Dietro i numeri della lotteria televisiva di Giletti

Posso fregarmene delle lacrime e invettive per l’esclusione degli azzurri dai  mondiali di calcio e dissociarmi, senza temere insulti, dai festeggiamenti mediatici per “il successo di Giletti” -titolo del Corriere della Sera di Urbano Cairo su tutta la trentottesima pagina degli spettacoli di martedì 14 novembre- per il suo esordio su La 7, anch’essa di Cairo? Dove l’ex dipendente della Rai ha sfiorato domenica sera il 9 per cento di ascolto con la sua nuova Arena dedicata alla tragedia politica e umana di Gianfranco Fini, ai vitalizi degli ex parlamentari e alle molestie sessuali viste con gli occhi, la sensibilità e quant’altro di Lele Mora. Forse non dovrei e non potrei dissociarmi, ma lo faccio lo stesso.

Pare che l’8,9 per cento di share conquistato dal giornalista, conduttore e quant’altro sceso dal cavallo di viale Mazzini sia stato pari a un milione e 969 mila spettatori. Che sono tanti, d’accordo, ma pur sempre -permettetemi, al di là delle diverse dimensioni dei bacini d’ascolto- inferiori ai tre milioni e 767 mila spettatori del concorrente Fabio Fazio sulla prima rete della Rai, dei quattro milioni e 920 mila della fiction con Rosy Abate su Canale 5 e dei due milioni e 250 mila delle Iene su Italia 1.

Fra i quasi due milioni di telespettatori di domenica sera intrattenuti da Giletti ci sono stato anch’io, che tuttavia sono rimasto deluso dalla prestazione giornalistica del martire della Rai per quel pasticcio a dir poco sconcertante, per esempio,  fra decreto legge e disegno di legge sul taglio dal quaranta al cinquanta per cento dei vitalizi percepiti dagli ex parlamentari, o vedove, presentati ancora una volta al pubblico come indecenti sanguisughe nazionali. A difesa dei quali è stato ammesso in trasmissione un avvocato, ex parlamentare pure lui, ma per lasciarlo trattare dagli altri ospiti di studio come un mezzo scimunito, frequentatore ritardato di asili infantili. Dove solo si può opporre ai 2500 e rotti ex parlamentari favoriti dal vecchio sistema retributivo, peraltro senza distinzione fra chi vive solo del vitalizio e chi percepisce anche altri redditi, i 400 mila e più   pensionati cosiddetti baby, spesso arrivati al trattamento di quiescenza, al netto dei riscatti di lauree e servizi militari, con meno di dieci anni di servizio.

È da asilo infantile, ma questa volta davvero, anche chi, come Giletti in persona, addita al pubblico ludibrio davanti alle telecamere chi prende “seimila euro al mese per avere fatto il parlamentare un solo giorno”. Che è una cosa materialmente impossibile perché con un solo giorno da deputato o senatore si può solo avere lucrato -indecentemente, certo- su una legislatura, maturando quindi un vitalizio non di seimila, ma di ottocento euro.

Visti i numeri della lotteria televisiva di Giletti, ha forse avuto ragione Goffredo Buccini a scrivere sul Corriere della Sera – peraltro nello stesso giorno del decantato successo della nuova Arena, ma a proposito di “Di Maio, re delle gaffe”- che meno si conoscono i problemi, meno si azzeccano i congiuntivi, meno si collocano uomini e paesi nei posti giusti dell’Atlante, meno si sa fare di conto, più si può diventare popolari perché ci si “avvicina alla gente”. Come è capitato per tanto tempo ad Antonio Di Pietro, ha giustamente ricordato Buccini scherzando, ma non troppo, sulla spavalderia con cui l’allora pubblico ministero attribuiva i suoi congiuntivi a quella curiosa lingua che lui stesso chiamava “dipietrese” fra il compiacimento, anzi il divertimento, del pubblico mai pago abbastanza delle manette che “Tonino” faceva scattare, e sognare alle masse festanti sotto le finestre del suo ufficio milanese.

Lo scontato rifiuto di Bersani alle scontate aperture di Renzi

Al netto dell’esclusione dell’Italia dai campionati mondiali di calcio, si stenta a individuare la notizia della giornata, almeno di quella politica. E’ l’apertura del segretario del Pd Matteo Renzi anche agli scissionisti per un’alleanza elettorale che non lasci solo a Silvio Berlusconi e a Beppe Grillo la corsa allo scudetto di governo nella prossima primavera, com’è appena accaduto in Sicilia per la guida della regione? O è la porta chiusagli in faccia, prima ancora che la direzione del Pd votasse sulla proposta del segretario, da un Pier Luigi Bersani imbaldanzito dalla prospettiva di partecipare ad un cartello elettorale antirenziano capeggiato da una coppia addirittura istituzionale, costituita dai presidenti del Senato Pietro Grasso e della Camera Laura Boldrini?

Le domande tuttavia non finiscono qui. Sarebbe troppo semplice e troppo facile per le abitudini e i gusti degli attori della politica nazionale, e degli spettatori.

All’interno del Pd fa più notizia il consenso espresso alla relazione di Renzi dalla corrente, minoritaria al congresso, del governatore pugliese Michele Emiliano, che ha preso sul serio il segretario del partito, o l’astensione scettica del ministro della Giustizia Andrea Orlando e dei suoi amici, sospettosi – come al Fatto Quotidiano di Marco Travaglio- che l’ex presidente del Consiglio abbia fatto solo “finta” di aprire agli scissionisti, avendo rifiutato l’abiura di tutte le scelte da lui compiute sinora, al governo o al partito, o in entrambi? O la notizia vera è quella dell’adesione immediata e compiaciuta alla relazione di Renzi alla direzione del partito annunciata dal ministro Dario Franceschini? Di cui nessuno, ma proprio nessuno, nei giornali e dintorni smette di attendere invece la rottura con l’ex presidente del Consiglio.

Potrebbero seguire altre domande ancora, alle quali però preferisco -stando sempre sul piano delle notizie- la segnalazione dello scrupolo avvertito da Eugenio Scalfari di sottrarsi ai tempi del suo appuntamento domenicale con i lettori per commentare a botta calda la riunione della direzione del Pd. Egli ha promosso a pieni voti Renzi, dopo averlo criticato più volte negli ultimi tempi. E ciò sino ad attribuirgli la proposta non solo di un’alleanza elettorale con gli scissionisti, ma di un loro ritorno nel partito, avvertendo e denunciando come ostacolo ad una simile salvifica prospettiva della sinistra l’impegno politico nel quale si stanno spendendo contro Renzi i presidenti delle Camere. Ai quali il fondatore della Repubblica, sia pure di carta, ha detto con franchezza, anche ricordando la propria esperienza di deputato di tanti anni fa, che “prima di dimettono” dalle loro cariche istituzionali “meglio è”, avendo essi ormai perduto la credibilità necessaria alla neutralità dei loro ruoli.

Grasso e Boldrini faranno probabilmemte spallucce, magari consolandosi e incoraggiandosi reciprocamente al telefono, come hanno già fatto quando l’uno e l’altra sono intervenuti in circostanze diverse a gamba tesa nel dibattito politico. Ma sarebbero spallucce amare per un Parlamento già troppo delegittimato di suo per le regole incostituzionali con le quali furono elette cinque anni fa le Camere che Grasso e Boldrini presiedono: incostituzionali, non per qualche capriccioso giudizio di un passante ma per verdetto dei giudici a ciò preposti.

 

 

 

Ripreso da http://www.formiche.net col titolo: Vi racconto le ultime democratiche baruffe fra Bersani e Renzi

La masochistica corsa della sinistra al suicidio

Se lo dicono pure al Fatto Quotidiano, che ha commentato la domenica di Giuliano Pisapia e compagni impegnati a costruire un’”alternativa” al Pd di Renzi con un titolo sulla sinistra che parte “col piede sbagliato”, c’è da credervi.

Il giornale di Travaglio tuttavia se la prende soprattutto con ciò che accade dietro le quinte dei raduni dei critici e degli avversari dell’ex presidente del Consiglio, dove col “manuale Cencelli” di  memoria democristiana in mano si distribuiscono posti e candidature ai soliti noti, non a gente nuova.

Ma l’aspetto più inquietante di ciò che accade a sinistra del Pd è quello istituzionale, giocandosi su quel terreno una concorrenza sempre più evidente fra i presidenti delle Camere. Che già prima della conclusione della legislatura hanno clamorosamente rinunciato alla neutralità imposta loro dal ruolo che ricoprono.

Il presidente del Senato, e potenziale supplente del capo dello Stato, dopo essersi dimesso dal Pd conservando però la carica istituzionale, non si lascia scappare occasione per mandare all’inferno il suo ex partito. Che sarebbe politicamente morto o degenerato con l’abbandono di Pier Luigi Bersani,  cui Pietro Grasso -guarda caso- deve la candidatura nel 2012 a senatore e l’elezione, nel 2013, al vertice di Palazzo Madama.

La presidente della Camera Laura Boldrini, risparmiatasi l’uscita dal Pd solo per non esservi mai entrata, essendo stata eletta a Montecitorio nelle liste del partito allora guidato da Nichi Vendola, è appena salita sulla tribuna del popolo, diciamo così, dell’ex sindaco di Milano Pisapia per sostenere che col partito di Renzi non si possono ormai fare più accordi, qualsiasi cosa voglia o possa offrire l’ex presidente del Consiglio. E pazienza se così rifiutando, anche nelle elezioni politiche nazionali si ripeterà lo scenario delle elezioni regionali siciliane appena svoltesi, cioè con una partita giocata fra gli eserciti -si fa per dire- di Silvio Berlusconi e di Beppe Grillo, o delle loro controfigure.

Il povero Walter Veltroni si sta sprecando in appelli, richiami e quant’altro evocando le tragedie politiche e umane del secolo scorso, quando le divisioni della sinistra spianarono la strada alle tirannidi di destra e della stessa sinistra. Ma non sarà l’ex sindaco di Roma -temo- a fermare  la corsa dei suoi compagni al suicidio.

 

 

 

Ripreso da http://www.formiche.net col titolo: Che cosa combinano Pietro Grasso e Laura Boldrini a Matteo Renzi ?

Pubblicato su ItaliaOggi del 14 novembre 2017

Se Massimo Giletti studiasse di più prima di scendere nell’Arena

Ho cercato di dare una mano a Massimo Giletti come collega, cioè come giornalista, quale lui si vanta sempre di essere rimproverando alla sua ex azienda -la Rai- di averlo voluto trattare solo come uomo di spettacolo, negandogli spazi e temi di stringente attualità politica e sociale. L’unico modo in cui potevo aiutarlo era di preferirlo a Fabio Fazio e di sincronizzarmi su la 7 per assecondare la sua sfida professionale, purtroppo pomposamente paragonata a quella fra Davide e Golia.

L’ho seguito con interesse compiaciuto nella parte iniziale dedicata alla penosa vicenda umana, oltre che politica, dell’ex presidente della Camera Gianfranco Fini e della sua seconda famiglia. E’ stato un bel misto di inchiesta giornalistica e spettacolo, tra i lussi di Dubai, la stupidaggine sfrontata del cognato di Fini, la registrazione della telefonata dell’ex presidente della Camera “coglione” confesso, l’assordante silenzio del suo amico Corallo inseguito dal cronista, le immagini della casa di Montecarlo imprudentemente donata col testamento da una nobile militante al partito spentosi poi con la stessa fiamma che lo aveva acceso, la sua svendita a prezzi di saldo e tutto il resto. Cui curiosamente è mancata la registrazione di quel messaggio televisivo in cui l’ancora presidente della Camera si impegnava a dimettersi se fosse stata provato, come poi avvenne senza che lui lasciasse la terza carica dello Stato, il ruolo del cognato nell’affare monegasco.

I guai della nuova Arena di Giletti sono arrivati col secondo tema della serata domenicale: quello dei vitalizi degli ex parlamentari, che una legge già approvata alla Camera e ferma al Senato per i contrasti esistenti nel Pd vorrebbe ridurre dal 40 al 50 per cento ricalcolandoli col sistema cosiddetto contributivo adottato per quelli che matureranno i parlamentari in carica. Che non si chiameranno perciò più vitalizi e non potranno in ogni caso essere percepiti prima dei 65 anni di età, già inferiori ai 67 chiesti per i comuni cittadini.

Giletti ha cominciato a spararla grossa, senza che nessuno nello studio televisivo di ben mille metri quadrati messigli a disposizione osasse correggerlo, promuovendo a decreto legge, già in vigore quindi, il disegno di legge fermo al Senato. Che porta il nome del deputato del Pd Matteo Richetti, renziano come la consigliera regionale ed ex deputata Alessandra Moretti, ospite della trasmissione e spintasi a sostenere che, per quanto di dubbia costituzionalità, come lo stesso Giletti ha ammesso, debba essere approvato lo stesso. E guai se la Corte Costituzionale dovesse azzardarsi a bocciare la nuova legge per tutelare i cosiddetti e mai abbastanza disprezzati diritti acquisiti: monito condiviso dalla deputata forzista ed ex ministra alfaniana Nunzia De Girolamo, pure lei presa da sacro furore.

Il povero avvocato Maurizio Paniz, ex deputato e forzista anche lui, pur accolto persino con simpatia dal conduttore, è stato rapidamente trattato come un povero attore di commedia, e accusato di infantilismo dal giornalista Massimo Giannini di Repubblica, quando ha osato ricordare che in Italia esistono non poche centinaia o migliaia ma centinaia di migliaia di pensionati cosiddetti baby. Di cui nessuno contesta i milleduecento e persino  milleottocento euro mensili percepiti da una vita per avere lavorato a volte soltanto sette o otto anni, al netto del riscatto di laurea, servizio militare e quant’altro.  Costoro costano al bilancio dello Stato qualcosa come nove miliardi di euro.

A nessuno, dico nessuno, è venuto in testa di sostenere -chessò ?- l’opportunità di stabilire almeno dei criteri di equità sociale nell’intervenire sul migliaio o poco più di vecchi vitalizi in corso, distinguendo per esempio fra chi vive solo di questi e chi percepisce altre pensioni e/o altri redditi. No, niente da fare. Gli ex parlamentari o congiunti  sopravvissuti sarebbero la vergogna di questo Paese, e basta.

Se questa è la nuova Arena, nonostante il titolo della trasmissione dica il contrario, e Giletti si sente esonerato dall’obbligo di informarsi meglio, facendo quindi confusione non una ma più volte tra decreti legge e disegni di legge, e domani fra decreti legislativi e chissà che altro, o fra mozioni e interpellanze o interrogazioni, pago solo di offrire la sua tribuna alle peggiori pulsioni sociali, sono costretto a dare ragione a quelli che gli hanno impedito di continuare a fare tutto questo alla Rai, peraltro offrendogli così l’occasione di guadagnare di più altrove: cosa che gli dovrebbe sconsigliare, quanto meno, la parte del martire.

Bocciatura psicanalitica, non ancora politica, di Renzi da parte di Scalfari

Il pendolo domenicale di Eugenio Scalfari questa volta ha colpito pesantemente quel discolo troppo solitario di Matteo Renzi, refrattario ai suoi preziosi consigli. Lo ha colpito con citazioni di Freud e di Massimo Recalcati, psicanalista pur estimatore del segretario del Pd e stimato, a sua volta, dal fondatore de La Repubblica.

Cominciamo da Freud, preso anche lui in prestito da Recalcati per altre circostanze, non riguardanti articoli o discorsi sull’ex presidente toscano del Consiglio: “L’uomo non è padrone neppure a casa sua”. Figuriamoci quindi quando quest’uomo vuole fare il padrone in un partito di cui è il segretario ma non il proprietario, come potrebbe essere invece considerato Silvio Berlusconi nel movimento da lui creato e chiamato Forza Italia.  Che tuttavia Scalfari non ha menzionato  in questo passaggio del suo lungo articolo settimanale.

Veniamo ora al Recalcati direttamente citato dal fondatore di Repubblica per dare al problema Renzi una dimensione non più politica ma psicanalitica: “L’accanimento nella volontà di governo che pretende di sopprimere il disordine tende sempre a rovesciarsi nel suo contrario. Un ordine ottenuto con l’applicazione crudele del potere è peggiore del male che vorrebbe curare”.

Con queste premesse psicanalitiche Scalfari si è messo a scrivere di Renzi al passato: “Era un uomo capace di buon governo ma aveva un grande difetto caratteriale. Voleva a tutti i costi comandare da solo: sistema incompatibile con una democrazia, soprattutto di sinistra (quella non più comunista dopo Enrico Berlinguer)”, ha precisato chi lo votò ripetutamente e orgogliosamente nei primi anni Ottanta, piangendolo nel vero senso della parola alla morte.

Tutto finito, quindi, con Renzi, pur sostenuto da Scalfari nella campagna referendaria dell’anno scorso  sulla riforma costituzionale, nonostante i limiti e le contraddizioni di quel progetto bocciato dagli elettori? No, neppure dopo la ramanzina psicanalitica. Qualcosa rimane ancora appeso, per i successivi movimenti, al pendolo di Barpapà, che ha raccontato di una telefonata recente conclusasi col “riconoscimento” da parte di Renzi degli errori che può avere commesso facendo praticamente finta di consultarsi con altri nel Pd, fra i quali Fassino, Franceschini, Andrea Orlando e Walter Veltroni, sicuro evidentemente di ottenerne il consenso o un dissenso aggirabile.

E così Scalfari, pago o quasi di questo ennesimo “riconoscimento”, si è rimesso in attesa di vederne gli effetti. Che secondo lui dovrebbero tradursi nella creazione al vertice del partito di un vero e proprio “Stato Maggiore”, al posto evidentemente del cosiddetto giglio magico contestato a Renzi dagli avversari, a cominciare naturalmente dagli scissionisti. Dei quali -a dire il vero- Scalfari evita sempre di prendere una difesa vera e propria.

 

 

Ripreso da http://www.formiche.net col titolo: Matteo Renzi, Eugenio Scalfari e i misurizzi democratici

Quel “renziano” del Giornale al regista accusato di molestie

Non credevo francamente ai  miei occhi vedendo il titolo dedicato in prima pagina dal Giornale della famiglia Berlusconi -dove ho lavorato per una decina d’anni dalla fondazione con Indro Montanelli- alla vicenda del regista Fausto Brizzi, anonimamente accusato di molestie, insorto con   smentite e minacce di querele, messosi in disparte sul lavoro per lo stress procuratogli dalla vicenda e insolentito da Asia Argento. Che è diventata  ormai una certificatrice di presunte violenze altrui dopo avere denunciato quelle procuratele tanti anni fa da Harvey Weinstein.

Più leggevo “Il regista renziano nei guai per molestie”, che è appunto il titolo dedicato a Fausto Brizzi dal quotidiano fondato da Montanelli nel lontano 1974 con Enzo Bettiza, Guido Piovene, Gianni Granzotto e altri ancora, più mi stropicciavo gli occhi e mi chiedevo se stessi proprio davanti alla prima pagina del Giornale. Sì, purtroppo era proprio il Giornale, non il Fatto Quotidiano di Marco Travaglio, che non è arrivato a usare le simpatie politiche del regista, e la sua partecipazione a non solo quali e quante edizioni del raduno dei renziani alla Leopolda fiorentina, per farlo riconoscere dai lettori.

Controprova della vergogna.jpg

“Weinstein all’italiana- Molestie, Brizzi nei guai- “Bugie”. Ma molla tutto”, ha titolato sobriamente sul regista il giornale -credo- più antirenziano sulla piazza.  Tanto antirenziano, il quotidiano di Travaglio, da riproporre nella stessa giornata sulla prima pagina in una vignetta di Mannelli il segretario del Pd ed ex presidente del Consiglio in posa da defunto per far dire al presidente dellostesso Pd Matteo Orfini, a spiegazione della mancata partecipazione al corteo antimafioso promosso da grillini

Il sogno di Travaglio.jpg e compagni ad Ostia: “Meglio un morto in casa che un grillino all’uscio”.    

Ma torno al Giornale per dire semplicemente, da ex editorialista, tornato per un po’ a collaborarvi nella pagina dei commenti all’epoca della direzione di Maurizio Belpietro su proposta personale di Silvio Berlusconi, fattami davanti alla tomba di Bettino Craxi fresca ancora della terra rovesciata sulla bara, che per quel titolo sul regista “renziano” Brizzi gli editori dovrebbero sentirsi a disagio per primi.

La Madonna protettrice di Cateno De Luca ne spiazza gli avversari

Solo la Madonna a questo punto potrà davvero salvare dall’attenzione dei magistrati siciliani, a Messina, il deputato regionale Cateno De Luca. Che è finito agli arresti domiciliari per evasione fiscale prima ancora della proclamazione della sua elezione. Ma al secondo giorno della sua detenzione a casa, scortato dai Carabinieri, egli ha potuto andare a godersi in tribunale lo spettacolo della propria assoluzione dalle accuse di tentata concussione, abuso d’ufficio e falso in atto pubblico nel quindicesimo dei processi subiti in soli sette anni, e tutti conclusi a proprio favore.

Curiosamente, direi pure scandalosamente, questa notizia è stata allontanata dalle prime pagine di tutti i giornaloni, spesisi al solito in titoloni di sarcasmo e di condanna all’annuncio dell’arresto del malcapitato dopo l’elezione a deputato regionale nelle liste dell’Udc, e nella coalizione di centrodestra guidata dal neo governatore regionale Nello Musumeci.

Eppure questa storia di Cateno De Luca dovrebbe bastare e avanzare per farsi ancora una volta l’idea di che cosa sia ormai l’amministrazione della giustizia, con la minuscola, in questo sventurato Paese. Essa potrebbe e dovrebbe anche aiutare a capire perché, al netto della solerzia dei gazzettieri delle Procure, che o per sadismo o per uso politico della cronaca giudiziaria scommettono sempre sulle manette, mai sull’assoluzione o solo sul dubbio, i magistrati hanno perduto progressivamente la fiducia dei cittadini. E, più in particolare, degli elettori. Che nelle urne, a parte gli spettatori di Beppe Grillo, non si lasciano incantare da avvisi di garanzia, arresti, condanne e quant’altro.

Solo qualche giorno fa, in un inciso del suo solito, lungo editoriale quotidiano di stampo giustizialista Marco Travaglio si meravigliava di come e perché Silvio Berlusconi, condannato in via definitiva per frode fiscale e perciò decaduto da senatore nel 2013, fosse “ancora a piede libero”, e per giunta impegnato a far vincere la sua parte politica nelle elezioni politiche dell’anno prossimo. Ecco il perché, caro direttore del Fatto Quotidiano: perché la gente non si fida né dei sospetti e delle accuse delle Procure, né delle sentenze dei tribunali.

Quasi preveggenti, i genitori del deputato regionale siciliano De Luca, da non confondere con l’omonimo governatore della Campania, pure lui di casa comunque nelle Procure della sua regione, chiamarono 45 anni fa  all’anagrafe il loro figliolo Cateno, che è la variante maschile di Catena: nome diffuso in Sicilia per devozione a Maria Santissima della Catena, appunto, protettrice degli schiavi e dei prigionieri. Con la quale sembrano destinati a fare i conti  per fortuna anche i magistrati facili ai processi e alle manette.

I presidenti delle Camere blindano Bankitalia col calendario dell’inchiesta

Nella curiosa indifferenza, a dir poco, dei giornaloni, che hanno allontanato la notizia dalle loro prime pagine, i presidenti delle Camere hanno concordato di blindare la Banca d’Italia e il governatore Ignazio Visco. Questo almeno è l’effetto l’effetto della  decisione di Pietro Grasso e di Laura Bordini di tagliare i tempi della commissione parlamentare d’inchiesta sul sistema bancario disponendone la fine con quella della legislatura, cioè col decreto quirinalizio di scioglimento delle Camere, previsto fra l’ultima settimana dell’anno in corso e le primissime del nuovo.

Per quanto incassata con molta diplomazia dal presidente della commissione Pier Ferdinando Casini, che l’ha definita “ineccepibile” in riferimento ai precedenti, la scelta di Grasso e Boldrini limita l’agibilità degli inquirenti e potrebbe avere sorpreso l’opinione pubblica, che si sarebbe aspettata qualcosa di diverso di fronte alla gravità della questione bancaria.

In verità, anche quando sono state sciolte, le Camere continuano a vivere e ad operare per gli adempimenti urgenti, come l’approvazione dei decreti legge entro la loro scadenza costituzionale di sessanta giorni. Esse cessano davvero di esistere e lavorare con l’insediamento delle nuove.

Se avessero quindi voluto, i presidenti della Camere avrebbero potuto autorizzare la commissione d’inchiesta sulle banche ad andare avanti, magari raccomandando una maggiore blindatura dei loro lavori per evitare un intreccio fra le solite fughe di notizie e la campagna elettorale. Che aggraverebbe, anziché risolvere, i problemi del sistema bancario.

Evidentemente convinti della impossibilità di questa blindatura dell’inchiesta, conoscendo i loro polli, non dissimili da certi magistrati i cui archivi sono spesso colabrodo, i presidenti delle Camere hanno finito, volenti o nolenti, per proteggere la Banca d’Italia dai possibili sviluppi di un’indagine che ha già fatto affiorare situazioni inquietanti: per esempio, la grossa discrepanza fra quanto è stato riferito separatamente, sulla vigilanza effettuata a carico degli istituti praticamente falliti, i rappresentanti della stessa Banca d’Italia e della Consob. Che non a caso il presidente della commissione ha convocato per un confronto giovedì prossimo.

In previsione anche di questo appuntamento ha fatto notizia e sollevato polemiche, diversamente dalla decisione presa dai presidenti delle Camere sui tempi della commissione, un incontro avuto a Firenze dallo stesso Casini, per quanto già programmato e svoltosi alla luce del sole, col segretario del Pd Matteo Renzi. Che aveva peraltro appena finito di riproporre con pubbliche dichiarazioni la necessità di svelare e perseguire le responsabilità della mancata o difettosa vigilanza sulle banche in crisi.

“Renzi e Casini si fanno l’indagine tet-a-tet. In privato”, ha titolato sul suo Fatto Quotidiano il direttore Marco Travaglio, in simbiosi culturale, diciamo così, con i soliti grillini. Ai quali il giornale di Travaglio ha fornito ulteriori stimoli protestatari raccogliendo e rilanciando voci di una candidatura blindata per il ritorno al Senato o alla Camera promessa per le prossime elezioni a Casini da Renzi. Ma dicano piuttosto i grillini, e quelli del Fatto Quotidiano, se sono interessati pure loro o no all’accertamento di quel che è accaduto fra Banca d’Italia, Consob e banche saltate in aria con i depositi e gli investimenti dei risparmiatori. O se sono interessati alla blindatura dell’ex istituto di emissione dopo avere chiesto in Parlamento la testa del governatore allora uscente, e poi confermato a dispetto anche della posizione critica assunta pure dal Pd renziano.

In questo groviglio di situazioni e di ruoli non può purtroppo ritenersi di secondaria importanza una circostanza tutta politica riguardante entrambi i presidenti delle Camere.

Pietro Grasso e Laura Boldrini sono partecipi o addirittura protagonisti -secondo alcune cronache non smentite- dello schieramento di sinistra in allestimento per fare concorrenza prima, durante e dopo le elezioni al Pd, cioè in funzione antirenziana. Grasso è dato in vantaggio rispetto alla Boldrini, tanto che ne è stata da qualche parte annunciata l’incoronazione di leader antirenziano in un raduno degli scissionisti del Pd ed altri in programma il 2 dicembre.

 

Pubblicato da ItaliaOggi il 7 novembre 2017

Clamoroso scontro fra Mario Monti e il “suo” Corriere della Sera

Il senatore a vita Mario Monti da vecchio, autorevole e riveratissimo collaboratore del Corriere della Sera non ha creduto ai suoi occhi leggendo Aldo Cazzullo, firma di punta del più diffuso giornale italiano, forse destinato a diventarne prima o poi direttore. Che ha raccolto “il fallimento” del governo tecnico montiano formato nell’autunno del 2011 sotto l’incalzare della speculazione finanziaria sui titoli del debito pubblico italiano come “il sentimento prevalente dell’opinione pubblica”.

L’ex presidente del Consiglio ha preso perciò carta e penna, o impugnato il suo computer portatile, per scrivere una lettera risentita di protesta le cui reazioni in via Solferino temo che non gli siano piaciute per niente.

Innanzitutto la missiva non ha avuto sconti nella collocazione, confinata nella pur seguitissima   ma ventisettesima pagina delle lettere.  E soprattutto ha ricevuto da Cazzullo una risposta ancor meno priva di sconti perché l’editorialista e altro ancora del Corriere della Sera ha ribadito la sua convinzione, conforme alla percezione prevalente dell’opinione pubblica sul bilancio del primo e sinora fortunatamente unico governo dell’ex commissario europeo.

In particolare, essendosi Monti vantato di avere affrontato l’emergenza finanziaria del 2011 rifiutando orgogliosamente l’aiuto internazionale, che avrebbe limitato l’autonomia nazionale, chiamata enfaticamente “sovranità”   dal senatore a vita, Cazzullo gli ha fatto notare che forse fu proprio questo il suo errore. E ha ricordato all’ex presidente del Consiglio l’esperienza della Spagna. Che quell’aiuto invece lo cercò e l’ottenne con risultati  di risanamento dei conti decisamente migliori di quelli ottenuti dal governo tecnico in Italia, ma soprattutto meno dolorosi di quelli percepiti a casa nostra.

Bravo, Cazzullo, anche se il suo coraggio dovesse costargli qualche grana. Bravo soprattutto a non farsi mettere sull’attenti dal professore bocconiano.

Ingorghi davanti all’ufficio di Pietro Grasso al Senato

Ci vuole ormai un semaforo nei corridoi o lungo le scale del Senato che portano allo studio del presidente Pietro Grasso. Sul traffico, per fortuna tutto pedonale, vigila curiosamente per la Repubblica di carta, riferendone con la solita puntualità ai lettori, la specialista di affari giudiziari Liana Milella. Eppure Grasso non è più magistrato. Nè sta incontrando in questi giorni suoi ex colleghi di toga. Nè sono sulla sua scrivania in evidenza nuovi disegni di legge sulla tormentatissima amministrazione della giustizia italiana che possano giustificare uno scrupolo a contribuirvi con la competenza della sua lunghissima attività professionale.

No. Il traffico davanti allo studio di Grasso, dopo le sue improvvise e motivate dimissioni dal Pd, che quasi cinque anni lo portò con la regia dell’allora segretario Pier Luigi Bersani prima al Senato e poi al suo vertice, è tutto politico, anzi partitico.

Da Grasso, che Bersani -sempre lui- ha detto di vedere “da Dio” alla guida di una nuova sinistra, intesa come un cartello elettorale antirenziano, per chiamare le cose col loro nome, sono andati in questi giorni, da soli e persino in delegazione, esponenti interessati proprio a quel progetto. Ed anche -va detto- qualche dirigente del Pd, come Gianni Cuperlo, che non si è aggiunto agli scissionisti, ma ne è corteggiatissimo e tentato ogni tanto di seguirli col suo stile mitteleuropeo.

Eppure nell’isola dove gli antirenziani hanno appena sperimentato la loro operazione, che è la Sicilia proprio di Grasso, il risultato è stato fallimentare. L’apporto che essi hanno dato alla candidatura di Claudio Fava a governatore regionale, non ha superato l’uno per cento, che si è aggiunto al cinque che aveva di suo il capo della lista ispirata ai famosi cento passi di Peppino Impastato, fra le proteste dei familiari e degli amici della vittima della mafia, ucciso in un finto tentativo di attentato ferroviario dell’ultrasinistra in Sicilia nello stesso giorno in cui terroristi veri uccidevano a Roma Aldo Moro, dopo quasi due mesi di drammatica prigionia.

Bersani, D’Alema, Gotor e compagni ritengono evidentemente di poter fare meglio e di più a livello nazionale, specie se Grasso dovesse mettersi al volante del loro pulmino e far seguire – si spera- alle dimissioni dal Pd, magari nelle ultime battute della legislatura, quelle da presidente del Senato, e da potenziale presidente supplente della Repubblica e del Consiglio Superiore della Magistratura.

Nel frattempo, in attesa di maturare le decisioni finali,  naturalmente sofferte, Grasso sta ripetendo, volente o nolente, la stessa esperienza di Gianfranco Fini nel 2010 alla Camera. Dove l’allora presidente dell’assemblea, rotti tutti i ponti politici e personali col presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e rimasto fermamente al suo posto, incontrava nel proprio ufficio tutti gli oppositori possibili e immaginabili, concordando con alcuni di essi persino una mozione di sfiducia al governo alla vigilia della cosiddetta sessione di bilancio.

Ci volle l’inusuale intervento dell’allora capo dello Stato Giorgio Napolitano, con tanto di vertice istituzionale al Quirinale, per mettere in sicurezza la legge finanziaria facendo calendarizzare solo dopo l’approvazione del bilancio la sfida al governo. Che, contrariamente alle leggende ancora perduranti su una complicità tra Fini e Napolitano, o viceversa, ebbe il tempo necessario per organizzare la sua difesa e battere la  insidiosissima mozione di sfiducia.

La crisi  e la caduta di Berlusconi sarebbero arrivate dopo quasi un anno, e per effetto non dell’anomalo passaggio all’opposizione di un presidente della Camera rimasto ostinatamente nella sua postazione istituzionale, ma di una crisi economica e finanziaria indipendente dalle presunte o reali capacità manovriere di Fini e amici.

Per fortuna le circostanze di questa fine di legislatura sono assai diverse, politicamente e finanziariamente, da quelle dall’autunno del 2011, quando si concluse l’esperienza governativa di Berlusconi, ma le anticamere di Fini del 2010 e di Grasso in questo autunno 2017 si assomigliano. Forse anche troppo, a scapito in entrambi i casi del ruolo neutrale imposto quanto meno dal galateo istituzionale ai presidenti delle Camere.

 

 

 

Ripreso da http://www.formiche.net col titolo: Vi racconto il movimentismo bersaniano di Pietro Grasso

Pubblicato da ItaliaOggi dell’11 novembre 2017

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