La crisi permanente dei grillini si scarica anche sulla corsa al Quirinale

Fotomontaggi del Fatto Quotidiano

E’ la classica zappa sui piedi la rappresentazione cavernicola che sotto le cinque stelle fa il giornale di Marco Travaglio del “conclave” immaginato da Vauro Senesi per la scelta del presidente della Repubblica, con quei leader armati di bastoni per darsene di santa ragione: altro che i leader e leaderini proposti in altra parte della stessa prima pagina in abiti cardinalizi. Se la politica è ridotta a questo punto dopo quattro anni di una legislatura all’insegna della “centralità” grillina uscita dalle urne del 2018, si deve quanto meno ammettere che il bilancio è fallimentare.

I più confusi, disorientati e quant’altro sono proprio i grillini, che si agitano in quella tonnara che nelle loro mani è diventato il Parlamento, dove la paura delle elezioni anticipate prevale su ogni altra considerazione. Meglio morire dissanguati che senza acqua, dicono i tonni pentastellati. Che, dopo avere subito come un omicidio -parola sempre di Travaglio- la sostituzione di Giuseppe Conte con Mario Draghi a Palazzo Chigi, avvertono con terrore l’indebolimento del governo e cercano di rimediarvi votando nel segreto dell’urna a Montecitorio -senza che nessuno glielo ordinasse, né lo stesso Conte partecipando alle loro riunioni né Beppe Grillo dalla crociera giudiziaria col suo amico armatore Vincenzo Onorato- per la conferma di Sergio Mattarella al Quirinale. Essa congelerebbe tutto: le Camere e il governo del presunto abusivo Draghi. 

Sempre dal Fatto Quotidiano

Ha ben poco da scherzare, sempre sotto le cinque stelle, Travaglio  scrivendo o facendo scrivere nella “cattiveria” quotidiana del suo giornale che sono aumentati “di poco” in tre giorni, da 16 a 125,  i parlamentari che vogliono provare a rieleggere Mattarella “senza che se ne accorga”, anzi contro l’indisponibilità dell’interessato tante volte apprezzata e incoraggiata dal direttore in persona del Fatto Quotidiano. Il quale ad un certo punto esortò il presidente uscente a prendere a parolacce, in dialetto palermitano strettissimo, quanti lo applaudivano, per strada, in teatro, negli auditorium e nello stesso Quirinale, reclamando ill bis. 

Le cose sembra che stiano cambiando anche sul Colle, dove corazzieri, autisti e commessi si stanno pure allenando alle cerimonie per l’arrivo di un nuovo presidente della Repubblica ma la quirinalista del Tg1 ieri sera, collegata con la sua direttrice, raccontava le reazioni del palazzo ai 125 voti appena destinati a Mattarella in termini per niente contrariati. Diceva solo che collaboratori e amici del presidente, ma forse anche lo stesso presidente, consideravano quei voti ancora troppo in libertà, non espressione cioè di orientamenti espliciti di partiti o gruppi parlamentari. Se questi dovessero invece sopraggiungere per le difficoltà di un accordo su un nuovo capo dello Stato, Mattarella non potrebbe sottrarsi a qualche ulteriore riflessione.

Titolo della Stampa
Titolo del Riformista

Intanto la giostra mediatica continua inseguendo di tutto: notizie, voci, sussurri, spezzoni di dichiarazioni, fantasie. Per La Stampa, ad esempio, “la sfida è fra Draghi e Casini”. Per il Riformista è invece tra “Mattarella e Casini”, per cui il direttore Piero Sansonetti si chiede se “rimoriremo democristiani”. Altri scommettono sulla presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati, anche se il suo amico di partito ed ex presidente forzista dello stesso Senato Renato Schifani teme il fuoco amico, altri ancora sul quasi presidente, ormai, della Corte Costituzionale Giuliano Amato. Qualcuno infine punta sull’ex ministro e giudice emerito della Consulta Sabino Cassese, i cui 86 anni e mezzo meriterebbero qualche prudenza in più per risparmiare all’interessato emozioni troppo rischiose. 

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Tanti voti in libertà a Mattarella per salvare il governo Draghi

Quei 16 voti per il Quirinale arrivati a Sergio Mattarella nel primo scrutinio,  diventati 39 al secondo e addirittura 125 al terzo senza essere stato candidato da nessun partito, contro i 114 di Guido Crosetto sventolato come una bandiera dimostrativa dalla destra di Giorgia Meloni, costituiscono un segnale indicativo di qualcosa non confondibile di certo con i giochetti liquidabili con la formula dei “voti dispersi”.

Titolo del Dubbio

L’ipotesi di una conferma del presidente uscente della Repubblica continua quindi ad aleggiare come un fantasma o un sogno, secondo le preferenze, per quanti sforzi abbia fatto e continui a fare l’interessato per sottrarvisi. Come anche l’ipotesi di un’elezione di Mario Draghi, che diversamente da Mattarella però non la scambia per una disgrazia, avendo già avuto modo di apparire pronto a viverla come “un nonno a disposizione delle istituzioni”: immagine che tanti guai e polemiche gli ha procurato, sino a fargli rischiare una specie di squalifica o una condizione di sostanziale ineleggibilità,  presuntivamente implicita nella storia dei 70 anni e più della Repubblica. In cui -si è scritto contro Draghi- a nessun presidente del Consiglio sarebbe mai venuta in mente la malsana idea di candidarsi o lasciarsi candidare al Quirinale. Ciò tuttavia non è vero perché almeno nel 1992 da presidente del Consiglio in carica la buonanima di Giulio Andreotti  si lasciò tanto tentare da quella prospettiva che fra i suoi amici parlamentari si adoperarono in parecchi, o comunque nel numero sufficiente all’impresa. per il naufragio della candidatura al Quirinale del segretario del suo partito, la Dc. Che era l’ancor vivo e quindi  prezioso testimone Arnaldo Forlani, così poco interessato peraltro al successo da ritirarsi dalla gara dopo il secondo scrutinio su di lui, che pure gli aveva fatto recuperare una parte dei voti mancatigli la volta precedente. 

Ma bando alle chiacchiere e alle rievocazioni del passato. Il problema di fronte al quale, volente o nolente, si trova in queste ore Mattarella -fortunatamente tornato al Quirinale dal suo rapido ritorno nella casa di Palermo per scegliere mobili e quant’altro da fare spedire all’appartamento romano che ha preso in affitto in vista della scadenza del suo mandato presidenziale- è l’indebolimento oggettivo del governo Draghi. Che lo stesso Mattarella volle  incisivamente l’anno scorso per ragioni di emergenza chiudendo la crisi fallimentare del secondo e ultimo governo di Giuseppe Conte, riuscito in poco più di due anni a bruciare entrambe le alternative ordinarie, chiamiamole così, delineatesi all’inizio della legislatura, nel 2018. 

L’indebolimento del governo Draghi deriva proprio dall’uso  politico e persino personale che si sta facendo della corsa al Quirinale, da destra e da sinistra, contro il presidente del Consiglio. Che non mi pare -francamente- fosse stato scelto e nominato da Mattarella solo nella prospettiva della fine del proprio mandato, ma anche o soprattutto nell’interesse dell’Italia in emergenza.  

Pubblicato sul Dubbio

Il delitto dietro l’angolo fra le votazioni sul presidente della Repubblica

Titolo del Fatto Quotidiano
La vignetta del Fatto Quotidiano

Neppure la rosa degli incolpevoli candidati faticosamente proposti dal centrodestra -Letizia Moratti, Carlo Nordio e Marcello Pera, in ordine alfabetico- e subito bocciati dal centrosinistra di Enrico Letta, Giuseppe Conte e Roberto Speranza, che tuttavia si è predisposto ad un conclave con gli avversari per uscirne solo ad accordo trovato su cbissà quale altro nome; neppure questa rosa, dicevo, ha rimosso dalla corsa al Quirinale Mario Draghi. Che Emilio Giannelli sulla prima pagina del Corriere della Sera ha messo rannicchiato in un frigorifero lasciandolo per fortuna aperto e Marco Travaglio “in panchina” con un vistoso titolo sul suo Fatto Quotidiano. Dove una vignetta di Riccardo Mannelli ripropone il presidente del Consiglio tignoso nella sua ambizione quirinalizia “colle buone e colle cattive”, giocando sulla morfologia del palazzo della Presidenza della Repubblica. Nel cui cortile fervono i preparativi per accogliere con tutti gli onori dovuti il successore di Sergio Mattarella. Il quale però è l’unico, fra i candidati sinora votati da deputati, senatori e delegati regionali, fra tantissime schede bianche, ad avere guadagnato punti, passando dai 16 del primo scrutinio ai 39 del secondo: più del doppio. pur nella modestia dei numeri.

Titolo del Foglio
Altro titolo del Foglio

Del povero Draghi espostosi nella conferenza stampa del 22 dicembre come “un nonno a disposizione delle istituzioni” manca ormai soltanto una rappresentazione in salamoia. Il Foglio, lanciatosi per primo nella campagna promozionale  all’insegna del “meglio sette anni al Quirinale che sette mesi, o poco più, ancora a Palazzo Chigi”, titola in rosso sangue in prima pagina su un “draghicidio gialloverde”, per metà grillino e per metà leghista, anche se -a dire il vero- non mancano né fra i grillini né fra i leghisti convinti sostenitori ancora della promozione del presidente del Consiglio a capo dello Stato. E non sono uomini di second’ordine, corrispondendo rispettivamente, fra gli altri, a Luigi Di Maio e a Giancarlo Giorgetti, entrambi non a caso ministri di una certa importanza istituzionale e consistenza politica: l’uno agli Esteri, che tutti consultano prima o dopo -o prima e dopo- avere parlato con Giuseppe Conte per cercare di capire meglio la sempre mutevole situazione interna del MoVimento 5 Stelle, e l’altro allo Sviluppo Economico. 

Il “draghicidio” fa rima in tutti i sensi col “conticidio” coniato un anno fa sul Fatto Quotidiano da Marco Travaglio, e tradottosi anche in un libro, per denunciare, lamentare e quant’altro la congiura prima e il delitto poi compiuto per allontanare da Palazzo Chigi, dopo soli tre anni e poco più  di esperienza, il presunto migliore capo del governo avuto dall’Italia nella sua storia: l’uomo -altro che Draghi- cui tutti dovremmo la svolta solidaristica dell’Unione Europea di fronte ai danni della pandemia, dopo “il sangue e la merda” -direbbe il mio amico Rino Formica- sparsi da Bruxelles e da Berlino negli anni della politica comunitaria del rigore o dell’austerità. 

Titolo di Repubblica
Titolo del Foglio

Delitto per delitto, c’è forse da mettersi in attesa di quelli che potrebbero essere consumati in questa corsa al Quirinale ai danni dei candidati che, in buona o cattiva fede, vengono lanciati da destra e da sinistra attribuendoli ai progetti nascosti ora di questo e ora di quello schieramento: dalla presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati all’ex presidente della Camera e ora senatore Pier Ferdinando Casini, o al vice presidente della Corte Costituzionale Giuliano Amato, peraltro presidente in pectore della Consulta per ragioni di anzianità, essendo in scadenza  Giancarlo Coraggio. 

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Quel Matteo Salvini uno e trino, blasfemia a parte….

Titolo del Dubbio

  Una domanda non so neppure io se più ingenua o maliziosa: in quale veste Matteo Salvini ha incontrato Mario Draghi prima che si aprissero nell’aula di Montecitorio, e dintorni drive in, le urne per l’elezione del presidente della Repubblica? Come leader della Lega o del centrodestra a trazione appunto leghista dal 2018, per effetto del sorpasso elettorale effettuato sul partito di Silvio Berlusconi? 

              Nel primo caso l’incidente, l’equivoco, chiamatelo come volete, col presidente del Consiglio, praticamente rifiutatosi di parlare di un nuovo governo non avendo la veste ne’ di presidente della Repubblica, o non ancora, ne’ di capo-partito, è da considerarsi spiacevole ma limitato, o non grave. Nel secondo caso risulterebbe peggiorata la situazione già critica del centrodestra dopo i modi, i tempi e le motivazioni scelte da Berlusconi per rinunciare alla corsa al Quirinale, sottraendosi di fatto a un confronto con gli alleati disposti a votarlo e ponendo una specie di pregiudiziale alla candidatura di Draghi, troppo bravo e necessario a Palazzo Chigi per allontanarsene.

               Invece Salvini cercando di parlare col presidente del Consiglio di un nuovo governo ne ha implicitamente ipotizzato il ruolo di capo dello Stato, quasi condizionando alla sua disponibilità verso l’assegnazione di incarichi governativi il consenso ad una elezione a capo dello Stato. E la cosa non è per niente piaciuta -ne’ sarebbe potuto accadere diversamente- a Berlusconi e al giro stretto dei collaboratori, fedelissimi e familiari. I quali, pur essendosi mossi autonomamente nell’operazione di rinuncia alla corsa, esponendosi quindi al rischio di una ritorsione, o qualcosa di simile, si aspettavano di essere coinvolti in un approccio diverso alla candidatura quirinalizia del presidente del Consiglio.

             Una prova o un indizio, come si preferisce, della sorpresa e dei malumori al vertice di Forza Italia si trova nella iniziativa presa dal vice di Berlusconi, coordinatore nazionale del partito ed ex presidente del Parlamento Europeo Antonio Tajani, rimasto fuori dal governo proprio per la caratura di leader attribuitagli l’anno scorso da Draghi, di condurre personalmente consultazioni e quant’altro, a cominciare da Giuseppe Conte. Che sarà pure malmesso, come è recentemente scappato di riconoscere all’amico ed estimatore Goffredo Bettini, ma è il presidente del movimento, ora quasi partito, ancora maggiormente rappresentato in Parlamento. Da cui, almeno sulla carta, è difficile prescindere in questa legislatura dura a morire: assai dura, anche a costo di imporre al Paese una campagna elettorale di più di un anno, quanto manca alla scadenza ordinaria, anziché dei 75 giorni normali. E guai a lamentarsene perché si rischia il linciaggio da parte dei deputati e senatori uscenti sicuri di non poter essere rieletti, e neppure candidati dopo i tagli ai seggi così imprudentemente apportati.

Pubblicato sul Dubbio

                                                                                                                               

Lo strano, stranissimo assalto alla diligenza di Mario Draghi sulla strada del Quirinale

Titolo del Fatto Quotidiano
Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano

A leggere i giornali, o i giornaloni, come li chiama Marco Travaglio accusandoli di essere impegnati a sostenerne la corsa o la volata al Quirinale, Mario Draghi sarebbe entrato personalmente in trattative con partiti e simili per soddisfare le sue più o memo “sfrenate” ambizioni presidenziali. Che, sempre a leggere Travaglio, trasformerebbero la Repubblica in una Monarchia, riportando indietro l’Italia di 76 anni senza i Savoia ma con l’ex presidente della Banca Centrale Europea “affossatore della Patria”. 

Titolo del Foglio
Titolo del Giornale

La cosa curiosa è che a questa rappresentazione del presidente del Consiglio hanno contribuito, tra titoli, vignette e quant’altro, giornali che pure passano per sostenitori convinti della sua corsa al Colle, come Il Foglio e Domani, accomunati nel racconto appunto delle sue “trattative” con frenetiche udienze, consultazioni telefoniche e missioni più o meno segrete affidate a persone di fiducia. Tutte cose che forse non gli serviranno perché tardive, a leggere la Verità. Per quanto si sia già “sporcate le mani”, come ha titolato su tutta la prima pagina Il Giornale della famiglia Berlusconi, come un supplemento qualsiasi del Fatto Quotidiano, il presidente del Consiglio non avrebbe più possibilità di riuscita, per cui farebbe bene a seguire l’esempio dello stesso Berlusconi e rinunciare, almeno per cercare di salvare il suo governo. 

Dalla prima pagina della Stampa di ieri

C’è chi addirittura potrebbe vantarsi o vergognarsi, secondo le preferenze, di questo attivismo di Draghi per averlo sollecitato, come Alessandro De Angelis sulla Stampa di ieri, limitandosi tuttavia a suggerirgli l’uso del telefono, e non di più, per rimediare a scortesie magari involontarie. Come quelle che Draghi avrebbe fatto a Berlusconi non ringraziandolo dell’aiuto ricevuto in tutta la sua carriera o scegliendo l’anno scorso i ministri fornisti di testa sua, senza chiedere l’assenso, o addirittura negando la nomina alla quale più teneva l’uomo di Arcore. Di cui si è detto e scritto, in effetti, che volesse premiare, in particolare, il suo attuale vice, coordinatore e non so cos’altro Antonio Tajani. Che il povero Draghi invece lasciò fuori dal governo promuovendolo alla figura di leader, come tale destinato a rimanere in panchina al pari di Matteo Salvini. 

Il voto di Salvini a Montecitorio

Peccato che nessuno, proprio nessuno abbia avvertito lo scrupolo di controllare notizie, voci e quant’altro. Avrebbe potuto scoprire, per esempio, che Draghi di sua iniziativa non ha visto o chiamato nessuno, essendosi limitato a vedere e sentire chi gli aveva chiesto udienza, diciamo così, a cominciare da Salvini. Il cui incontro col presidente del Consiglio ha fatto più rumore di tutti, tanto da allarmare o insospettire -si è scritto- lo stretto giro di Berlusconi, fermo alla disposizione del capo di non importunare Draghi in alcun modo per fargli continuare a svolgere in tutta tranquillità il suo lavoro a Palazzo Chigi sino all’esaurimento auguralmente ordinario della legislatura, nel 2023. 

Cabine e urne per le elezioni presidenziali

E un pò deve essersi in effetti sentito importunare Draghi quando Salvini, uscito poi visibilmente nervoso dall’incontro, ha cercato di parlare con lui della composizione di un nuovo governo dopo l’elezione del presidente della Repubblica, non escludendo evidentemente il suo arrivo al Quirinale. Al che Draghi -che non sarà un politico di professione o di casta, come direbbero i grillini di vecchia maniera, ma la Costituzione la conosce bene- ha risposto dicendo che di un nuovo governo, della sua composizione e di tutto il resto dovranno occuparsi i partiti negoziando fra di loro e il presidente della Repubblica che succederà a Sergio Mattarella. Salvo sorprese, aggiungerei, visto che a volere la conferma  del presidente uscente non sono soltanto i sedici, fra parlamentari e delegati regionali, che hanno cominciato a votarlo nel primo scrutinio, sommerso di schede bianche.   

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Il centrodestra improbabile derivato dalle scelte di Berlusconi

Titolo del Dubbio

Ricorrere all’immagine di Sansone che muore con tutti i filistei per commentare la rinuncia di Silvio Berlusconi alla corsa al Quirinale sarebbe francamente eccessivo, oltre che irriguardoso verso l’uomo che si vantava negli anni delle sue migliori fortune politiche di sapersi fare concavo e convesso secondo le opportunità e necessità del momento. E che magari ritiene di essere rimasto fedele a questa rappresentazione ritrandosi dalla gara non per l’incertezza dei numeri ma per risparmiare al Paese un passaggio troppo divisivo, secondo il linguaggio degli avversari.

Tuttavia, se davvero l’ex presidente del Consiglio lo ha fatto per questo, si lasci dire molto amichevolmente che avrebbe dovuto sciogliere la cosiddetta riserva un pò prima, visti i guasti prodotti dal ritardo ai rapporti fra i partiti e nella stessa maggioranza di governo ch’egli vorrebbe preservare dal rischio di un cambiamento al suo vertice.

Ciò che forse ha sorpreso di più della rinuncia di Berlusconi è il colpo inferto, volente o nolente, al centrodestra proprio da lui inventato e portato alla vittoria elettorale nell’ormai lontano 1994. Dopo averne ridotto o comunque cambiato un pò la natura negli ultimi tempi con quel trattino messo fra il centro e la destra ogni volta che ne scriveva, come per prendere sempre di più le distanze dagli alleati che lo hanno sorpassato elettoralmente, Berlusconi ha messo ai piedi della coalizione un peso che la rende improbabile, incapace forse di galleggiare nelle trattative con gli altri partiti per una conclusione necessariamente concordata della corsa al Quirinale ormai giunta alle votazioni.

Questo peso è costituito dal contrasto, subito contestato all’interno dello stesso centrodestra da Giorgia Meloni, alla candidatura di Mario Draghi prenotata dall’interessato presentandosi nella conferenza stampa del 22 dicembre come “nonno a disposizione delle istituzioni”. Una candidatura -mi permetto di sospettare- forse verificata dal missionario di fiducia del Cavaliere, Gianni Letta, nella ormai nota visita a Palazzo Chigi compiuta prima di recarsi ad un vertice del centrodestra che si accingeva a formalizzare quella di Berlusconi, pur con la riserva ora sciolta negativamente. 

Mario Draghi

Draghi, l’amico Draghi, che un po’ gli deve sia il Governatorato della Banca d’Italia, sia la successiva presidenza della Banca Centrale Europea, sia Palazzo Chigi per l’aiuto prestatogli con i ministri e i sottosegretari di Forza Italia, sarebbe condannato dalla sua stessa bravura, dal credito internazionale di cui gode e dalle perduranti emergenze del Paese a rimanere dov’è, ha detto Berlusconi e poi ripetuto Matteo Salvini, pur apertosi precedentemente alla formazione di un altro governo. Ma c’è ora da verificare se sono d’accordo lo stesso Draghi, gli altri partiti e i componenti dei rispettivi gruppi parlamentari o delegati regionali, in gran parte fluidi, a dir poco. E’ tutta una foresta da esplorare.

Pubblicato sul Dubbio

Mario Draghi aleggia come un fantasma sulla corsa al Quirinale

Titolo del Giornale

Mario Draghi continua ad aleggiare come un fantasma -immagino con quale perfido compiacimento dell’interessato, silenzioso nella sua postazione di presidente del Consiglio- sulla corsa al Quirinale, per quanti sforzi abbiano fatto nelle ultime 48 ore nel centrodestra prima Silvio Berlusconi e poi Matteo Salvini, tra gli applausi del Giornale di famiglia del Cavaliere, di esorcizzarne la candidatura. “Troppo pericoloso sostituirlo a Palazzo Chigi”, ha detto il segretario della Lega dopo una telefonata a Berlusconi, e in difformità da  Giorgia Meloni. Che stando all’opposizione non potrebbe certo condividere una valutazione così generosa del presidente del Consiglio, pur essendo disposta con i suoi fratelli d’Italia a sostenerne la corsa al Colle.

Francesco Merlo su Repubblica
Ancora Francesco Merlo su Repubblica

Non c’è incontro in cui il segretario del Pd Enrico Letta non si lasci scappare un accenno o una domanda a favore di Draghi al Quirinale o, in alternativa, come “massimo” desiderabile, di una conferma di Sergio Mattarella. I cui segnali di indisponibilità debbono essere apparsi anche a lui “un affollato catalogo di congedi che più sono definitivi e più suonano provvisori”, come ha appena scritto su Repubblica Francesco Merlo. Che seguendo col pensiero il presidente uscente in questi giorni nella sua Palermo lo ha descritto “malinconico e vincente, come l’Humphrey Bogart di Casablanca”. 

Dalla prima pagina del Fatto Quotidiano

Immaginazione per immaginazione, ne hanno avuta tantissima al Foglio dedicando a Draghi la vignetta-copertina del numero di lunedì per rilanciarne la candidatura boicottata da quello che pure era stato e per certi versi rimane ancora per Giuliano Ferrara e amici “l’amor nostro”. Che quel villano irredimibile di Marco Travaglio nella “cattiveria” quotidiana del suo giornale ha sospettato sia stato portato all’ospedale milanese San Raffaele, per i soliti ricoveri da controllo, facendogli credere di andare al Quirinale, nonostante la rinuncia.

Emanuele Lauria su Repubblica
Titolo di Domani

Una mano al Foglio e ad Enrico Letta -ma anche al nipote berlusconiano Gianni, stando ad un retroscena raccontato su Repubblica da Emanuele Lauria- l’ha data a favore della perdurante candidatura di Draghi al Colle il quotidiano di Carlo De Benedetti Domani. Il cui direttore in persona, Stefano Feltri, si è dilungato a raccontare e a spiegare “perché Draghi è il più adatto a prendere il posto di Sergio Mattarella se si guarda all’interesse degli italiani”. “Sa mediare -ha precisato- fra le forze politiche, ha prestigio internazionale e conosce a fondo la macchina dello Stato”, forse anche più di quanto non fosse stato attribuito ai suoi tempi a Giulio Andreotti. Che una volta, parlandomi della sua esperienza di governo, mi raccontò di ricordare a memoria i nomi di almeno i direttori generali e capi di Gabinetto di tutti i Ministeri, non solo di quelli che aveva avuto occasione di guidare prima di diventare presidente del Consiglio. E a ciascuno di loro, come a tanti delle centinaia di migliaia di elettori che gli avevano dato il voto di preferenza prima che la nomina a senatore a vita lo esonerasse dalle elezioni”, egli mandava puntualmente gli auguri almeno di compleanno, se non pure onomastici. 

Titolo di Repubblica

Chissà, se fosse ancora in vita, per chi voterebbe Andreotti in questo turno -“muro contro muro” o al buio, come hanno titolato i giornali-  di elezioni presidenziali che comincia oggi: il terzo dopo la sua morte, nel mese di maggio del 2013. Presumo proprio per Draghi, che non era certamente sfuggito alla sua meticolosa attenzione prima di ministro e poi di presidente del Consiglio.

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La rinuncia e il dispetto di Berlusconi a Draghi sotto il balcone del Quirinale

Non sono due ma neppure una sola la notizia uscita da Arcore e affidata da Silvio Berlusconi alla senatrice e assistente di turno Licia Ronzulli, disertando il vertice pur da remoto reclamato dagli alleati. Sono state almeno una notizia e mezza, ma forse anche due mezza, come vedremo. 

Titolo del Giorno, Resto del Carlino e Nazione

La mezza notizia, essendo ormai scontata dopo il preannuncio del Giornale di famiglia, è la rinuncia di Berlusconi alla corsa al Quirinale. O “la resa”, come hanno preferito chiamarla nei titoli i quotidiani pur sostanzialmente fiancheggiatori del gruppo Riffeser Monti: Il Giorno, il Resto del Carlino e la Nazione. Una rinuncia o resa da “statista nell’interesse del Paese”, come è stato sottolineato dal Giornale condividendo evidentemente le stime ottimistiche dell’interessato sulla disponibilità effettiva dei voti . 

Augusto Minzolini sul Giornale

Un notizia intera, su cui solo Vittorio Sgarbi, al termine della campagna telefonica fra i parlamentari a favore dell’amico, aveva scommesso smentendo le aperture attribuite ad una visita di Gianni Letta a Palazzo Chigi nella scorsa settimana, è il dispetto quanto meno politico, se non anche personale, fatto da Berlusconi a Mario Draghi per eccesso di stima, apprezzamento e quant’altro per il suo ruolo di presidente del Consiglio. Che  l’interessato farebbe pertanto bene a ricoprire ancora, almeno sino alla fine ordinaria della legislatura, nel 2023, rinunciando pure lui alla candidatura al Quirinale adombrata con quella specie di parabola del “nonno a disposizione delle istituzioni” raccontata nella conferenza stampa del 22 gennaio. Una parabola che Berlusconi, già impegnato a suo modo nella corsa al Quirinale, deve avere interpretato come una sfida a lui, che pertanto ora l’ha ricambiata. E di “sfida”, appunto, ha scritto nel suo editoriale il direttore del Giornale Augusto Minzolini. 

Titolo del Fatto Quotidiano
Titolo di Libero

A questa sfida per  sospetta “tigna”, si dice a Roma, hanno dedicato i loro titoli compiaciuti due giornali così opposti politicamente ma convergenti contro Draghi: Il Fatto Quotidiano di Marco Travaglio, su sfondo azzurro, e Libero di Alessandro Sallusti su sfondo rosso.  Addirittura Libero nella sua foga contro il presidente del Consiglio lo ha decollato. Travaglio invece si è accontentato di vederlo in bilico sulla buccia di banana appena lanciata con perfidia da Berlusconi sul percorso quirinalizio. Va però detto che con una certa prudenza inusuale Travaglio non ha rappresentato Draghi a terra, evidentemente consapevole o timoroso che ci siano ancora margini per la sua candidatura, per quanto sostenuta più o meno chiaramente -ha fatto scrivere nel titolo- dai “2 Letta”, zio Enrico e nipote Gianni, “Giorgetti e Toti”, dimenticando chissà perché Giorgia Meloni. Che invece dall’interno del centrodestra ornai sfasciato da Berlusconi -e questa può ben essere vista come la seconda notizia intera prodotta dalla rinuncia o dalla resa del Cavaliere- si è subito dissociata dal dispetto, sgambetto e quant’altro a Draghi. Che lei è pronta a far votare dai suoi parlamentari nella speranza che poi la situazione politica evolva verso le elezioni anticipate.

Titolo di Avvenire
Ancora Minzolini sul Giornale

“Buio sul Colle”, ha titolato non a torto Avvenire, il giornale dei vescovi italiani, prevedendo quanto meno una lunga serie di votazioni a Montecitorio da domani pomeriggio, in attesa di un accordo largo o stretto che sia fra i partiti, franchi tiratori permettendo. Ma le preoccupazioni di Avvenire non sono condivise dal Giornale, dove Minzolini ha ricordato che “la media ponderata” delle elezioni presidenziali è di “11 scrutini”, in cui “non è mai morto nessuno”. Nel 1992 tuttavia la mafia volle partecipare a suo modo alle lungaggini parlamentari per la successione a Francesco Cossiga con la strage di Capaci, costata la vita a Giovanni Falcone, alla moglie e a quasi tutta la scorta. Seguì l’elezione “emergenziale” di Oscar Luigi Scalfaro, ancora fresco di arrivo alla presidenza della Camera. 

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Gli ultimi e forse anche amari giorni di Mattarella al Quirinale

Titolo del Fatto Quotidiano

Con l’inaugurazione dell’anno giudiziario in Cassazione alla sua presenza, tra ermellini, fiocchi e mascherine anti-covid, si è davvero conclusa -e con una certa amarezza, come vedremo- la missione presidenziale di Sergio Mattarella. La cui conferma, dopo essere stata da lui stesso avversata ripetutamente, nonostante il bis sollecitato in alto e in basso, dai vertici politici con una certa discrezione o reticenza, come preferite, e dai cittadini comuni con un certo entusiasmo, fra piazze, teatri e cerimonie nello stesso Palazzo del Quirinale, è svanita davanti alla crescita della candidatura di Mario Draghi. Che solo l’irriducibile Fatto Quotidiano di Marco Travaglio attribuisce alla generosità, alle speranze e persino alle manovre dei “giornaloni”. 

Titolo del manifesto
Titolo del Foglio

E’ diventato così un giornalone anche il manifesto con quel titolo di prima pagina su Draghi che “avanza”. O Il Foglio con quel titolo in rosso su “Chi ci guadagna con Draghi al Colle (tutti)”. O il debenedettiano Domani con quell’editoriale intitolato “Cosa manca per arrivare all’elezione di Draghi”, non in senso ironico o scettico ma per dire che ormai ci siamo, nonostante i ritardi, almeno mentre scrivo, nelle operazioni di autorimozione della rumorosa -ma niente di più- candidatura di Silvio Berlusconi, pago di avere occupato anche con le sue esitazioni per un bel pò di tempo le prime pagine dei giornali. Come se lui fosse stato davvero il “protagonista” della corsa, dicono e scrivono i fedelissimi, soddisfatti pure loro di tanto presunto successo. Di cui peraltro staremo a vedere gli effetti dentro lo stesso centrodestra, dove è emersa sempre più chiaramente una certa, diffusa insofferenza verso il Cavaliere e anche il suo missionario nei palazzi della politica e delle istituzioni, già sottosegretario con lui alla Presidenza del Consiglio. Ultima e alquanto controversa è stata la visita di Gianni Letta a Palazzo Chigi prima di recarsi al penultimo vertice del centrodestra a Villa Grande, la nuova residenza romana di Berlusconi sull’Appia antica. 

Titolo del Riformista

Scrivevo, all’inizio, dell’amarezza che ha procurato -forse anche allo stesso Mattarella- l’inaugurazione dell’anno giudiziario in Cassazione. Di cui addirittura il Riformista di Piero Sansonetti, particolarmente sensibile ai problemi della giustizia, ha lamentato con un vistoso titolo di prima pagina -“Shhh, si apre l’anno giudiziario, ma non ditelo a nessuno…”- una certa clandestinità, pur nell’abbondanza di fotografie e immagini televisive. 

Immagini dalla Cassazione
Pietro Curzio

Con tono umile, fra citazioni di Voltaire e Leonardo Sciascia, sollevato anche dall’incubo di non poter neppure partecipare alla cerimonia dopo essere stato quasi deposto dal Consiglio di Stato e reintegrato in tutta fretta dal Consiglio Superiore della Magistratura, il primo presidente della Cassazione Pietro Curzio ha auspicato, promesso, garantito -come preferite- che “i giudici sapranno riparare ai loro errori”. E ciò evidentemente, o augurabilmente, sulla strada di quella “rigenerazione” reclamata più volte da Mattarella di fronte all’esplosione delle varie, poco commendevoli vicende di toghe, carriere e quant’altro. 

Giovanni Salvi

Ma diversamente da Curzio, e dai suoi toni quasi da scuse, il Procuratore Generale della Cassazione Giovanni Salvi ha orgogliosamente rivendicato il funzionamento della vigilanza interna della magistratura, e quindi la sua affidabilità nei riguardi di un’opinione pubblica forse troppo critica o pretenziosa. Pensate un pò, su 1748 notizie di illeciti di magistrati il sistema di autocontrollo ne ha archiviate 1229. Poteva anche arrivare a 1230 per fare cifra tonda. 

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Solo 515 battute, o caratteri, in memoria di Sergio Lepri

Di Sergio Lepri, l’ex direttore primatista- in tutto- dell’Ansa spentosi a 102 anni, voglio solo scrivere che, pur non avendo mai lavorato con lui, ne avevo una paura terribile: quella di procurarmi la sua disapprovazione, tanto lo stimavo come giornalista e come lettore. E’ una paura che mi venne quando egli stesso ebbe la cortesia di dirmi che aveva l’abitudine di seguirmi. 

Ora che non c’è più, non mi sento più libero da quella paura. Mi sento piuttosto più debole, più esposto all’errore. Addio, direttore. 

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