Giuseppe Conte sente il “ruggito” dei suoi motori, beato lui…

Claudio Bozza sul Corriere della Sera

Non è una barzelletta. E’ una metafora adottata dallo stesso Giuseppe Conte quella del pilota  del MoVimento 5 Stelle finalmente in grado, dopo il referendum digitale che ha ratificato il suo nutrito organigramma, per un complesso di più di novanta nomine fra vice presidenti, coordinatori, responsabili e via dicendo, di partire con la macchina piena di carburante e le cinture -immagino- di sicurezza ben allacciate. E’ una macchina, in verità, dal numero imprecisato di motori, tutti “accesi”, secondo l’annuncio dato agli assistenti. Ai quali tuttavia, passando al singolare, Conte ha chiesto orgogliosamente: “Si sente il ruggito di questo motore?”. Parola di Claudio Bozza sul Corriere della Sera, a pagina  prudentemente quindicesima. 

Persino Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano, pur soddisfatto del compimento di un percorso cominciato a febbraio in un albergo romano con vista sui fori imperiali, dove l’ex presidente del Consiglio ricevette da Beppe Grillo in persona, alla presenza dei soliti intimi, il compito di “rifondare” il MoVimento maggiormente rappresentato in Parlamento ma già alquanto confuso e disorganizzato, ha dovuto ammettere la fragilità della “media del 90 per cento” vantata nell’annuncio dei risultati favorevoli del referendum digitale sulle nomine interne. Hanno votato 28.322 persone -si spera- dei 131.790 aventi diritto al voto, pari a circa il 20 per cento, inferiore anche al dato della prova recente sulla conversione al meccanismo di finanziamento pubblico del 2 per mille ai partiti. Il 90 per cento dei sì è stato pertanto solo del 20 per cento dei votanti. Il carburante insomma della macchina di Conte non sembra dei migliori neppure -ripeto- ad un estimatore del professore-pilota come Travaglio. Che ha profittato anzi dell’occasione per “un monito” all’ex presidente del Consiglio, anche o soprattutto in vista della prova che lo attende nelle elezioni presidenziali di gennaio. 

Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano

“Ognuno -ha scritto Travaglio a proposito di Conte- ha i suoi modi e lui, come ha detto Grillo una volta tanto non a sproposito, è “un gentleman più adatto ai penultimatum che agli ultimatum. Non riuscirebbe a parlare male di Belzebù, anzi ci troverebbe qualcosa di buono. Dunque nessuno pretende che definisca Berlusconi psiconano o puttaniere. Ma dire che “ha fatto molte cose buone” o tributare “rispetto al netto del conflitto d’interessi” a un pregiudicato che la Cassazione indica come frodatore fiscale e finanziatore della mafia è molto meno del minimo sindacale, specie per il leader 5S. In politica, dopo le buone prove da premier, Conte non ha nulla da imparare da Grillo (che deve farsi perdonare la resa senza condizioni a Draghi), ma in comunicazione sì”. 

Vi lascio immaginare che colpo agli stinchi, o altrove, sarebbe per Travaglio non dico una giravolta ma un semplice abbassamento dei toni solitamente villani di Grillo nei riguardi di Berlusconi. Dalla cui corsa al Quirinale, per quanto non ancora ufficiale, Travaglio è ossessionato quasi più che da un ripensamento di Sergio Mattarella dopo tutti i no pronunciati al bis, anche dopo quello reclamato alla Scala persino dal loggione, secondo la testimonianza del quirinalista del Corriere della Sera Marzio Breda, quasi tentato da questa circostanza a unirsi anche lui agli appelli che tanto sembrano ancora infastidire il presidente uscente della Repubblica. 

Fotomontaggio del Fatto Quotidiano

Il fotomontaggio pubblicato oggi sul Fatto Quotidiano conferma come meglio non si potrebbe l’ossessione di Travaglio, che vede Berlusconi dappertutto. E quasi quasi gli attribuisce tutti i “273 cambi di casacca su 945 parlamentari” verificatisi in Parlamento dalle elezioni del 2018: traditori, transfughi, corrotti, poltronari e quant’altro fra i quali lo “psiconano” di fattura grillina starebbe pescando i voti necessari alla propria elezione. Gliene mancherebbero per il quarto scrutinio e successivi, a maggioranza assoluta e non più dei due terzi, ormai solo 25 secondo i calcoli non ho capito bene se più di Berlusconi o dello stesso Travaglio. 

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

La polemica intrecciata tra Quirinale, stampa e senatori del Pd

Titolo del Dubbio
Il senatore Luigi Zanda

Mi spiace che i tre senatori del Pd benemeriti per avere presentato un salutare disegno di legge di modifica della Costituzione che riconoscerebbe il diritto di sciogliere anticipatamente le Camere al presidente della Repubblica anche nell’ultimo semestre del suo mandato, impedendone però la conferma, abbiano scambiato per un’offesa, addirittura per un’accusa implicita di “ipocrisia”, come mi hanno scritto due di loro, quella che invece voleva essere una difesa, sia pure con un rammarico su cui tornerò.

Il senatore Gianclaudio Bressa
Il senatore Dario Parrini

Gianclaudio Bressa, Dario Parrini e Luigi Zanda -nello stesso ordine alfabetico dei loro cognomi usato nel precedente articolo- si sono trovati secondo me nella scomoda e immeritata traiettoria di un tiro obliquo partito dal Quirinale contro le diffuse interpretazioni giornalistiche della loro iniziativa legislativa. Secondo le quali la prospettiva di una modifica della Costituzione per definire meglio in futuro la figura del capo dello Stato potrebbe offrire al presidente uscente Sergio Mattarella l’occasione di una conferma temporanea,  in attesa dell’approvazione delle nuove norme. 

La reazione del Quirinale è stata tranciante. E’ mancato solo che il capo dello Stato, accogliendo l’invito formulatogli il 27 novembre dal direttore del Fatto Quotidiano Marco Travaglio, traducesse la sua protesta con queste parole in dialetto siciliano: “Chi camurria, m’avete scassatu a minchia”. E in quel plurale non c’erano soltanto i giornalisti scambiati da Travaglio per colleghi prezzolati, al servizio di una causa  chissà perché aberrante, ma anche i tre senatori del Pd. 

Questi ultimi fanno bene, per carità, a sostenere di avere assunto la loro iniziativa senza secondi fini, diciamo così, diversi cioè dallo scopo dichiarato di un funzionamento più efficiente del sistema istituzionale dopo più di 70 anni di esperienza. E di inconvenienti, diciamo così, lamentati da due presidenti della Repubblica – Antonio Segni e Giovanni Leone- citati per condivisione pubblicamente da Mattarella celebrandone la memoria.

I tre senatori hanno ragione anche a precisare, come in particolare ha fatto con me Dario Parrini, presidente della Commissione Affari Costituzionali, che la loro iniziativa è stata formalizzata in questa stagione terminale della legislatura, a poco più di un anno dalla fine ordinaria, per ragioni che potremmo ben definire di galateo personale e istituzionale. Cioè per evitare che essa fosse scambiata, troppo in anticipo rispetto alla scadenza del mandato di Mattarella, per un atto di sfiducia al presidente in carica, come se lo si fosse ritenuto indegno o non adatto personalmente ad una conferma. 

Dove i tre senatori hanno invece torto -e mi permetto di ribadirlo, pur avendo in particolare con uno di loro, Luigi Zanda, un personale e vecchio rapporto di stima e amicizia- è il terreno di neutralità o indifferenza in cui si sono praticamente posti di fronte al malumore, chiamiamolo così, espresso dal Quirinale per i giornali. I quali saranno pur liberi -ho scritto e ribadisco- di interpretare liberamente non dico le intenzioni ma gli effetti oggettivi che possono derivare sulla situazione politica, e sui suoi sviluppi, da un disegno di legge. Questo mi aspettavo dai tre senatori, o da qualcuno almeno di loro: la difesa della libera stampa, che per fortuna esiste ancora in Italia, al netto di tutti gli errori e di tutte le faziosità possibili e immaginabili.

L’ex senatore Claudio Petruccioli

La politica resta naturalmente sovrana, rispetto all’informazione almeno, visto che rispetto alla magistratura ho purtroppo motivo di esprimere qualche dubbio o riserva. In questo concordo pienamente con le osservazioni dell’ex senatore Claudio Petruccioli. Che in una intervista al Riformista ha contestato la sensazione, anche da me avvertita a botta calda, che con la protesta del Quirinale contro le interpretazioni giornalistiche del disegno di legge dei tre senatori del Pd dovesse considerarsi sepolta l’ipotesi del cosiddetto Mattarella bis. Che, specie dopo quel bis invocato alla Scala, se proposta responsabilmente dai partiti nei tempi e nelle modalità da loro preferite, a elezioni presidenziali già cominciate in Parlamento o prima ancora, imporrebbe a Mattarella una risposta essa sì definitiva. A ciascuno insomma il suo, che è poi anche il titolo di un romanzo giallo di Leonardo Sciascia, ispirato nel 1966 all’assassinio di un commissario di Pubblica Sicurezza. 

Sergio Mattarella al Quirinale

Pace fatta, senatori del Pd che vi siete sentiti curiosamente offesi da quella che voleva essere invece nelle nostre intenzioni una vostra difesa, coniugata tuttavia con il libero esercizio della nostra professione giornalistica? Me lo auguro. Così come mi auguro che al Quirinale sia tornato il clima del distacco e persino dell’autoironia cui Sergio Mattarella ci aveva lodevolmente abituati prima della sorpresa da cui è derivata tutta questa polemica in una stagione politica -lo ammetto- alquanto complicata. O più complicata del solito. Quel bis levatosi la sera del 7 dicembre dalla Scala -anche dal loggione, come è stato raccontato dal quirinalista del Corriere della Sera Marzio Breda- non verso il corpo artistico e l’orchestra del Macbeth ma verso il presidente della Repubblica ospite del teatro sarà almeno apparso spontaneo a Mattarella, cioè estraneo alle macchinazioni o chissà che altro avvertito invece nei commenti giornalistici positivi all’iniziativa legislativa assunta al Senato.

Pubblicato sul Dubbio  

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