A leggere cronisti e inviati messigli alle costole dai giornali, il presidente del Senato Pietro Grasso non si sta lasciando incantare al telefono da nessuno, ma proprio nessuno, di quelli che lo chiamano per dissuaderlo dalla tentazione di accettare nei primi giorni di dicembre, quando a Palazzo Madama sarà finita la cosiddetta stagione del bilancio, l’incoronazione a capo della “lista unitaria” di sinistra. Che poi non è per niente unitaria perché è concepita per sancire la divisione della sinistra anche sul piano elettorale nazionale, com’é accaduto il 5 novembre in Sicilia, fra renziani e antirenziani, per chiamare le cose col loro nome.
E’ o sarà unitaria la lista offerta a Grasso, dopo le sue dimissioni dal gruppo del Pd e il passaggio a quello misto, perché metterà insieme gli scissionisti di Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema, la sinistra italiana di Nicola Fratoianni e quella di Giuseppe Civati, che si definisce ottimisticamente Possibile, con la maiuscola.
E’ francamente un po’ troppo per definire “unitaria” una lista del genere, valutata dai sondaggisti attorno al 6 per cento dei voti, ma che potrebbe saltare addirittura al 12 con l’incoronazione di Grasso. Il quale pertanto da solo varrebbe il 6 per cento, anche se il gradimento personale risulta essere del 17 per cento, pari a quello dell’odiato, anzi odiatissimo Renzi. Che avrebbe fatto del Pd, secondo Grasso, qualcosa di invotabile per un “ragazzo di sinistra” quale il presidente del Senato si sente a 72 anni compiuti il 1° gennaio di questo ormai declinante 2017: ben portati, per carità, ma pur sempre settantadue, in lettere, che diventeranno settantatré, sempre in lettere, fra poco più di un mese.
A trattenere Grasso dalla sua tentazione di capeggiare una sinistra pura e dura non è valso neppure il ritorno sulla scena di Romano Prodi in sostanziale soccorso, per quanto borbottante, come quello di Giuliano Pisapia, al Pd guidato da Renzi, nel disperato tentativo di non ridurre anche la partita elettorale nazionale, come quella siciliana già citata, ad una contesa fra Silvio Berlusconi e Beppe Grillo, sia pure per interposte persone.
Particolarmente compiaciuti, diciamo così, sono i racconti su Grasso scritti per la Repubblica da Liana Milella, la specialista di affari giudiziari. E chi sennò?, dovendosi la signora occupare, come ha appena scritto tra virgolette, del “testimone vivente della lotta per la legalità”. Un testimone che ha personalmente ricordato in una intervista alla Stampa, fra una telefonata e l’altra, di essere sfuggito come magistrato alle stragi mafiose di 25 anni fa grazie al fatto che chi ne ordinò la stessa fine riservata a Giovanni Falcone e a Paolo Borsellino fu arrestato a metà gennaio del 1993: Totò Riina. Che dal carcere è uscito solo da morto.
L’entusiasmo della Milella deve essere apparso eccessivo anche ai colleghi della redazione di Repubblica, il cui fondatore Eugenio Scalfari d’altronde ha rinnovato domenica scorsa l’auspicio che Grasso si dimetta finalmente anche da presidente del Senato, insieme alla sua omologa della Camera Laura Boldrini, anche lei attratta dall’antirenzismo elettorale.
“Per ora Grasso tira dritto”, come presidente del Senato e capo dello schieramento antirenziano, hanno titolato il suo articolo i colleghi della Milella. Per ora, appunto. Poi sarà quel che Dio vorrà, e gli elettori eseguiranno.