Una buona idea di Conte -una volta tanto- quella del Quirinale rosa

Titolo di Repubblica
Titolo di Nazione, Carlino e Giorno

Se fosse vera l’idea attribuita a Giuseppe Conte contemporaneamente da Repubblica e dai giornali del gruppo Riffeser Monti – La Nazione, il Resto del Carlino e Il Giorno- di trasformare quello del Quirinale da problema politico a problema di genere, sforzandosi dopo più di 75 anni di storia repubblicana di mandare una donna al Quirinale, non sarebbe da scartare, o da deridere. O da liquidare, come fa nei panni di un maschilista qualsiasi, il vecchio Paolo Cirino Pomicino, che proprio sui giornali del gruppo Riffeser Monti ha negato che esista in giro una donna all’altezza del  Colle per autorità, esperienza, investitura elettorale – come  se Carlo Azeglio Ciampi, per esempio, fosse stato mai eletto al Parlamento o solo ad un  Consiglio comunale- e quant’altro. Via, Paolo.

In un momento di grande confusione politica, come se non bastasse quella mista a paura procurataci dalla pandemia virale, con gli schieramenti di centrodestra e di centrosinistra entrambi nel pallone – l’uno in qualche modo sequestrato da una candidatura praticamente prenotata da Silvio Berlusconi, nonostante amici di lunga data gli lancino ogni giorno inviti a desistere per l’improbabilità di un successo, e l’altro appesantito da un elenco di aspiranti sotterranei che sembra quello telefonico- non sarebbe male svelenire la corsa al Quirinale facendola svolgere  stavolta sui tacchi femminili. 

Se veramente a Conte è venuta questa idea, ripeto, non sarebbe male. E ha fatto bene, l’ex presidente del Consiglio e ora presidente, più modestamente, del MoVimento 5 Stelle, o di quel che ne è rimasto, a non anticiparla al solito Marco Travaglio, che chissà come l’avrebbe gestita.  

Neppure Enrico Letta, il segretario del Pd col quale Conte è portato a conversare  per primo, può fingere di scendere dal pero, diciamo così, perché il suo esordio al Nazareno, dopo l’”esilio” parigino preferito alla frequentazione del suo collega ancora di partito Matteo Renzi, è avvenuto sventolando proprio la bandiera del genere per rimuovere entrambi i capigruppo parlamentari della sua formazione politica e sostituirli con donne. Delle quali il predecessore Nicola Zingaretti si era dimenticato trattando con Draghi -pur nei ristretti limiti della circostanza- la formazione del nuovo governo. 

Bisogna però che Conte non faccia errori troppo grossi di valutazione nel presupporre quali donne  al Quirinale potrebbero andare bene anche al centrodestra, che -bontà sua- ha riconosciuto necessario alla larga maggioranza chiesta dalla Costituzione per l’elezione del capo dello Stato: larga non solo con i due terzi dei voti nei primi tre scrutini, ma anche con la metà più uno del plenum nei successivi. Essa è una maggioranza qualificata, per niente “semplice” come spesso continuano a definirla persino politici di professione non ancora consapevoli che la maggioranza semplice è quella dei votanti e basta, al netto degli assenti, casuali o voluti che siano.  

La rosa di candidature al Colle attribuita a Conte

Se è vero -come gli attribuisce la Repubblica- che Conte considera appetibile per il centrodestra, oltre che l’ex ministra di Berlusconi Letizia Moratti, ora vice presidente della regione Lombardia, ed Elisabetta Belloni,  la diplomatica a capo dei servizi segreti, anche l’ex guardasigilli Paola Severino, temo che sbagli di grosso. Magari buona avvocata, o avvocatessa di tanti amici di Berlusconi, la Severino è pur sempre l’autrice di una legge concepita con Monti a Palazzo Chigi e applicata in nodo tale, persino retroattivo, da costare il seggio del Senato al Cavaliere nel 2013, con una votazione che l’allora presidente dell’assemblea Pietro Grasso volle persino palese, come la classica ciliegina sulla torta. Berlusconi starà pure esagerando con la sua scalata al Colle, che gli ha procurato proprio oggi altri sfottò anche degli amici ed estimatori del Foglio, ma non bisogna neppure abusare di lui. 

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

Se la legislatura inciampa nei referendum sulla giustizia osteggiati da Pd e grillini

Titolo del Dubbio

Sommersa dall’immagine del “nonno al servizio delle istituzioni”, anche come presidente della Repubblica se ne sarà il caso, la conferenza stampa di fine anno di Mario Draghi è stata sottovalutata in un passaggio importante attivato dal giornalista di Radioradicale Lanfranco Palazzolo. 

Il giudice Guido Salvini del tribunale di Milano

Quest’ultimo, senza farsi distrarre, diciamo così, dalla giostra del Quirinale piena di luci e di rumori, dalla quale scendono e salgono i candidati più disparati e anche improbabili alla vicina successione al presidente ostinatamente indisponibile, almeno sinora, ad una conferma o prolunga, ha chiesto al presidente del Consiglio di pronunciarsi sui referendum, particolarmente quelli della giustizia, promossi dagli eredi di Marco Pannella e dai leghisti. Sì, anche dal partito di Matteo Salvini, finalmente approdato al garantismo dopo il cappio sventolato nell’aula di Montecitorio sui banchi del Carroccio mentre la Procura di Milano chiedeva e otteneva da un un unico giudice delle indagini preliminari- come da clamorosa e autorevole testimonianza recente di Guido Salvini sul Dubbio- arresti in serie di sospettati di mani sporche nell’uso dei soldi destinati alla politica. L’inchiesta si chiamava infatti enfaticamente “Mani pulite”, come forse oggi non si potrebbe con le nuove disposizioni di stampo europeo a tutela della presunzione di innocenza o di non colpevolezza, come preferite, sino a condanna definitiva. 

Mario Draghi

Neppure in questo passaggio della conferenza stampa, delicato come pochi altri per la natura eterogenea della maggioranza emergenziale di governo, Draghi ha esitato. Egli ha seccamente ribadito, in vista dell’ultima tappa del percorso preparatorio dei referendum, davanti alla Corte Costituzionale, la decisione del governo di non opporsi, cioè di non contrastare l’iniziativa tanto temuta invece dalle toghe più politicizzate, o in vista, e da almeno due partiti della maggioranza, che non hanno voluto dare nessuna copertura alla raccolta delle firme: il Pd e il Movimento 5 Stelle. Eppure anche i grillini, e non solo i piddini, con cui fanno rima, hanno cominciato a provare sulla loro pelle -e persino a scusarsene qualche volta- l’acido dell’ingiustizia nella gestione di inchieste e processi di presunta corruzione e simili. Il rapporto con la magistratura rimane distorto, timoroso, subalterno e altro ancora sia per il partito -il Pd- tornato in testa ai sondaggi sia per il MoVimento che si vanta ancora in questo Parlamento di essere quello di maggioranza relativa, anche se di fatto non lo è più, con tutti gli abbandoni che ha subiti e quelli che stanno maturando nel finale di questa legislatura. Che gli stessi grillini hanno trasformato incautamente in una tonnara con quel taglio robusto di seggi apportato alla Camera e al Senato prossimi venturi. 

Come si fa in questa legislatura ridotta -ripeto- ad una tonnara, dove deputati e senatori sanguinano di paura sapendo di non poter essere confermati, ad evitare il passaggio dei referendum sulla giustizia scomodissimo per i due principali partiti della maggioranza? Non è una domanda da Rischiatutto. La risposta è facile e già sperimentata: nel 1972 per sfuggire al referendum sul divorzio, temuto sia dalla Dc antidivorzista  sia dal  Pci divorzista, e nel 1987 per sfuggire ai referendum sulla responsabilità civile dei magistrati e contro la produzione di energia nucleare. In particolare, la risposta sta nella sovrapposizione delle elezioni anticipate, che comportano il rinvio delle prove referendarie eventualmente indette. 

Enrico Letta con Giorgia Meloni
Giuseppe Conte con Giorgia Meloni

In una legislatura -ripeto ancora- ridotta ad una tonnara le elezioni anticipate sono ancora più sanguinanti del solito. Sono una decimazione che obbligano i vertici politici che vi sono interessati a operazioni di vera e propria mimetizzazione, per evitare di essere travolti dalle proteste interne ai loro partiti e gruppi parlamentari. Si sono pertanto sprecate negli ultimi tempi le prese ufficiali di posizione di Enrico Letta e di Giuseppe Conte contro l’interruzione della legislatura, reclamata invece a gran voce dalla sorella capitana dei “fratelli d’Italia” Giorgia Meloni. Con la quale -guarda caso- da qualche settimana a questa parte tanto Letta quanto Conte navigano come in crociera, scambiandosi battute, sorrisi e inviti. Lo fanno -direi- così imprudentemente e sfrontatamente da avere costituito anche anche un caso mediatico e politico, su cui hanno scritto articoli fior di esperti finendo però -debbo dire con franchezza-più nel colore che nella sostanza di una vera analisi. 

Quella che secondo me ci è andata più vicina a capire la situazione, a vedere la politica scivolare sulle bucce imputridite della giustizia pur non citate esplicitamente, e a tradurne i progetti  altrui in parole chiare, non cifrate come la maggior parte dei messaggi in questi tempi di corsa al Quirinale, è l’ex ministra, e renziana di ferro, Maria Elena Boschi. “So per certo -ha detto- che Letta e Conte hanno bisogno delle elezioni anticipate, come le vorrebbe la Meloni”. “Da sempre -ha aggiunto pensando alle votazioni di fine gennaio a Montecitorio per il Quirinale- maggioranza parlamentare e maggioranza presidenziale sono due aggregazioni diverse, non necessariamente convergenti. Se si va al voto è per Letta, Meloni, Conte”.  Più che un ex ministra, sembra aver sentito un oracolo.

Pubblicato sul Dubbio

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