L’aula del Senato come una fossa di serpenti per un seggio controverso

La cronaca del Foglio

L’ormai ex bomboniera di Palazzo Madama, come veniva chiamata per dimensioni ed eleganza l’aula del Senato, alle prese con la pur modesta questione -rispetto alle tante altre sul tappeto- del seggio contestato dal forzista Claudio Lotito al renziano Vincenzo Carbone, è sembrata ieri una fossa di serpenti. Lo scrivo con tutto il rispetto dovuto, per carità, alle istituzioni e a quel ramo del Parlamento -non del lago di Como di manzoniana memoria- che sembrava il più nobile, selezionato, austero e quant’altro, sopravvissuto anche alla sfida fattagli con le mani in tasca da Matteo Renzi, dai banchi del governo come presidente del Consiglio, preannunciandone nel 2014 il declassamento. Che fu poi tradotto in una riforma costituzionale bocciata però in via referendaria nel 2016.

Il senatore eletto Carbone
Il senatore mancato Lotito

I senatori austeri di un tempo, salvo qualche scivolata con la mortadella mangiata sui banchi dell’opposizione alla caduta prematura,, al solito, di un governo di Romano Prodi, prima hanno praticamente accettato a voto palese, respingendo una richiesta “sospensiva” illustrata dall’ex presidente dell’assemblea Pietro Grasso, e poi altrettanto praticamente respinto, a scrutinio segreto,  con un’altra richiesta sospensiva peraltro della stessa parte politica, la decadenza di Carbone a vantaggio di Lotito. Che era stata proposta dalla giunta competente dopo quasi tre anni di accertamenti sui conteggi elettorali del 2018 in Campania. Che è la regione dove Carbone e Lotito si proposero agli elettori.

La questione, ripeto, può ben essere considerata minore rispetto alle tante altre che contrassegnano questa stagione politica, fra le quali una legge di bilancio-tanto per dire- in ritardo anche con un governo presieduto da un uomo di competenza, autorevolezza ed energia come Mario Draghi. E per di più minacciato da oltre seimila emendamenti proposti anche da gruppi ed esponenti della maggioranza. E siamo “solo” a un anno e mezzo, più o meno, dalle elezioni ordinarie del 2023. Figuriamoci quanti potranno, o potrebbero essere gli emendamenti l’anno prossimo, alla vigilia di quelle elezioni. Più che discutere, e scontrarsi, sul tema del voto anticipato, si dovrebbe discutere, e scontrarsi, sulla durata della campagna elettorale: se la si preferisce di un anno e mezzo o di alcuni mesi. Ma, anche se minore, ripeto ancora, la questione che ha trasformato l’aula del Senato in una fossa di serpenti si proietta sinistramente su ciò che potrà accadere a gennaio nell’altra aula del Parlamento, quella di Montecitorio. Dove gli stessi senatori, i ben più numerosi ma non meno sparpagliati deputati e i delegati regionali dovranno votare e basta, a scrutinio rigorosamente segreto, magari protetto dai soliti catafalchi, per l’elezione del nuovo presidente della Repubblica.    

Angela Merkel

Solo a pensarci, diciamo la verità, vengono i brividi. Beati quelli che non li avvertono, e magari non vedono l’ora di dare o assistere allo spettacolo di una fossa ancora più grande e affollata di serpenti, pur in un Paese che la cancelliera uscente, anzi uscita, della Germania Angela Merkel ha avuto la cortesia di invidiare almeno per come ha saputo fronteggiare, magari a sua insaputa, la tragica emergenza della pandemia virale. Grazie, signora, ma non si spenda troppo in questa invidia perché temo che i serpenti di casa nostra possano approfittarne montandosi la testa, e facendosi più velenosi.

Ripreso da http://www.policymakermag.it

Il camaleontismo suicida, altro che ammirevole, dei grillini

Titolo del Dubbio
Giuliano Ferrara sul Foglio del 1° dicembre

Come ha fatto Giuliano Ferrara con “Giggino” Di Maio, avvolgendolo nel suo Foglio con un abbraccio ironico ma non troppo per la capacità, o disinvoltura, con la quale ha saputo cambiare posizioni politiche, in linea col passaggio da “bibitaro” a ministro degli Esteri della Repubblica, così qualcuno potrebbe unirsi a Goffredo Bettini e difendere da certa morale “spicciola” -parola sempre di Ferrara- il professore,  avvocato, ex presidente del Consiglio e ora presidente del MoVimento 5 Stelle Giuseppe Conte. Che non è stato neppure lui, con le professioni e la cultura che si ritrova, un inflessibile difensore del modello grillino premiato così generosamente dagli elettori nel 2018 da fargli conquistare in Parlamento  quella “centralità” che fu una volta della Democrazia Cristiana.

Anche Conte ne ha fatta di strada. E ne ha avuta di pazienza per resistere al “vaffanculo”, direbbe sempre Ferrara, gridato anche contro di lui da Beppe Grillo prima di rimangiarselo con un pesce offertogli non so se più generosamente o opportunisticamente dal professore in un ristorante sulla spiaggia di Marina di Bibbona.

Onore insomma al camaleontismo e sberleffi ai “piccoli borghesi di tutto il mondo” invitati dal fondatore del Foglio a “disunirsi” per accettare che “Giggino li abbia fregati partendo da un gradino sotto la classe media”. Figurarsi Conte, partito da un gradino sopra, senza aver dovuto vendere bibite né nella sua Volturara Appula, né a Firenze, né a Roma, o ovunque gli sia capitato di vivere, studiare, insegnare e guadagnare.

C’è tuttavia qualcosa di questi camaleonti eccezionali che a me, anche a costo di finire nella bolgia infernale dei “piccolo-borghesi” sbertucciati dall’amico Giuliano, continua a non tornare anche dopo aver cercato di fare un bagno, sia pure fuori stagione, nelle acque dell’umiltà, o persino della mediocrità. “Aurea mediocritas”, scherzava persino Giulio Andreotti vantandosene.

“Giuseppi”, per dirla con Trump, “Giggino”, per ripeterla con Ferrara, e i loro simili, concorrenti o “amici” come si chiamavano fra di loro anche i democristiani che si facevano le guerre più feroci, personali e di corrente, potranno pur vantarsi di tutte le capacità di adattamento che hanno saputo dimostrare, ma debbono una buona volta cercare di spiegare l’omicidio che hanno fatto di questa legislatura in corso. Che avrebbero dovuto invece blindare dopo la miracolosa conquista della maggioranza relativa meno di quattro anni fa.

Non vi è Parlamento della storia della Repubblica italiana- paradossalmente neppure quello eletto nel 1992 nel clima avvelenato di Tangentopoli e sciolto meno di due anni dopo dall’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro- così rovinosamente e rapidamente delegittimato come quello conquistato dai grillini nel 2018.

A delegittimare le Camere attuali -prima che a ingessarle provvedesse l’emergenza della pandemia opposta dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella all’inizio di quest’anno alla necessità delle elezioni anticipate emersa dalla lunga e tortuosa crisi del secondo governo Conte- provvidero proprio i grillini imponendo già nelle prime battute della legislatura la riforma costituzionale per tagliarne i seggi. E soddisfare la voglia di forbici e di ghigliottine del loro elettorato.

Eppure bastava non dico molta ma un pochino di professionalità politica per capire che una simile riforma, una volta approvata e confermata dal referendum, avrebbe reso le Camere in carica una mezza caricatura: un rottame, direbbe quel professionista del ramo che è stato per qualche tempo Matteo Renzi, prima di candidarsi anche lui da solo alla demolizione  con l’avventura del 2 per cento della sua Italia Viva. Che è sempre meglio, per carità, del 2 per mille cui Renzi spera che finisca per condannarsi il MoVimento 5 Stelle. Dove il 2 per mille hanno intanto cominciato ad adottarlo come meccanismo, chiamiamolo così, di finanziamento pubblico iscrivendosi all’ odiato, vituperato registro nazionale dei partiti. 

A causa del pasticcio combinato con i tempi della “loro” riforma costituzionale, forse non a caso lasciata in fondo passare dagli avversari, che vi hanno anzi contribuito capovolgendo la linea iniziale di contrasto, i grillini hanno trasformato il Parlamento anch’esso ormai in scadenza, a poco più di un anno dalla data ordinaria del rinnovo, in una tonnara. Dove i più agitati e metaforicamente sanguinanti sono proprio loro, i pentastellati, destinati ad una doppia decimazione: quella dei seggi, ridotti di un terzo, e quella dei voti, ridotti ancora di più. Dal 33 per cento del 2018 sono scesi all’11 dell’ultimo sondaggio del Sole-24 Ore, poco sopra il 10,8 ottimisticamente attribuito a Forza Italia.

Pazienza, tuttavia, per le sorti del partito -ora si può dire- delle 5 Stelle e di ciò che resta dei suoi gruppi parlamentari dopo tutti gli abbandoni di questi anni. Il guaio maggiore è costituito dal fatto che è inevitabilmente a questo Parlamento, pur così tanto delegittimato e comunque politicamente indebolito, che spetta il compito di eleggere fra poche settimane il successore di Mattarella. Che dovrà portarsi addosso l’handicap di un’elezione da parte di Camere nel migliore dei casi ingessate, come si diceva. A meno che Mattarella non faccia al sistema politico la grazia della disponibilità ad una conferma per il tempo necessario a fare scegliere il successore dalle nuove Camere.

Pubblicato sil Dubbio

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