C’è anche il presidente della Repubblica tra gli spettatori, a distanza, dello spettacolo in corso nel porto di Catania, dove si sprecano visite di ogni tipo al pattugliatore della Guardia Costiera da cui il ministro dell’Interno Salvini ha ordinato in diretta facebook al comandante Massimo Kothmeir di non lasciare scendere nessuno dei 133 migranti rimasti a bordo dopo lo sbarco dei 27 minori senza accompagnamento e quello appena ordinato di 17 adulti scoperti in condizioni di salute particolarmente precarie, di cui 11 donne.
In una vacanza alla Maddalena, in Sardegna, già guastatagli dalla tragedia del crollo del viadotto Morandi a Genova, Sergio Mattarella ha deciso di rendere pan per focaccia al piano di Salvini di tenere il punto in Sicilia, in Italia, in Europa e nel mondo intero, a spese sue.
Mattarella si è convinto, non a torto, che il leader leghista si aspetti da lui, come con la stessa nave il mese scorso, ma a Trapani e con un altro carico di migranti, una telefonata di “persuasione”, intesa come ordine, al presidente del Consiglio per fargli disporre lo sbarco. Che consentirebbe un attimo dopo al ministro dell’Interno di rivendicare orgogliosamente il proprio dissenso, ricavare consenso popolare e scaricare l’eventuale impopolarità su Quirinale e Palazzo Chigi. Ma soprattutto sul Quirinale, perché anche i grillini potrebbero cavarsela dicendo che, una volta tanto, e per motivi magari di galateo istituzionale, il loro Conte ha dovuto fare l’esecutore di qualcosa di diverso dal famoso “contratto” di governo gialloverde.
No. Questa volta, smentendo di fatto tutte le voci, indiscrezioni e quant’altro su chissà quali e quante telefonate già scambiate col presidente del Consiglio per attivarlo di nuovo, Mattarella ha deciso di non dare direttamente consigli e tanto meno ordini, per quanto la Costituzione gli affidi il comando delle Forze Armate, e quindi anche del povero, sfortunato comandante della nave della Guardia Costiera bloccata a Catania. Che è diventato, suo malgrado, il protagonista più stravagante di questa vicenda non più soltanto italiana.
Con due soli bagni “chimici” a disposizione di più di duecento persone, compreso l’equipaggio, e con le mascherine imposte ai visitatori forse anche per questo, oltre che per numerosi casi di scabbia a bordo, l’ufficiale deve farsi in quattro, come si dice, tra gente che sale e scende dal suo pattugliatore: dal garante dei detenuti, senza virgolette, al deputato, dal senatore al consigliere regionale e allo stesso presidente dell’assemblea regionale siciliana, il forzista Gianfranco Miccichè. Che per protesta, fra l’altro, contro le stesse “mutandine” che le undici migranti bloccate a bordo indossano da più di dieci giorni, come se quelle degli uomini non meritassero la stessa comprensione, ha approfittato del primo microfono a portata di voce per dare dello “stronzo” al vice presidente del Consiglio Salvini, oltre che ministro dell’Interno.
Immagino l’imbarazzo in cui deve essersi sentito il comandante Kothmeir, comunque tanto orgoglioso delle sue operazioni in mare per soccorrere migranti a rischio di annegamento da avere recentemente innalzato a simbolo del suo profilo facebook il disegno, regalatogli per riconoscenza da un’associazione di volontari a Lampedusa, di una barca di disperati sollevata con le mani dall’acqua.
Ma torniamo a Mattarella e alla sua scelta del silenzio, motivata con un messaggio in bottiglia, diciamo così, affidato al quirinalista del Corriere della Sera Marzio Breda. Che senza l’uso di condizionali e quant’altro adoperati di solito per cautelarsi da smentite o precisazioni, ha avvertito che al punto in cui sono arrivate le cose il capo dello Stato “si aspetta” che a “sbloccare” la situazione sia con decisione e piena autonomia il presidente del Consiglio, cui “compete la direzione politica dell’esecutivo”, cioè del governo. Ma che invece risulta stia pensando, mentre scrivo, solo a come reagire al rifiuto oppostoi sinora da Bruxelles alla richiesta italiana di una distribuzione dei migranti bloccati sulla nave a Catania fra più paesi dell’Unione Europea.
In un altro passo del messaggio in bottiglia affidato al quirinalista del Corriere Mattarella ha fatto sapere di “non volere consentire a nessuno”, né al presidente del Consiglio né al ministro dell’Interno, né a grillini né a leghisti, di “utilizzare il suo nome”, eseguendone consigli o ordini in dichiarato dissenso, “per lucrare dividendi elettorali”. E ciò non pensando necessariamente a una crisi e ad elezioni anticipate, vista la indisponibilità annunciata da Salvini a dimettersi, ma bastando e avanzando -ha ricordato in una parentesi Mario Breda- le elezioni della primavera dell’anno prossimo per il rinnovo del Parlamento Europeo: un’occasione buona a misurare la quantità dei consensi e, quindi la consistenza della forza politica degli attori in campo, al governo o all’opposizione.
In verità, l’amico ungherese di Salvini è fra i più decisi nei paesi dell’ex blocco sovietico ora soci dell’Unione Europea a rifiutare l’assunzione di quote di immigrati. Ma Salvini, liquidato con epiteti pesantissimi da Massimo Cacciari proprio per i suoi assai curiosi interlocutori privilegiati in Europa in nome del sovranismo, ha chiarito di aspettarsi altro da Orbàn e simili: l’aiuto a cambiare le regole che impediscono, nel caso di Catania, di fare ripartire la nave Diciotti in direzione della Libia per sbarcarvi i migranti soccorsi fra Malta e Lampedusa.
Il segretario generale del Pci, pur essendo le situazioni politiche del Cile e dell’Italia molto diverse, ritenne di poterle in qualche modo assimilare sostenendo che neppure da noi una sinistra avrebbe potuto governare avendo contro mezzo Paese ancora raccolto attorno alla Dc, peraltro non ancora indebolita dalla sconfitta nel referendum del 1974 sul divorzio, e ai tradizionali alleati del campo moderato. Anche l’Italia insomma avrebbe potuto fare la fine del Cile, pur non esistendo da noi neppure l’ombra, francamente, di un generale Pinochet.
Le anomalie continuano con la sfida lanciata da Salvimi, sempre in diretta via facebook, alla Procura di Agrigento a mettere il suo nome e cognome al posto degli “ignoti” destinatari dell’indagine da essa avviata per sequestro di persona. E poi ancora con la sfida ai presidenti della Repubblica e del Consiglio a ripetere il bliz compiuto contro di lui a Trapani l’altra volta, ma mettendo forse nel conto adesso le sue dimissioni per protesta, e quindi una crisi di governo. L’ultima anomalia, ma non per importanza, è la sostanziale irrisione del presidente grillino della Camera Roberto Fico, invitato da Salvini a farsi i fatti suoi dopo avere chiesto pure lui lo sbarco dei migranti trattenuti sulla nave militare italiana nel porto di Catania, e meditare piuttosto sulla sfortuna politica che porta ormai il vertice di Montecitorio. Da dove sono caduti nella dissolvenza o quasi Fausto Bertinotti, Gianfranco Fini e Laura Boldrini, accomunati dalla posizione critica assunta nei riguardi dei governi di turno, e dei relativi schieramenti che li avevano portati così in alto.
I furbi, di cui si spera che vengono fuori e presto i nomi e cognomi, con le sigle dei rispettivi partiti o correnti di appartenenza, vorrebbero che “intanto” entrasse in Atlantia, profittando dei titoli a buon mercato del dopo-crollo di Genova e delle procedure di revoca delle concessioni e quant’altro avviate dal governo, la Cassa Depositi e Prestiti. Che è una specie di tesoro dello Stato. E che si metterebbe a fare concorrenza al professore e alla moglie di cui si parlava all’inizio.
Non so se La Stampa abbia peccato più di ottimismo o di ingenuità scommettendo in apertura della sua prima pagina sul no al ritorno di Autostrade allo Stato, che starebbe prevalendo nel governo dopo le forti spinte iniziali di Di Maio e Toninelli per la nazionalizzazione. Certo è che il quadro politico partorito dalle elezioni del 4 marzo scorso si è fatto paradossale. Nessuno poteva francamente immaginare, preferendo una soluzione positiva della crisi alle elezioni anticipate, che destra e sinistra potessero mescolarsi così disordinatamente da tornare all’antico della destra illiberale e della sinistra arcaica, accomunate proprio dal feticcio dello statalismo e da garantire agli italiani il ritorno, magari, del panettone di Stato sulle loro mense natalizie. E anche delle conserve, dei cioccolatini e della pasta statale.
Il mio amico -ripeto- Gifuni è morto fortunatamente in tempo per vedersi assolto, pur con la “macchia” di una prescrizione rimproveratagli dai soliti giustizialisti, ma subendo ugualmente il torto di una sofferenza, a quell’età poi, troppo lunga. Che gli sarebbe stata forse risparmiata se lui non avesse avuto la sventura di servire lo Stato così in alto e così a lungo, nella immutata intensità degli affetti degli amici e della famiglia. Dove il figlio Fabrizio, interpretando magistralmente da attore di meritato successo statisti come Alcide De Gasperi e Aldo Moro, mi ha sempre fatto venire un nodo alla gola pensando al padre. Che quegli uomini – ne sono sicuro- aveva saputo raccontarglieli bene.
Va detto che lo stesso Salvini, in una intervista al Giornale della famiglia del suo alleato elettorale Silvio Berlusconi, rimasto o ricacciato dai grillini all’opposizione, ha onestamente riconosciuto, pur nel contesto di una orgogliosa difesa del governo, che al suo interno esistono consistenti problemi da chiarire, o nodi da sciogliere. “Il banco di prova sarà la manovra economica con l’appuntamento su tasse, fisco eccetera”, ha detto il leader leghista alludendo al cosiddetto cantiere della legge di bilancio, che viene appunto seguito con una certa apprensione da chi se ne intende. Ma che Salvini liquida come portavoce, espressione, dipendente e quant’altro dei “poteri forti” d’Italia e del mondo intero, impegnati secondo lui in un “complotto” contro il “cambiamento” perseguito e rappresentato dal governo grigioverde. E meno male che di questi poteri forti il ministro dell’Interno non ha avvertito o denunciato, o non ancora, qualche manina negli attentati che stanno subendo sezioni del suo partito.
In un crescendo di vittimismo e insieme di sfida Salvini ha arringato il suo pubblico avvertendo che potrebbe arrivare il momento in cui, non bastando le difese ordinarie del governo dal complotto internazionale, sarà necessario rivolgersi direttamente ai cittadini, cioè alla piazza. Dove il ministro dell’Interno conta evidentemente di raccogliere applausi e selfie crescenti, come gli è appena accaduto a Genova col grillino Luigi Di Maio ai funerali pubblici di almeno una parte della vittime del crollo del viadotto Morandi: quelle i cui familiari hanno voluto ancora riconoscersi nello Stato, avendo la maggioranza voluto voltare le spalle alle istituzioni e provvedere privatamente alla esequie dei cari.
Tuttavia a Genova il presidente della Repubblica Sergio Mattarella è stato applauditissimo, al pari dei rappresentanti del governo, fra i quali il vice presidente del Consiglio Luigi Di Maio. Che pure a fine maggio ne aveva reclamato il processo davanti alla Corte Costituzionale per alto tradimento, trascinandosi appresso una valanga di consensi telematici su cui si stanno sprecando indagini giudiziarie e amministrative.
Non so se Roberto Casalino, portavoce del presidente del Consiglio Giuseppe Conte, già collaboratore stretto di Luigi Di Maio, sarà rimasto soddisfatto dell’eco mediatica dei fischi di Genova, da lui tempestivamente segnalati ai giornalisti, nella versione telematica diffusa in diretta dal Fatto Quotidiano, sfidando quelli abitualmente critici col governo ad avere il coraggio e la faziosità di ignorarli.
Codice civile e degli appalti alla mano, citandone articoli e commi, il professore Alpa ha cercato di proteggere l’ex allievo dall’accusa, fra gli altri, dell’ex magistrato ma anche ex ministro dei Lavori Pubblici Antonio Di Pietro di procurare alla società di Benetton un ulteriore favore, dopo quelli attribuiti dai grillini ai governi precedenti per proroghe delle concessioni contestate nelle forme e nei contenuti. In particolare, la società sottoposta a procedimento di revoca sarebbe sollevata dall’obbligo della ricostruzione del viadotto e acquisterebbe il diritto di reclamare un indennizzo di circa 20 miliardi di euro, calcolati rispetto alla scadenza ordinaria della concessione, sino al 2042.