I chiodi dell’emergenza potrebbero valere anche per Mattarella

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Non debbono per niente stupire le doppie, triple e ancor più letture alle quali si è prestato subito l’annuncio della improvvisa conversione, autonoma o obbligata, di Mario Draghi alla necessità di prorogare lo stato di emergenza virale. Che non servirebbe solo a garantire la prosecuzione del buon lavoro del generale Francesco Paolo Figluolo a capo della mobilitazione contro il Covid 19 e varianti. Cui sarebbe bastato e basterebbe ancora qualche accorgimento legislativo diverso dal mantenimento dello stato di emergenza, secondo studi fatti eseguire nei giorni scorsi nelle segrete stanze del governo. 

Purtroppo -almeno per la trasparenza della politica- tutto ciò che accade in vista della cosiddetta corsa al Quirinale si presta a interpretazioni da oracolo più che da analisi. A questo proposito riferisco ai più giovani -fortunati loro- lo sfogo che raccolsi da Ado Moro dopo un articolo dedicatogli nel 1969 da Giovanni Spadolini, ancora direttore del Corriere della Sera, che pure lui stimava già in quei tempi, ben prima che da presidente del Consiglio tornato a Palazzo Chigi dopo la defenestrazione del 1968 lo nominasse ministro dei Beni Culturali. E gli confezionasse su misura, diciamo così, un dicastero con tanto di cosiddetto portafoglio ricorrendo addirittura ad un decreto legge. Era verso la fine del 1974.

Ebbene, prima di questa esperienza politica, ancora seduto come un Pontefice in via Solferino, sospettoso di ogni segnale che potesse far pensare a quella che lui definiva “Repubblica conciliare” pensando ad intese spurie fra democristiani e comunisti, Spadolini aveva lamentato che Moro, tornato semplice deputato dopo le prime esperienze di presidente del Consiglio, avesse votato con i comunisti, appunto, nella Commissione Pubblica Istruzione della Camera la modifica ad un disegno di legge per fare equivalere ad una promozione la parità di voti in un esame scolastico. “Ma come? Un professore come Spadolini -mi disse Moro- come fa a interpretare  maliziosamente una banalità del genere, simile a quel che accade nei tribunali quando si decide sulla condanna o sull’assoluzione di un imputato?”. Non si capacitava del fatto -il povero Moro- che una pur casuale o “banale”, come lui la chiamava, convergenza con i comunisti potesse essere scambiata per un progetto di alleanza a causa della deformazione derivante dalla scadenza pur lontana del Quirinale, mancando più di due anni -in quel momento- alla fine del mandato di Giuseppe Saragat. 

Mario Draghi a Palazzo Chigi

Di che cosa quindi ci meravigliamo se la proroga dello stato di emergenza è appena stato rappresentato su alcuni giornali, particolarmente quelli di area del centrodestra, con o senza il trattino che da qualche tempo usa e fa usare Silvio Berlusconi quando se ne parla o se ne scrive, come una mezza crocifissione di Mario Draghi a Palazzo Chigi? E il conseguente impedimento di una sua candidatura al Quirinale, fra qualche settimana, alla scadenza del mandato di Sergio Mattarella. Ma anche l’altrettanto conseguente aiutino alla pur difficile candidatura di Silvio Berlusconi. 

Sino a quando l’elezione del presidente della Repubblica continuerà ad essere indiretta, affidata cioè al Parlamento e non direttamente al popolo, il Quirinale diventerà, alla vigilia vicina o anche lontana degli avvicendamenti al vertice dello Stato, uno specchio deformante nella visione della politica. O, più precisamente, della lotta politica. 

Nel caso poi specifico di un Draghi praticamente vittima di una proroga dello stato di emergenza, dandone per scontata un’ambizione quirinalizia, con lo stesso metro di giudizio non si possono escludere altri effetti apparentemente o realmente perversi, secondo i gusti, della situazione eccezionale in cui il governo si trova e sta per confermarsi.  

Se l’emergenza vale per tenere Draghi inchiodato a Palazzo Chigi, nonostante il “trasloco” avvertito nell’aria di recente persino dalla moglie in una conversazione al bar con  chi confeziona gli aperitivi a lei e al marito, mi si deve spiegare perché non dovrebbe valere per Mattarella, da inchiodare al Quirinale se la ricerca di un successore dovesse rivelarsi più difficile del previsto, o addirittura impossibile. Cosa che già si verificò per altri versi nel 2013 con Giorgio Napolitano, dopo i fallimenti delle candidature di Franco Marini e di Romano Prodi, entrambi del Pd,

Nicola Mancino, ex presidente del Senato

Qualche giorno fa, dopo un’analoga uscita dell’ex senatore dell’ex Pci Claudio Petruccioli, anche l’ex senatore democristiano Nicola Mancino, già presidente dello stesso Senato e vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, ha avvertito in una intervista che l’ipotesi di una conferma di Mattarella non può, anzi non deve essere esclusa, per quanti no siano arrivati dall’interessato, persino di fronte ai bis reclamati in sei minuti di applausi dal pubblico del teatro milanese della Scala: compreso quello popolare del loggione, secondo la testimonianza e la cronaca del quirinalista del Corriere della Sera Marzio Breda. Il quale sembrava volesse sottolinearlo al presidente della Repubblica, che egli ha più occasioni certamente di noi di vedere o frequentare. 

Tutto quindi è ancora dannatamente o fortunatamemte aperto -anche qui secondo i gusti- nella corsa al Quirinale di fatto in corso, nonostante i cosiddetti leader fingano di non averlo capito. E di cui si  ostinano a voler parlare, anche se sollecitati a farlo per telefono da un attivissimo Matteo Salvini, solo dopo l’approvazione del bilancio, comunque imminente ormai. 

Pubblicato sul Dubbio

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