Se Berlusconi in cuor suo non volesse vincere le elezioni….

Di fronte alle dimensioni da transumanza dei passaggi personali e di gruppi da un partito all’altro potrebbe essere considerata irrilevante la notizia dell’approdo come alleati, all’interno del cosiddetto centrodestra, dell’ex ministro dell’Agricoltura e poi  sindaco di Roma Gianni Alemanno e dell’ex ministro della Sanità, e poi presidente della regione Lazio, Francesco Storace in quello che sta ormai diventando il condominio della Lega ex Nord di Matteo Salvini.

Sono davvero passati i tempi in cui il ruspante Umberto Bossi, pur già alleato di Silvio Berlusconi, che a sua volta era nel centro-sud alleato dell’ancora Movimento Sociale di Gianfranco Fini, minacciava nei comizi padani di andare a cercare “i fascisti” uno per uno nelle loro case per non fare loro certamente delle carezze.

Non voglio dire con questo che Alemanno e Storace siano ancora classificabili come fascisti, dopo tutta l’acqua che è corsa sotto i ponti romani. Ma non si può neppure dire che essi possano essere considerati antifascisti. Almeno, non mi sembra, se non mi sono perduto qualche battuta dei due esponenti più famosi della destra romana: più ancora di Gianfranco Fini, che pure fu il loro leader, ed ora ha ben altro di cui occuparsi da ex deputato, tra affari familiari e giudiziari.

Eppure non è una notizia minore il passaggio di Alemanno e di Storace nell’area leghista proprio nel momento in cui si accentua, se mai si era attenuata, l’ambizione di Matteo Salvini alla leadership di un nuovo centrodestra, a dispetto del protagonismo di un Silvio Berlusconi sdoganato persino da Eugenio Scalfari fra le proteste di quasi tutta la sua Repubblica di carta e le invettive di Marco Travaglio. Che gli rinfaccia ogni giorno le cose dette e scritte dell’allora Cavaliere, già prima che fosse condannato in via definitiva per frode fiscale e decadesse perciò da senatore e da eleggibile, o candidabile, come preferite.

Specie dopo le gaffe di cui il segretario della Lega si è appena mostrato capace parlando contro la legge sul cosiddetto fine vita, quando ha detto -“senza cattiveria”, lo hanno voluto difendere quelli di Libero in prima pagina-  che morti e moribondi vengono dopo i vivi, Berlusconi dovrebbe scendere dal predellino sui cui è risalito di recente e chiedersi paradossalmente se gli converrà davvero vincere le prossime elezioni politiche. E se non gli converrà invece perderle per meglio sciogliere dopo il voto la compagnia e fare davvero un’intesa di governo col Pd di Matteo Renzi e alleati. Dalla sua ora, grazie al già citato Scalfari, egli ha persino Aristotele. Che il fondatore di Repubblica ha citato l’altro giorno in televisione per dare praticamente dell’ignorante a Travaglio. Il quale, ossessionato dal casellario giudiziario, che consulta come la Bibbia, non ha ancora appreso dalla Storia, con la maiuscola, che una cosa è la politica, altra è la moralità da lui negata all’uomo di Arcore.

Una vittoria elettorale, intesa proprio come tale, cioè come conquista della maggioranza assoluta dei seggi parlamentari grazie a quel poco di maggioritario che è rimasto nella legge di disciplina del rinnovo delle Camere, obbligherebbe Berlusconi allo stesso gioco logorante, e da lui stesso lamentato, delle sue precedenti esperienze di governo, sostanzialmente boicottate ora dall’uno ora dall’altro dei suoi alleati, molto meno omogenei delle sue troppo ottimistiche previsioni. E con una circostanza aggravante, per lui, rispetto al passato: quella di non poter contare ora sulla propria presenza a Palazzo Chigi. Dove l’ex presidente del Consiglio immagina ogni giorno una persona diversa, con stellette o senza, ma sempre non gradita a Salvini. E ora neppure ad Alemanno e Storace. Che non fidandosi della capacità di contenimento, diciamo così, della loro ex collega di partito Giorgia Meloni, hanno deciso di fidarsi di più della Lega, con tutti gli annessi e connessi.

D’altronde, il centrodestra uscito vittorioso dalle elezioni regionali siciliane già appartiene al passato, visto che l’unico leghista eletto, ed escluso dalla giunta, si è ritirato dalla maggioranza. Che è ora ferma a 35 seggi sui 70 del parlamento isolano.  

 

 

 

Ripreso da http://www.formiche.net col titolo: Alemanno, Storace e gli ultimi strattoni fra Salvini e Meloni

 

 

 

 

Le contraddizioni di D’Alema su sinistra e vocazione al comando

Vado ad occhio e orecchio, per come ho visto e sentito Massimo D’Alema, al di qua dello schermo, nel salotto televisivo di Lilli Gruber, a la 7. Se ho visto, sentito o compreso male, sono pronto a chiedergli scusa e a ritirare le due domande che sto per rivolgergli, peraltro senza alcuna acrimonia. L’ex presidente del Consiglio non è mai riuscito a diventarmi antipatico per il suo spigolosissimo temperamento. Ho sempre condiviso le parole dettemi una volta da Sandro Pertini per consolarmi:  “Ad avere un brutto carattere ci vuole poco. Basta averne uno”. Il suo ne era l’esempio.

Ebbene, D’Alema dalla Gruber ha interrotto sarcastico il giornalista Nicola Porro che gli parlava del Pd e di Matteo Renzi come di un partito e di un uomo di sinistra. “Di sinistra?”, gli ha chiesto incredulo, se non scandalizzato, il politico di lungo corso.

Porro ha incassato non insistendo. Il discorso poi è passato alla nuova forza politica che esordirà domenica all’Eur, frutto dell’unificazione, o qualcosa di simile, fra gli scissionisti del Pd, i compagni di Nichi Vendola, quelli di Giuseppe Civati e forse anche altri.

Perfidamente, vista l’interruzione precedente, Porro ha dato per scontata la presenza della parola “sinistra” nel nome del nascituro partito, e delle conseguenti  liste che concorreranno alle prossime elezioni. Ma D’Alema, pur dicendo di saperne poco perché “in queste ore se ne stanno occupando altri”, ha detto di ritenere che quel termine non si troverà nel nome della nuova forza politica perché certe “categorie” ormai sono vecchie, superate. Infatti circola la

sigla di “liberi e uguali” e varianti, fra cui l’ex presidente del Consiglio ha mostrato una certa predilezione per i “progressisti”.

Chiedo a questo punto a D’Alema che senso abbia contestare la qualifica di sinistra a Renzi e al Pd se si tratta di una categoria superata: tanto superata, da non essere adottabile dal nuovo partito antirenziano che lui sta costruendo con Pier Luigi Bersani e tanti altri. Fra i quali avrebbe potuto esserci anche l’ex sindaco di Milano Giuliano Pisapia se non avesse cambiato idea e posizioni, di cui -ha avvertito severamente D’Alema- “risponderà solo alla sua coscienza”.

Va peraltro ricordato che al superamento della vecchia categoria politica della sinistra proprio D’Alema diede il suo contributo d’azione e di cultura negli anni della scoperta o valorizzazione del blairismo, da Tony Blair, il leader laburista e a lungo premier britannico. Ed erano anni nei quali Renzi andava ancora a scuola.

L’altra domanda che vorrei fare all’ex presidente del Consiglio nasce dagli apprezzamenti che lui ha fatto del presidente del Senato Pietro Grasso accreditando una sua partecipazione alla nuova formazione politica.

In particolare, del “vecchio ragazzo di sinistra” quale lo stesso Grasso si è recentemente definito in un raduno di scissionisti dal Pd, D’Alema ha apprezzato nell’ordine: di essersi dato alla politica dopo essere andato in pensione come magistrato, di non aver voluto candidarsi nel 2013 in Sicilia, dove aveva svolto buona

parte della sua carriera giudiziaria, di aver saputo o di sapere -non ricordo bene- “comandare”. Quest’ultimo è un termine che invece ricordo bene. E nasce proprio qui la mia seconda domanda.

Se il problema è, o è anche quello di comandare, variante non militare di decidere ma comportante comunque una certa determinazione, di cui si ha bisogno anche nella conduzione di un movimento politico, come avvertirono ai loro tempi nelle proprie formazioni, fra gli altri, Palmiro Togliatti, Enrico Berlinguer, Alcide De Gasperi, Amintore Fanfani e Bettino Craxi, che senso ha presentare come un tiranno, o aspirante tale, Matteo Renzi? Non credo francamente che sia una domanda troppo impertinente.

Dall’elenco dei leader e partiti che hanno avvertito o avvertono tuttora, il dovere o bisogno di una certa disciplina, ho escluso Silvio Berlusconi e la sua Forza Italia perché li considero un po’ fuori concorso per la loro peculiarità. Che deriva anche dall’ossessione che ne hanno avuto e ne hanno ancora certi magistrati di prima linea, rigorosamente al minuscolo naturalmente.

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

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