

Mi spiace che i tre senatori del Pd benemeriti per avere presentato un salutare disegno di legge di modifica della Costituzione che riconoscerebbe il diritto di sciogliere anticipatamente le Camere al presidente della Repubblica anche nell’ultimo semestre del suo mandato, impedendone però la conferma, abbiano scambiato per un’offesa, addirittura per un’accusa implicita di “ipocrisia”, come mi hanno scritto due di loro, quella che invece voleva essere una difesa, sia pure con un rammarico su cui tornerò.


Gianclaudio Bressa, Dario Parrini e Luigi Zanda -nello stesso ordine alfabetico dei loro cognomi usato nel precedente articolo- si sono trovati secondo me nella scomoda e immeritata traiettoria di un tiro obliquo partito dal Quirinale contro le diffuse interpretazioni giornalistiche della loro iniziativa legislativa. Secondo le quali la prospettiva di una modifica della Costituzione per definire meglio in futuro la figura del capo dello Stato potrebbe offrire al presidente uscente Sergio Mattarella l’occasione di una conferma temporanea, in attesa dell’approvazione delle nuove norme.
La reazione del Quirinale è stata tranciante. E’ mancato solo che il capo dello Stato, accogliendo l’invito formulatogli il 27 novembre dal direttore del Fatto Quotidiano Marco Travaglio, traducesse la sua protesta con queste parole in dialetto siciliano: “Chi camurria, m’avete scassatu a minchia”. E in quel plurale non c’erano soltanto i giornalisti scambiati da Travaglio per colleghi prezzolati, al servizio di una causa chissà perché aberrante, ma anche i tre senatori del Pd.
Questi ultimi fanno bene, per carità, a sostenere di avere assunto la loro iniziativa senza secondi fini, diciamo così, diversi cioè dallo scopo dichiarato di un funzionamento più efficiente del sistema istituzionale dopo più di 70 anni di esperienza. E di inconvenienti, diciamo così, lamentati da due presidenti della Repubblica – Antonio Segni e Giovanni Leone- citati per condivisione pubblicamente da Mattarella celebrandone la memoria.
I tre senatori hanno ragione anche a precisare, come in particolare ha fatto con me Dario Parrini, presidente della Commissione Affari Costituzionali, che la loro iniziativa è stata formalizzata in questa stagione terminale della legislatura, a poco più di un anno dalla fine ordinaria, per ragioni che potremmo ben definire di galateo personale e istituzionale. Cioè per evitare che essa fosse scambiata, troppo in anticipo rispetto alla scadenza del mandato di Mattarella, per un atto di sfiducia al presidente in carica, come se lo si fosse ritenuto indegno o non adatto personalmente ad una conferma.
Dove i tre senatori hanno invece torto -e mi permetto di ribadirlo, pur avendo in particolare con uno di loro, Luigi Zanda, un personale e vecchio rapporto di stima e amicizia- è il terreno di neutralità o indifferenza in cui si sono praticamente posti di fronte al malumore, chiamiamolo così, espresso dal Quirinale per i giornali. I quali saranno pur liberi -ho scritto e ribadisco- di interpretare liberamente non dico le intenzioni ma gli effetti oggettivi che possono derivare sulla situazione politica, e sui suoi sviluppi, da un disegno di legge. Questo mi aspettavo dai tre senatori, o da qualcuno almeno di loro: la difesa della libera stampa, che per fortuna esiste ancora in Italia, al netto di tutti gli errori e di tutte le faziosità possibili e immaginabili.

La politica resta naturalmente sovrana, rispetto all’informazione almeno, visto che rispetto alla magistratura ho purtroppo motivo di esprimere qualche dubbio o riserva. In questo concordo pienamente con le osservazioni dell’ex senatore Claudio Petruccioli. Che in una intervista al Riformista ha contestato la sensazione, anche da me avvertita a botta calda, che con la protesta del Quirinale contro le interpretazioni giornalistiche del disegno di legge dei tre senatori del Pd dovesse considerarsi sepolta l’ipotesi del cosiddetto Mattarella bis. Che, specie dopo quel bis invocato alla Scala, se proposta responsabilmente dai partiti nei tempi e nelle modalità da loro preferite, a elezioni presidenziali già cominciate in Parlamento o prima ancora, imporrebbe a Mattarella una risposta essa sì definitiva. A ciascuno insomma il suo, che è poi anche il titolo di un romanzo giallo di Leonardo Sciascia, ispirato nel 1966 all’assassinio di un commissario di Pubblica Sicurezza.

Pace fatta, senatori del Pd che vi siete sentiti curiosamente offesi da quella che voleva essere invece nelle nostre intenzioni una vostra difesa, coniugata tuttavia con il libero esercizio della nostra professione giornalistica? Me lo auguro. Così come mi auguro che al Quirinale sia tornato il clima del distacco e persino dell’autoironia cui Sergio Mattarella ci aveva lodevolmente abituati prima della sorpresa da cui è derivata tutta questa polemica in una stagione politica -lo ammetto- alquanto complicata. O più complicata del solito. Quel bis levatosi la sera del 7 dicembre dalla Scala -anche dal loggione, come è stato raccontato dal quirinalista del Corriere della Sera Marzio Breda- non verso il corpo artistico e l’orchestra del Macbeth ma verso il presidente della Repubblica ospite del teatro sarà almeno apparso spontaneo a Mattarella, cioè estraneo alle macchinazioni o chissà che altro avvertito invece nei commenti giornalistici positivi all’iniziativa legislativa assunta al Senato.
Pubblicato sul Dubbio
Rispondi