Silvio Berlusconi cinofilo e bisnonno sulla salita del Quirinale…

Questa poi Silvio Berlusconi se la poteva risparmiare. E poteva, ancor più, risparmiarla alla parte più di opinione del suo peraltro ridotto elettorato. E’ la fotografia da cinofilo con la quale ha voluto augurare buon Natale e “gioia insieme alle persone a cui volete bene”: cani, gatti e non so cos’altro compresi, o soprattutto ad essi, visti i tempi pericolosi in cui viviamo potendoci forse fidare solo degli animali domestici per difenderci bene dal Covid e varianti, compreso l’Omicron che sta facendo tremare mezzo mondo, a dir poco. A meno che qualche virologo non ci demolisca anche la  fiducia nei cani e simili. 

Capisco la voglia incontenibile del Cavaliere -lasciando l’ex ai soliti detrattori- di apparire simpatico, alla mano e quant’altro, pur dividendosi  elitariamente tra una villa e l’altra, e offrendo agli ospiti di turno alle sue tavole ogni ben di Dio, come riferiscono le cronache, lasciando a bocca asciutta il pubblico che potrebbe anche non gradire per invidia, o indigenza. Ma mettersi in posa col cane nel bel mezzo della sua corsa un pò negata ma un pò anche ammessa al Quirinale non mi sembra francamente appropriato. Basta e avanza -credo- per popolarizzare questa benedetta corsa  al Colle più alto di Roma la storia del bisnonno opposta a quella del nonno “a disposizione delle istituzioni” cui ha fatto ricorso quel furbacchione di Mario Draghi nella conferenza stampa di fine anno. 

Mario Monti alle “Invasioni barbariche” del 7 febbraio 2013

Poiché lo so peraltro leggermente scaramantico, mi ha stupito come s Berlusconi si sia messo da solo, senza neppure la provocazione o lo sgambetto di un conduttore o una conduttrice di casa, nella posizione non proprio fortunata -direi- di Mario Monti la sera del 7 febbraio 2013, in campagna elettorale, nel salotto televisivo di Daria Bignardi. Che proprio per mettere l’allora presidente del Consiglio in concorrenza col suo predecessore a Palazzo Chigi, esibito con tanto di foto sullo sfondo, gli donò e mise praticamente in braccio una cagnolina. Non ne ricordo più il nome.

L’esito di quel tentativo di popolarizzazione dell’algido professore, tecnico e quant’altro, mandato a Palazzo Chigi da Giorgio Napolitano anche con la polizza a vita di senatore nominato per alti meriti, fu alquanto deludente, a dir poco. Il partito, o quasi partito, improvvisato dall’allora presidente del Consiglio non resistette alla prova delle urne non perché non  avesse avuto voti ma perché si sfasciò subito non sapendoli gestire nelle aule parlamentari. Neppure la cagnetta appena ricevuta in regalo ebbe la soddisfazione di vedere il suo padrone confermato alla Presidenza del Consiglio o promosso, come qualcuno gli aveva addirittura preconizzato, al Quirinale per sostituire il presidente uscente della Repubblica Giorgio Napolitano. 

Monti, di cui pure Berlusconi si era vantato di avere scoperto le doti promuovendone a suo tempo la nomina a commissario europeo, si consolò -ma forse consolò un pò meno i suoi elettori – vantandosi di avere tolto allo stesso Berlusconi nelle elezioni i voti che gli sarebbero stati necessari per vincerle e conquistare anche il Quirinale per sé, oltre che Palazzo Chigi per qualche amico o alleato. E con questi precedenti -mi chiedo- il buon Berlusconi si mette in posa col suo cane, o la sua cagnetta, come un Monte qualsiasi, o di ripiego? Via, presidente, come ormai ha acquistato il diritto di essere chiamato per tutta la vita, pur senza diventare per forza Capo dello Stato. 

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

La profezia elettorale della Boschi pensando a Letta, Conte e Meloni

In una Camera pur sfiancata dal Covid e frustrata dal fatto di non aver potuto toccare palla nella partita del bilancio, o manovra finanziaria, tutta giocata in modo peraltro sommerso al Senato, la ragionevolezza vuole che l’ex ministra renziana Maria Elena Boschi, aiutata anche dalla sua avvenenza fisica che le va riconosciuta senza dovere incorrere per questo in chissà quali insulti, abbia frequentazioni, impressioni, sensazioni superiori a quelle di noi poveri giornalisti parlamentari. Che peraltro proveniamo da  una lunga astinenza da Transatlantico: lo storico corridoio di Montecitorio solo di recente restituito ai nostri passi più o meno perduti con deputati, senatori di passaggio, ministri, portaborse, portavoce e quant’atro.

Maria Elena Boschi al Messaggero del 24 dicembre
Meloni e Conte di recente

La Boschi, dicevo, deve averne sentite e avvertite abbastanza per poter dire in una intervista al Messaggero, prima che i giornali si prendessero ben due giorni di assenza natalizia: “So per certo che Letta e Conte hanno bisogno delle elezioni anticipate, così come le vorrebbe la Meloni”. I tre del resto hanno recentemente avuto occasioni di incontrarsi e festeggiarsi a vicenda, sia pure sotto la fastidiosa pioggia che ha bagnato il raduno annuale dei “fratelli d’Italia”. Essi sono peraltro accomunati da disagio o indifferenza verso i referendum sulla giustizia ai quali lodevolmente il governo di Mario Draghi ha deciso di non opporsi nell’esame preventivo della Corte Costituzionale. 

Enrico Letta e Meloni

“Da sempre maggioranza parlamentare e maggioranza presidenziale sono due aggregazioni diverse, non necessariamente convergenti. Se si va al voto è per Letta, Meloni, Conte”, ha insistito l’ex ministra e fedelissima di Matteo Renzi contestando fra le righe anche le preoccupazioni espresse da Draghi nella sua conferenza stampa di fine anno -quella del “nonno a disposizione delle istituzioni”- sui rischi politici di una spaccatura del largo schieramento emergenziale del governo in occasione dell’elezione del presidente della Repubblica. 

Ci soccorre un pò il ricordo dell’elezione di Giovanni Leone al Quirinale alla vigilia di Natale del 1971.  La maggioranza di centrosinistra spaccatasi in quel passaggio si portò appresso nella caduta le Camere, sciolte dal nuovo presidente della Repubblica, non perché le elezioni anticipate fossero inevitabili chissà per quale algoritmo ma solo perché la Dc, partito di maggioranza relativa guidato in quel momento da Arnaldo Forlani, ritenne politicamente conveniente il ricorso alle urne per il conseguente rinvio  referendum sul divorzio, particolarmente scomodo per lo scudo crociato antidivorzista, ma  anche per il Pci divorzista. Come questa volta lo sono i referendum sulla giustizia sia per il Pd e sia per ciò che rimane, sotto la guida del pur avvocato Giuseppe Conte, del Movimento 5 Stelle: lasciatisi entrambi condizionare spesso dai magistrati, salvo rammaricarsi degli infortuni, diciamo così, occorsi anche a qualcuno della loro parte con assoluzioni tardive, a danni irrimediabilmente procurati all’ex imputato.

Il cappio leghista alla Camera

I magistrati, si sa, soprattutto quelli di prima linea, cresciuti all’ombra delle loro inchieste enfatizzate e pilotate anche nelle fughe di notizie utili ai processi mediatici e sommari, che precedono quelli ordinari nei tribunali, hanno molto, anzi moltissimo da temere dalle prove referendarie  promosse da quei rompiscatole di radicali e di leghisti finalmente convertiti al garantismo, dopo avere alimentato il giustizialismo e il manettarismo negli anni -ricordate?- di “Mani pulite”. E’ ancora custodito in un deposito della Camera il chiappo esibito da un deputato della Lega nell’aula, durante un dibattito, e fatto sequestrare dal presidente Giorgio Napolitano.            

Sono storie d’altri tempi, dirà qualcuno dalle parti del Carroccio. D’accordo, ma fino ad un certo punto. Comunque è sempre bene conoscerle e ricordarle, persino sotto l’albero di Natale, anche per scrutare e valutare bene ciò che accade. E potrebbe persino ripetersi. 

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