La lotteria politica di Renzi e la scuola di formazione di Scalfari

Per farsi un’idea di quanto confuse siano, a loro volta, le idee nei giornali italiani sulla sorte e sulle intenzioni del segretario del Pd Matteo Renzi, che peraltro attende senza particolare ansia di conoscere le dimensioni della sconfitta scontata del suo candidato a governatore della Sicilia, basta leggere i titoli di prima pagina dei due quotidiani italiani più diffusi. Che pure sono entrambi forniti di fior di editorialisti, notisti, cronisti, retroscenisti e quant’altro.

“Renzi pronto alla rinuncia”, ha titolato il Corriere della Sera intendendo per rinuncia quella  non alla carica di segretario del Pd, cui Renzi è stato confermato nella primavera scorsa a larghissima maggioranza, ma all’ambizione di tornare dopo le elezioni a Palazzo Chigi, senza lasciare la guida del partito.

Per facilitare un’intesa di centrosinistra, e recuperare quindi l’alleanza di governo con chi se n’è andato dal Pd in odio a lui, al suo programma, al suo carattere, e agli amici del cosiddetto giglio magico, Renzi sarebbe disposto  a mettere in palio la candidatura a presidente del Consiglio con tanto di primarie. E a dispetto dello statuto del partito, che gli consentirebbe di fare a meno di un simile passaggio nel combinato disposto con la nuova legge elettorale appena promulgata dal presidente della Repubblica fra le inutili proteste dei grillini.

“Il Pd blinda Renzi premier”, ha invece titolato la Repubblica, disponendo evidentemente di notizie non diverse ma opposte a quelle del concorrente milanese di via Solferino.

Sulla stessa Repubblica, tuttavia, il fondatore Eugenio Scalfari, al termine della suo appuntamento domenicale con i lettori, stavolta ancora più lungo del solito, ha rinnovato a Renzi con tono insieme critico e amichevole, quasi da nonno a nipote, o da professore esigente ad allievo indisciplinato, usando i due incontrarsi e sentirsi con  una certa frequenza, il consiglio di fare proprio come il Corriere della Sera ha anticipato. Rinunciare, cioè, al ritorno a Palazzo Chigi, non foss’altro per ridurre le divisioni a sinistra e affrontare meglio le elezioni politiche dell’anno prossimo, senza lasciare a Silvio Berlusconi, come è avvenuto in Sicilia, il compito di contrastare i grillini. E con quale esito, si vedrà al termine dello scrutinio che in Sicilia si fa con comodo.

A Palazzo Chigi Scalfari preferisce che resti Paolo Gentiloni, del quale ha scritto il meglio che potesse aspettarsi il presidente del Consiglio in carica.  In subordine il fondatore di Repubblica ha mostrato, non per la prima volta negli ultimi tempi,  di preferire il ministro dell’Interno uscente Marco Minniti, di origini calabresi come le sue.

Di Minniti, Barpapà ha anche apprezzato le prove che sta facendo come ministro degli Esteri nei rapporti internazionali impostigli dalla difficile gestione delll’immigrazione, tornata però a complicarsi negli ultimi giorni per l’aggravamento della situazione in Libia.

 

 

 

Ripreso da http://www.formiche.net col titolo: Le ultime pagelline di Eugenio Scalfari su Paolo Gentiloni, Marco Minniti e Matteo Renzi

I presidenti delle Camere blindano Bankitalia col calendario dell’inchiesta

Nella curiosa indifferenza, a dir poco, dei giornaloni, che hanno allontanato la notizia dalle loro prime pagine, i presidenti delle Camere hanno concordato di blindare la Banca d’Italia e il suo governatore Ignazio Visco. Questo è  almeno l’effetto della decisione di Pietro Grasso e di Laura Boldrini di tagliare i tempi della commissione parlamentare d’inchiesta sul sistema bancario disponendone la fine con quella della legislatura, cioè col decreto quirinalizio  di scioglimento delle Camere, previsto fra l’ultima settimana dell’anno in corso e le primissime del nuovo.

Per quanto incassata con molta diplomazia dal presidente della commissione Pier Ferdinando Casini, che l’ha definita “ineccepibile” in base ai precedenti, la scelta di Grasso e Boldrini limita l’agibilità degli inquirenti in un momento in cui forse l’opinione pubblica si sarebbe aspettata qualcosa di diverso di fronte alla gravità della questione bancaria.

In verità, anche quando sono state sciolte, le Camere continuano a vivere e ad operare per gli adempimenti urgenti, come l’approvazione dei decreti legge entro la loro scadenza costituzionale di sessanta giorni. Esse cessano davvero di esistere e lavorare con l’insediamento delle nuove.

Se avessero quindi voluto, i presidenti della Camere avrebbero potuto autorizzare la commissione d’inchiesta sulle banche ad andare avanti, magari raccomandando una maggiore blindatura dei loro lavori per evitare un intreccio fra le solite fughe di notizie e la campagna elettorale. Che avrebbe aggravato e  aggraverebbe, anziché risolvere, i problemi del sistema bancario.

Evidentemente convinti della impossibilità di questa blindatura dell’inchiesta, conoscendo i loro polli, non dissimili da certi magistrati i cui archivi sono spesso colabrodo, i presidenti delle Camere hanno finito, volenti o nolenti, per proteggere la Banca d’Italia dai possibili sviluppi di un’indagine che ha già fatto affiorare situazioni inquietanti: per esempio, la grossa discrepanza fra quanto è stato riferito separatamente, sulla vigilanza effettuata a carico degli istituti praticamente falliti, i rappresentanti della stessa Banca d’Italia e della Consob. Che non a caso il presidente della commissione ha convocato per un confronto giovedì prossimo.

In previsione anche di questo appuntamento ha fatto notizia e sollevato polemiche, diversamente dalla decisione presa dai presidenti delle Camere sui tempi della commissione, un incontro avuto a Firenze dallo stesso Casini, per quanto già programmato e svoltosi alla luce del sole, col segretario del Pd Matteo Renzi. Che aveva peraltro appena finito di riproporre con pubbliche dichiarazioni la necessità di svelare e perseguire le responsabilità della mancata o difettosa vigilanza sulle banche in crisi.

“Renzi e Casini si fanno l’indagine tet-a-tet. In privato”, ha titolato sul suo Fatto Quotidiano il direttore Marco Travaglio, in simbiosi culturale, diciamo così, con i soliti grillini. Ai quali il giornale di Travaglio ha fornito ulteriori stimoli protestatari raccogliendo e rilanciando voci di una candidatura blindata per il ritorno al Senato o alla Camera promessa per le prossime elezioni a Casini da Renzi. Ma dicano piuttosto i grillini, e quelli del Fatto Quotidiano, se sono interessati pure loro o no all’accertamento di quel che è accaduto fra Banca d’Italia, Consob e banche saltate in aria con i depositi e gli investimenti dei risparmiatori. O se sono interessati alla blindatura dell’ex istituto di emissione dopo avere chiesto in Parlamento la testa del governatore allora uscente, e poi confermato a dispetto anche della posizione critica assunta pure dal Pd renziano.

In questo groviglio di situazioni e di ruoli non può purtroppo ritenersi di secondaria importanza una circostanza tutta politica riguardante entrambi i presidenti delle Camere.

Pietro Grasso e Laura Boldrini sono partecipi o addirittura protagonisti -secondo alcune cronache non smentite- dello schieramento di sinistra in allestimento per fare concorrenza prima, durante e dopo le elezioni al Pd, cioè in funzione antirenziana. Grasso è dato in vantaggio rispetto alla Boldrini, tanto che ne è stata da qualche parte annunciata l’incoronazione di leader antirenziano in un raduno degli scissionisti del Pd ed altri in programma il 2 dicembre.

 

 

 

 

Pubblicato da ItaliaOggi il 7 novembre 2017

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