camillo Ruini per ragioni che Sua Eminenza ha voluto tenersi per sé nella intervista-scoop appena concessa al Corriere della Sera. Che avrà forse aumentato l’imbarazzo di Massimo D’Alema, già costretto a condividere con l’odiato Berlusconi il merito della sconfitta referendaria inferta a Renzi il 4 dicembre del 2016.

La fortuna a Berlino di avere una vera sinistra di governo

            Che cosa hanno di più o di diverso i tedeschi rispetto agli italiani per meritarsi in un solo giorno due buone notizie come un nuovo accordo di governo fra democristiani e socialdemocratici, sia pure dopo quasi cinque mesi dalle elezioni, e la sperimentazione della settimana lavorativa di 28 ore, anziché 35? Fra le altre cose, la fortuna di avere da qualche tempo una sinistra vera di governo. Che quando sbanda e si arrocca, com’è accaduto all’indomani della sconfitta elettorale di settembre annunciando che non avrebbe più fatto governi con i democristiani, a costo di aprire una stagione pericolosa di instabilità, per pentirsene e correggersi non ha bisogno di una ventina d’anni. Che sono invece il tempo medio impiegato dalla sinistra italiana per rendersi conto dei propri errori. E fare quindi l’autocritica, se la fa, quando non serve più.

            Una ventina d’anni, per esempio, occorsero al maggiore partito della sinistra italiana, il Pci nel frattempo trasformatosi in altre sigle o “ditte”, come le chiamava Pier Luigi Bersani, per accorgersi dell’errore compiuto col referendum del 1985 contro i modestissimi tagli apportati alla scala mobile dei salari- per giunta da un governo presieduto da un socialista, Bettino Craxi-  per riportare sotto controllo un’inflazione che divorava letteralmente i salari, specie quelli più modesti.

            Di anni ne sono passati inutilmente più di venti, esattamente 26, senza che i post-comunisti si decidano ad ammettere i danni irreparabili apportati alla sinistra italiana ammazzando l’odiato Craxi prima politicamente e poi anche fisicamente. Ciò accadde, in particolare, con la resa di Massimo D’Alema, allora presidente del Consiglio, al diktat della Procura di Milano contro il rientro del “latitante” in Italia per ritardarne, a quel punto, di qualche mese la morte in un ospedale della sua Milano, o altrove,  senza le guardie carcerarie, o simili, alla porta o ai piedi del letto. Fu una resa involontariamente confessata dallo stesso D’Alema di recente, quando ha rivendicato il merito di avere tentato di smuovere la magistratura da una posizione a dir poco incredibile. Sarebbe bastato che l’avesse detto allora, quando era a Palazzo Chigi, denunciando all’opinione pubblica quanto stesse accadendo per cambiare forse le cose, o addirittura rovesciare un  clima che è riduttivo limitarsi a definire giustizialista. O quanto meno per riscattare l’onore della propria  parte politica di fronte a tale scempio di umanità.

            La fortuna dei tedeschi, per tornare ai giorni nostri, è di avere una sinistra, ma anche una destra, dove quelli che contano non scambiano per inciucio –altro termine coniato a suo tempo da D’Alema- intese di governo trasparenti e necessarie per non condannare il Paese al caos. O ad elezioni continue già sperimentate proprio in Germania nel secolo scorso e sfociate nell’arrivo di Hitler al potere, con tutto ciò che seguì ancora.

            Se c’è gente che non vede dalle nostre parti qualcuno che già assomigli o possa assomigliare a quel pazzo, temo che sbagli.  

                         

Pronti a smettere di cantare al fischio di Sergio Mattarella…..

            E’ geniale quella bolla d’aria in cui Emilio Giannelli ha raffigurato sul Corriere della Sera Matteo Renzi e Silvio Berlusconi come due emuli dell’indimenticabile Domenico Modugno. Che adattano una delle più celebri canzoni di Mimmo alla loro assai poco credibile voglia di altre elezioni se dalle urne del 4 marzo non avranno i numeri per fare o far fare ai loro partiti un governo l’uno senza l’altro.

            Giannelli avrà probabilmente già pronta un’altra vignetta per sistemare in primavera  il segretario del Pd e il presidente di Forza Italia in un’altra bolla d’aria, impegnati a cantare la loro rassegnazione al rifiuto del presidente della Repubblica di rimandare gli italiani alle urne con la stessa legge elettorale. Una rassegnazione tira l’altra, come le ciliegie. Segue quindi quella al dovere di garantire al Paese la governabilità necessaria, indifferibile e via dicendo.

            Questa pantomima delle elezioni continue, da chiedere al presidente della Repubblica di turno scommettendo sulla sua indisponibilità a concederle, è la conseguenza dell’intossicazione del dibattito politico che risale al momento in cui l’ineffabile Massimo D’Alema, imitato poi a destra, liquidò come “inciucio” un accordo tra diversi imposto da circostanze straordinarie. Ineffabile, il D’Alema ora collocatosi fra i Liberi e Uguali di Pietro Grasso, perché la pratica degli accordi fra diversi in circostanze particolari appartiene proprio alla sua storia politica e personale.

            La storia politica risale quanto meno alle due edizioni della maggioranza di solidarietà nazionale cui il Pci di Enrico Berlinguer, dove D’Alema era capo della federazione giovanile, partecipò fra il 1976 e il 1978 appoggiando dall’esterno i governi monocolori democristiani di Giulio Andreotti. Se non vogliamo andare ancora più indietro e risalire ai governi di unità nazionale dell’immediato secondo dopoguerra.

            La storia personale di D’Alema in materia di accordi fra diversi, prima che lui ne scoprisse le nequizie col termine dell’inciucio, risale alla sua esperienza di presidente della commissione bicamerale per le riforme istituzionali, eletto peraltro a quella carica con l’appoggio determinante di Berlusconi, fra le paure e i sospetti dell’allora presidente del Consiglio Romano Prodi.

            Fallita la missione di padre della Patria nei panni di riformatore della Costituzione, D’Alema se ne diede un’altra come capo del governo succedendo nell’autunno del 1998 a Prodi con una maggioranza in un cui il diverso Fausto Bertinotti fu sostituito da un ancora più diverso Francesco Cossiga. Che arruolò dalla mattina alla sera un po’ di parlamentari eletti col centrodestra, da lui paragonati agli “straccioni di Valmy”, per portare a Palazzo Chigi –si vantò il presidente emerito della Repubblica- il primo comunista, o post-comunista, della storia d’Italia.

            Gli inciuci insomma sono sempre quelli degli altri. Che sono però così condizionati dagli avversari di turno, di sinistra o di destra che siano, da sottrarsi alle rampogne prima negando e poi prestandovisi con sofferenza. Grande sofferenza.   

Il giallo dell’esclusione di Antonio Di Pietro dalle liste elettorali del Pd

Tentato già nel 2008 di votare Pd per premiare il coraggio di Walter Veltroni, che ne era il segretario, di avere rifiutato la vecchia logica del suo partito di provenienza di non poter avere nemici a sinistra, dovetti rinunciarvi quasi all’ultimo momento. Accadde quando Veltroni accettò di derogare alla sua cosiddetta vocazione maggioritaria apparentandosi elettoralmente con Antonio Di Pietro. Il cui approdo alla politica dagli spalti del giustizialismo non mi era mai piaciuto, così come il tradimento dell’impegno da lui assunto, lasciando improvvisamente la magistratura e cominciando una collaborazione con La Stampa, di non investire in politica il credito e la popolarità guadagnati come sostituto procuratore della Repubblica a Milano con le indagini chiamate Mani pulite.

            La mia diffidenza politica risultò confermata dalla decisione poi presa da Veltroni, dopo le elezioni, di esonerare Di Pietro dall’obbligo contrattuale di partecipare con i suoi ai gruppi parlamentari del Pd, dove si poteva pensare che avrebbe dovuto moderare le sue vecchie pulsioni giustizialiste.

Veltroni non solo autorizzò Di Pietro a rimettersi, diciamo così, in proprio nelle nuove Camere con tanto di gruppi parlamentari autonomi, ma se ne fece poi condizionare nella linea politica. Così la sedicesima legislatura si trasformò in un’altra occasione perduta per la sinistra, ridotta al solito antiberlusconismo preconcetto e totalizzante.

Vi lascio pertanto immaginare quanto mi fossero cadute le braccia nelle scorse settimane, quando vidi comparire sui giornali voci e notizie sulla disponibilità di Matteo Renzi a candidare Di Pietro col Pd. E addirittura sulla risposta ch’egli avrebbe dato ad amici contrari o scettici: “Meglio un giustizialista che un pregiudicato”. Una risposta degna più della cultura, delle abitudini e quant’altro di un Marco Travaglio che di un segretario di partito più volte propostosi, anche come presidente del Consiglio, di restituire alla politica la primazia perduta nei rapporti con la magistratura.

Provai perciò un certo sollievo quando vidi escluso Di Pietro dalle liste del Pd, a prescindere dal giudizio che si poteva e si può dare tuttora delle procedure adottate da Renzi. Che comunque è passato alla fine per una riunione della direzione di cui non ho trovato traccia nelle cronache sugli altri partiti.

Ebbene, al sollievo è subentrato qualche giorno fa un dubbio, quando ho letto un’intervista dell’ex magistrato al Corriere della Sera. Nella quale egli ha raccontato di una lunga e nutrita corte ricevuta da emissari di Renzi, fra i quali Piero Fassino, naufragata quando lui, interpellato sul tema, annunciò che mai da parlamentare del Pd avrebbe votato a favore di un’intesa più o meno larga con Berlusconi, neppure dopo un risultato elettorale neutro.

C’era da credergli. Portato nel 1997 a Palazzo Madama dall’allora segretario del Pds-ex Pci Massimo D’Alema, che lo aveva candidato nel collegio blindatissimo del Mugello, inutilmente osteggiato a destra da Giuliano Ferrara e a sinistra da Sandro Curzi, il senatore Di Pietro si rifiutò nel 2000 di votare la fiducia al secondo governo di Giuliano Amato. Che D’Alema aveva voluto suo successore a Palazzo Chigi, dopo le dimissioni presentate per l’insuccesso nelle elezioni regionali. “Amato no, quello non lo voto”, gridò Di Pietro, che non gli perdonava di essere stato l’uomo di fiducia di Bettino Craxi.

Ora, tornando ai giorni nostri, non mi piace il sospetto, inculcatomi da quell’intervista al Corriere, che Di Pietro sia rimasto fuori dalle liste del Pd non perché giustizialista ma solo perché contrario a più o meno larghe intese di governo con Berlusconi, neppure se queste fossero imposte dalle superiori esigenze di governabilità del Paese. Avrei preferito, e preferirei con qualche opportuno chiarimento, essere invogliato a votare Renzi apprezzandone un genuino, davvero incondizionato garantismo, a prescindere dalle convenienze politiche.

 

 

Pubblicato da Il Dubbio

Lo scoop di Libero sull’intimo della giovane leader della Destra post-missina

            Il titolo che Libero ha dedicato in prima pagina alla storia di copertina di Giorgia Meloni –“Una formidabile donna politica con le mutande a posto”- appartiene alla serie delle preghiere a Dio di guardarci dagli amici.

            Scomodare le mutande della sorella dei Fratelli d’Italia, e madre felice di una bambina, per esaltarla nel confronto –infelicemente sottinteso in quel titolo maldestro- con tutte le altre donne della politica italiana che partecipano alla campagna elettorale in corso per il rinnovo delle Camere, è di un gusto da fare rizzare i capelli. Dico i capelli, non altro.

            Chiedo scusa a Giorgia Meloni, dall’alto o dal basso dei miei quasi ottant’anni, come preferite, per nome e per conto di tutti i giornalisti d’Italia, antipatizzanti o simpatizzanti che siano dei Fratelli guidati dall’ex ministra del centrodestra.

            Chiedo scusa anche a tutte le donne della politica italiana che avessero l’abitudine di non portare le mutande, o di non averle comunque “a posto”, a insindacabile giudizio del censore di turno.

             

Un Grasso socratico e autosufficiente nel salotto televisivo della Gruber

            Incalzato da Lilli Gruber nel salotto televisivo di Otto e mezzo sul problema fisico, diciamo così, del centrosinistra di fronte alla collocazione orgogliosamente rivendicata per i Liberi e Uguali da lui condotti nella corsa al voto del 4 marzo, Pietro Grasso ha ritenuto di cavarsela dicendo che il suo movimento non ha bisogno di trovare altrove il centro che serve a realizzare la formula nata negli anni Sessanta con l’alleanza fra democristiani e socialisti. E aggiornata durante la cosiddetta seconda Repubblica con le alleanze dell’Ulivo e dell’Unione da Romano Prodi. Che si è appena doluto del carattere troppo “diviso”, e letale per il centrosinistra, del movimento di colore amaranto.

Alla persino banale domanda della Gruber se non dovesse essere il Pd guidato da Matteo Renzi il centro necessario alla realizzazione di un nuova edizione del centrosinistra Grasso ha risposto vantando la “centralità” degli obiettivi perseguiti dal suo partito: più lavoro, più giustizia sociale, più istruzione, più sicurezza, coniugata naturalmente con la solidarietà, per cui non si può liquidare il problema dell’immigrazione con le ricette di Matteo Salvini e ora –ha detto giustamente- anche di Silvio Berlusconi.

            La politica italiana è quindi di fronte ad un movimento capace di essere ad un tempo di sinistra, per la collocazione che si è data uscendo dal Pd o continuando a starne fuori, e di centro per l’importanza degli obiettivi che persegue. Grasso parla, sorridendo con quel tratto del viso stampatogli sul volto alla nascita dalla natura, sentendosi un nuovo Socrate. Politica e filosofia s’intrecciano nei suoi ragionamenti a costo di lacerarsi entrambe, non di unirsi, come lui forse vorrebbe.

            Peccato, per Grasso e i compagni di viaggio e di pensiero, che il suo movimento sia valutato dai sondaggisti attorno al 7 per cento dei voti. Che sarebbero pochini per fare un governo autosufficiente, anche se diventassero otto, nove o dieci, come prevede Massimo D’Alema nei giorni del pessimismo, perché in quelli dell’ottimismo lui si spinge oltre di qualche punto.

            Con così poche forze per colpa del destino “cinico e baro” che già perseguitava la buonanima di Giuseppe Saragat, insofferente per i risultati elettorali sempre ad una cifra che raccoglieva il suo partito socialdemocratico, con chi conteranno i Liberi e Uguali del presidente uscente e perciò terminale del Senato per almeno contribuire al governo del Paese, se non vorranno essere sempre e solo all’opposizione? E’ presto per dirlo senza disporre dei numeri del nuovo Parlamento, ha candidamente risposto Grasso stupendosi della domanda. Un genio, verrebbe da dire.    

Bassolino, deluso da Grasso, tenta di riaccostarsi a Renzi

            Antonio Bassolino, già sindaco di Napoli e governatore della Campania, con esperienza di governo anche a livello nazionale come ministro del Lavoro con Massimo D’Alema, ha affidato ad una intervista al Mattino la sua delusione per il trattamento da appestato, o quasi, riservatogli dai Liberi e Uguali di Pietro Grasso. Che non lo hanno voluto candidare alle elezioni del 4 marzo, nonostante le sue ripetute dichiarazioni di “disponibilità”, fatte allo stesso Grasso in un incontro che  Bassolino ha voluto rivelare solo a cose fatte. Cioè, non fatte.

            Un po’ di voti, sicuramente, uno come Bassolino avrebbe potuto procurarli al movimento dove si sono raccolti gli scissionisti del Pd e altre frattaglie della sinistra massimalista, che a conti fatti preferisce sempre l’opposizione al governo. O vuole stare al governo senza rinunciare all’opposizione. Ma i compagni di Grasso non sono meno selettivi, nelle simpatie come nelle antipatie, dei compagni di Matteo Renzi. Che a suo tempo non vollero aiutare Bassolino nel tentativo di tornare a fare il sindaco di Napoli contrastando la conferma di Luigi de Magistris.

            Nel dolersi dell’esclusione dalle liste elettorali del movimento alla cui formazione pure ha partecipato, non perdendosi alcuna cerimonia di gestazione, né a Roma né nella sua Napoli, Bassolino ha voluto ribadire le critiche al Pd per il rifiuto di Renzi- ha spiegato- di fare tutta l’autocritica necessaria per le sconfitte subite nel referendum sulla riforma costituzionale e nelle elezioni amministrative seguite a quelle europee del 2014, vinte con percentuali democristiane dei tempi d’oro: più del 40 per cento dei voti.

            Anche se da posizioni critiche, Bassolino ha mostrato di volersi riavvicinare al Pd paragonandosi a Romano Prodi. Che, non più iscritto al partito ora guidato da Renzi, gli ha prestato un sostanziale soccorso elettorale lamentando il carattere troppo “divisivo” dei Liberi e Uguali e preannunciando il voto per una pur non precisata  delle liste che compongono la coalizione renziana. Chissà se Renzi vorrà raccogliere il segnale. Anche Bassolino comunque soffre, senza e con l’apostrofo.

Silvio Berlusconi sbanda sugli immigrati inseguendo Matteo Salvini

            Tutti i giornali, con la sola eccezione della Stampa, che ne ha generosamente ignorato in prima pagina la sortita, hanno titolato su Silvio Berlusconi che, inseguendo l’alleato Matteo Salvini  anziché moderarlo, ha proposto di disinnescare “la bomba sociale” costituita dagli immigrati espellendo i seicentomila che sarebbero presenti in Italia senza permesso. Assisteremmo ad una retata alla grande, magari con qualche incentivo ai delatori: una retata che invidierebbero dalle fiamme dell’aldilà all’ex presidente italiano del Consiglio gli specialisti della croce uncinata che ne fecero parecchie nella loro Germania e nei paesi occupati durante la seconda guerra mondiale. E scambierebbero magari il presidente di Forza Italia per un erede di Benito Mussolini.

            Mi chiedo cosa gli sia saltato in mente, quale febbre gli abbia procurato questa dannata campagna elettorale, avendo conosciuto Silvio Berlusconi prima della sua avventura politica e lavorato nelle sue aziende: prima al Giornale di Indro Montanelli, quando ne divenne editore, e poi alla televisione degli anni della Fininvest. Che cosa gli è saltato in mente non solo avendo alle spalle politicamente, come gli ha rinfacciato sul Fatto Quotidiano Marco Travaglio, i settecentomila immigrati “condonati” nei suoi anni di governo con la legge di Gianfranco Fini e Umberto Bossi, possibilmente da ricordare oggi anche a Giorgia Meloni e a Salvini, loro successori d’area, diciamo così, ma soprattutto avendo nel torace quel cuore un po’ ballerino? Che gli si è rivoltato da poco per molto meno, come l’esclusione dalle liste della sua Forza Italia di un centinaio di aspiranti candidati alle elezioni del 4 marzo. Dio mio, cosa gli è saltato in mente pur di mantenere o aumentare le distanze nel centrodestra dalla Lega per contrastane il diritto a rivendicare Palazzo Chigi nel caso, peraltro assai improbabile, in cui la coalizione dovesse conquistare la maggioranza assoluta dei seggi parlamentari e tornare al governo del Paese?

            E’ augurabile adesso che, di fronte ai titoli critici procuratisi da Berlusconi con la sua sortita simil-leghista, non venga in mente ai suoi aedi, a cominciare naturalmente dal direttore del Giornale di famiglia, di parlare di una “caccia rossa” anche all’ex presidente del Consiglio, oltre a quella a Salvini appena lamentata da Alessandro Sallusti.  

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