Giochi e giochini della politica lungo la strada del Quirinale

In quel panettone affettato da Mario Draghi con le facce degli aspiranti al Quirinale, tutti ora minacciati dalla sua disponibilità a trasferirvisi da Palazzo Chigi, Emilio Giannelli ha visto non a torto la rappresentazione più felice, in tempi natalizi, della conferenza stampa  del presidente del Consiglio conclusiva dell’anno e forse anche del suo governo. Cui potrebbe ben subentrarne un altro, con la stessa maggioranza di sostanziale unità nazionale, se allo stesso Draghi dovesse davvero accadere di sostituire Sergio Mattarella alla scadenza del mandato settennale, fra poco più di un mese. 

La vignetta di Staino sulla Stampa

Altrettanto realistica è la vignetta di Sergio Staino sulla Stampa con quell’ambulanza pronta a portare all’ospedale o Silvio Berlusconi, se afflitto dalla sconfitta nella corsa al Colle, o il suo amico e compagno di partito Renato Brunetta afflitto dalla sconfitta invece di Draghi. Che rimanendo a Palazzo Chigi non potrebbe passargli la staffetta di presidente del Consiglio, come ministro più anziano, neppure per un giorno, o un’ora.

Titolo del Giornale

Della prospettiva di una mancata promozione del presidente del Consiglio, nella presunzione che essa possa lasciare in corsa Berlusconi, si è gonfiato il petto, o il cervello, il Giornale di famiglia con quel titolone di prima pagina su “Tutti contro Draghi al Colle”, anche se non sembra che siano proprio tutti. Il Pd , per esempio, è quanto meno diviso, come al solito,  sulla questione, come pure nella valutazione del no sinora opposto da Mattarella all’ipotesi di una sua conferma praticamente a termine. Che pure consentirebbe di lasciare prudentemente le cose come stanno nell’anno residuo della legislatura e, soprattutto, anche se non si ha il coraggio di dirlo pubblicamente, di lasciare la successione a Mattarella alle nuove, più rappresentative e più legittimate Camere di seicento parlamentari, fra deputati e senatori, contro i 945 eletti nel 2018. 

Parlare di Camere delegittimate dopo una riforma così significativa della loro composizione voluta dalla forza politica maggiore, e centrale, che ne fa parte, e nella prospettiva certa di una mancata conferma degli equilibri politici usciti dalle urne quasi quattro anni fa, non è fine, diciamo così. E’ considerato farisaicamente quasi un rutto a tavola dai presidenti delle assemblee parlamentari e dagli altri vertici istituzionali, compreso il pur schietto presidente del Consiglio, praticamente sottrattosi a quell’impertinente giornalista che ha cercato di farlo parlare di questo problema con la penultima domanda della conferenza stampa di ieri. Tutto va bene sotto questo aspetto, madama la marchesa. 

Altrettanto irrilevante è considerata la questione della durata della campagna elettorale, che tutti fingono di non vedere e non sentire ma è praticamente già in corso, destinata quindi a trascinarsi per un anno e mezzo, contro i settanta giorni formalmente previsti dalla legge. La politica purtroppo ha le sue consolidate abitudini, che hanno contribuito a farle perdere credibilità o autorevolezza, come preferite, a vantaggio o di altri poteri, come quello giudiziario, o del qualunquismo. Non a caso i partiti maggiori galleggiano ormai attorno al 20 per cento dei voti. E la maggioranza relativa, a volte persino assoluta, come hanno dimostrato le elezioni amministrative e politicamente suppletive di ottobre, è stata ormai conquistata dall’assenteismo, cioè dal non voto.

Titolo del manifesto
Titolo di Libero

In questa situazione può risultare anche divertente che la figura del nonno felicemente riproposta da Draghi per stemperare la lotta politica, o contenere le ambizioni personali, e tradotta nella “guerra dei nonni” dal manifesto, sia servita ai tifosi di Berlusconi per vantarne la superiorità come “bisnonno”. Forza, visto che così si chiama con l’invocazione all’Italia il partito fondato e tuttora posseduto dallo stesso Berlusconi: andate avanti così e vediamo come andrà a finire. 

Ripreso da http://www.startmag.it

Mario Draghi, il migliore dopo Alcide De Gasperi

Titolo del Dubbio

Se la memoria non mi tradisce, sono undici gli ex presidenti “superstiti” del Consiglio: Arnaldo Forlani, Silvio Berlusconi, Lamberto Dini, Romano Prodi, Massimo D’Alema, Giuliano Amato, Mario Monti, Enrico Letta, Matteo Renzi, Paolo Gentiloni e Giuseppe Conte, nell’ordine in cui si sono succeduti a Palazzo Chigi fra prima, seconda, terza e non so quant’altre Repubbliche, visto che ogni tanto qualcuno se ne inventa una, tutte comunque a Costituzione invariata,  come solo nel nostro fantasioso Bel Paese può accadere.

Voglio sperare che gli undici ex abbiano avuto occasione di seguire televisivamente da casa la conferenza stampa di fine anno tenuta da Mario Draghi e ne abbiano invidiato la concisione. Che ne ha fatto non un tecnico, non un improvvisato ma il più professionale dei presidenti del Consiglio.

L’uomo, anzi “il nonno”, come lui ha preferito definirsi, non ha avuto bisogno di spendere molte parole per confermarsi “a disposizione delle istituzioni”, pronto a proseguire il suo lavoro di presidente del Consiglio anche con un altro presidente della Repubblica, a patto che disponga della stessa, larga maggioranza che lo ha sostenuto sinora. E della quale si è mostrato soddisfatto elogiandone i partiti, per quanto alcuni di essi abbiano ogni tanto mostrato disagio, sofferenza e quant’altro. 

Draghi non ha avuto bisogno di molte parole neppure quando, non escludendo praticamente di poter essere anche lui il successore del “saggio” ed “esemplare” Mattarella, ha liquidato come più chiaramente non si poteva l’ipotesi che lui al Quirinale possa praticare quel “sempiresidenzialismo” surrettizio indicato anche da alcuni suoi estimatori, come il ministro legista e amico Giancarlo Giorgetti. Nella laconica risposta ad un giornalista che gli aveva teso  questa trappola con una domanda sulla figura appunto del capo dello Stato egli ha detto che la nostra è e rimane una Repubblica parlamentare. Nella quale il capo dello Stato non può “accompagnare” e tanto meno “sostituire” il presidente del Consiglio. Che, per quanto nominato dal presidente della Repubblica con iniziativa autonoma, come a Draghi è capitato appunto con Mattarella, si affida poi al Parlamento e accetta di esserne praticamente dipendente.

Il Presidente della Repubblica -ha spiegato, sempre da professionista, l’ex presidente della Banca Centrale Europea parlando di quando e come fu chiamato da Mattarella alla guida del governo- più o prima ancora che “un notaio”, come spesso si dice, è costituzionalmente il “garante dell’unità nazionale”. In none della quale egli si sentì  appunto chiamato alla Presidenza del Consiglio, vi è rimasto e potrebbe ancora rimanervi. 

Complimenti, signor presidente.

Pubblicato sul Dubbio

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