I presidenti delle Camere blindano Bankitalia col calendario dell’inchiesta

Nella curiosa indifferenza, a dir poco, dei giornaloni, che hanno allontanato la notizia dalle loro prime pagine, i presidenti delle Camere hanno concordato di blindare la Banca d’Italia e il governatore Ignazio Visco. Questo almeno è l’effetto l’effetto della  decisione di Pietro Grasso e di Laura Bordini di tagliare i tempi della commissione parlamentare d’inchiesta sul sistema bancario disponendone la fine con quella della legislatura, cioè col decreto quirinalizio di scioglimento delle Camere, previsto fra l’ultima settimana dell’anno in corso e le primissime del nuovo.

Per quanto incassata con molta diplomazia dal presidente della commissione Pier Ferdinando Casini, che l’ha definita “ineccepibile” in riferimento ai precedenti, la scelta di Grasso e Boldrini limita l’agibilità degli inquirenti e potrebbe avere sorpreso l’opinione pubblica, che si sarebbe aspettata qualcosa di diverso di fronte alla gravità della questione bancaria.

In verità, anche quando sono state sciolte, le Camere continuano a vivere e ad operare per gli adempimenti urgenti, come l’approvazione dei decreti legge entro la loro scadenza costituzionale di sessanta giorni. Esse cessano davvero di esistere e lavorare con l’insediamento delle nuove.

Se avessero quindi voluto, i presidenti della Camere avrebbero potuto autorizzare la commissione d’inchiesta sulle banche ad andare avanti, magari raccomandando una maggiore blindatura dei loro lavori per evitare un intreccio fra le solite fughe di notizie e la campagna elettorale. Che aggraverebbe, anziché risolvere, i problemi del sistema bancario.

Evidentemente convinti della impossibilità di questa blindatura dell’inchiesta, conoscendo i loro polli, non dissimili da certi magistrati i cui archivi sono spesso colabrodo, i presidenti delle Camere hanno finito, volenti o nolenti, per proteggere la Banca d’Italia dai possibili sviluppi di un’indagine che ha già fatto affiorare situazioni inquietanti: per esempio, la grossa discrepanza fra quanto è stato riferito separatamente, sulla vigilanza effettuata a carico degli istituti praticamente falliti, i rappresentanti della stessa Banca d’Italia e della Consob. Che non a caso il presidente della commissione ha convocato per un confronto giovedì prossimo.

In previsione anche di questo appuntamento ha fatto notizia e sollevato polemiche, diversamente dalla decisione presa dai presidenti delle Camere sui tempi della commissione, un incontro avuto a Firenze dallo stesso Casini, per quanto già programmato e svoltosi alla luce del sole, col segretario del Pd Matteo Renzi. Che aveva peraltro appena finito di riproporre con pubbliche dichiarazioni la necessità di svelare e perseguire le responsabilità della mancata o difettosa vigilanza sulle banche in crisi.

“Renzi e Casini si fanno l’indagine tet-a-tet. In privato”, ha titolato sul suo Fatto Quotidiano il direttore Marco Travaglio, in simbiosi culturale, diciamo così, con i soliti grillini. Ai quali il giornale di Travaglio ha fornito ulteriori stimoli protestatari raccogliendo e rilanciando voci di una candidatura blindata per il ritorno al Senato o alla Camera promessa per le prossime elezioni a Casini da Renzi. Ma dicano piuttosto i grillini, e quelli del Fatto Quotidiano, se sono interessati pure loro o no all’accertamento di quel che è accaduto fra Banca d’Italia, Consob e banche saltate in aria con i depositi e gli investimenti dei risparmiatori. O se sono interessati alla blindatura dell’ex istituto di emissione dopo avere chiesto in Parlamento la testa del governatore allora uscente, e poi confermato a dispetto anche della posizione critica assunta pure dal Pd renziano.

In questo groviglio di situazioni e di ruoli non può purtroppo ritenersi di secondaria importanza una circostanza tutta politica riguardante entrambi i presidenti delle Camere.

Pietro Grasso e Laura Boldrini sono partecipi o addirittura protagonisti -secondo alcune cronache non smentite- dello schieramento di sinistra in allestimento per fare concorrenza prima, durante e dopo le elezioni al Pd, cioè in funzione antirenziana. Grasso è dato in vantaggio rispetto alla Boldrini, tanto che ne è stata da qualche parte annunciata l’incoronazione di leader antirenziano in un raduno degli scissionisti del Pd ed altri in programma il 2 dicembre.

 

Pubblicato da ItaliaOggi il 7 novembre 2017

Clamoroso scontro fra Mario Monti e il “suo” Corriere della Sera

Il senatore a vita Mario Monti da vecchio, autorevole e riveratissimo collaboratore del Corriere della Sera non ha creduto ai suoi occhi leggendo Aldo Cazzullo, firma di punta del più diffuso giornale italiano, forse destinato a diventarne prima o poi direttore. Che ha raccolto “il fallimento” del governo tecnico montiano formato nell’autunno del 2011 sotto l’incalzare della speculazione finanziaria sui titoli del debito pubblico italiano come “il sentimento prevalente dell’opinione pubblica”.

L’ex presidente del Consiglio ha preso perciò carta e penna, o impugnato il suo computer portatile, per scrivere una lettera risentita di protesta le cui reazioni in via Solferino temo che non gli siano piaciute per niente.

Innanzitutto la missiva non ha avuto sconti nella collocazione, confinata nella pur seguitissima   ma ventisettesima pagina delle lettere.  E soprattutto ha ricevuto da Cazzullo una risposta ancor meno priva di sconti perché l’editorialista e altro ancora del Corriere della Sera ha ribadito la sua convinzione, conforme alla percezione prevalente dell’opinione pubblica sul bilancio del primo e sinora fortunatamente unico governo dell’ex commissario europeo.

In particolare, essendosi Monti vantato di avere affrontato l’emergenza finanziaria del 2011 rifiutando orgogliosamente l’aiuto internazionale, che avrebbe limitato l’autonomia nazionale, chiamata enfaticamente “sovranità”   dal senatore a vita, Cazzullo gli ha fatto notare che forse fu proprio questo il suo errore. E ha ricordato all’ex presidente del Consiglio l’esperienza della Spagna. Che quell’aiuto invece lo cercò e l’ottenne con risultati  di risanamento dei conti decisamente migliori di quelli ottenuti dal governo tecnico in Italia, ma soprattutto meno dolorosi di quelli percepiti a casa nostra.

Bravo, Cazzullo, anche se il suo coraggio dovesse costargli qualche grana. Bravo soprattutto a non farsi mettere sull’attenti dal professore bocconiano.

Ingorghi davanti all’ufficio di Pietro Grasso al Senato

Ci vuole ormai un semaforo nei corridoi o lungo le scale del Senato che portano allo studio del presidente Pietro Grasso. Sul traffico, per fortuna tutto pedonale, vigila curiosamente per la Repubblica di carta, riferendone con la solita puntualità ai lettori, la specialista di affari giudiziari Liana Milella. Eppure Grasso non è più magistrato. Nè sta incontrando in questi giorni suoi ex colleghi di toga. Nè sono sulla sua scrivania in evidenza nuovi disegni di legge sulla tormentatissima amministrazione della giustizia italiana che possano giustificare uno scrupolo a contribuirvi con la competenza della sua lunghissima attività professionale.

No. Il traffico davanti allo studio di Grasso, dopo le sue improvvise e motivate dimissioni dal Pd, che quasi cinque anni lo portò con la regia dell’allora segretario Pier Luigi Bersani prima al Senato e poi al suo vertice, è tutto politico, anzi partitico.

Da Grasso, che Bersani -sempre lui- ha detto di vedere “da Dio” alla guida di una nuova sinistra, intesa come un cartello elettorale antirenziano, per chiamare le cose col loro nome, sono andati in questi giorni, da soli e persino in delegazione, esponenti interessati proprio a quel progetto. Ed anche -va detto- qualche dirigente del Pd, come Gianni Cuperlo, che non si è aggiunto agli scissionisti, ma ne è corteggiatissimo e tentato ogni tanto di seguirli col suo stile mitteleuropeo.

Eppure nell’isola dove gli antirenziani hanno appena sperimentato la loro operazione, che è la Sicilia proprio di Grasso, il risultato è stato fallimentare. L’apporto che essi hanno dato alla candidatura di Claudio Fava a governatore regionale, non ha superato l’uno per cento, che si è aggiunto al cinque che aveva di suo il capo della lista ispirata ai famosi cento passi di Peppino Impastato, fra le proteste dei familiari e degli amici della vittima della mafia, ucciso in un finto tentativo di attentato ferroviario dell’ultrasinistra in Sicilia nello stesso giorno in cui terroristi veri uccidevano a Roma Aldo Moro, dopo quasi due mesi di drammatica prigionia.

Bersani, D’Alema, Gotor e compagni ritengono evidentemente di poter fare meglio e di più a livello nazionale, specie se Grasso dovesse mettersi al volante del loro pulmino e far seguire – si spera- alle dimissioni dal Pd, magari nelle ultime battute della legislatura, quelle da presidente del Senato, e da potenziale presidente supplente della Repubblica e del Consiglio Superiore della Magistratura.

Nel frattempo, in attesa di maturare le decisioni finali,  naturalmente sofferte, Grasso sta ripetendo, volente o nolente, la stessa esperienza di Gianfranco Fini nel 2010 alla Camera. Dove l’allora presidente dell’assemblea, rotti tutti i ponti politici e personali col presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e rimasto fermamente al suo posto, incontrava nel proprio ufficio tutti gli oppositori possibili e immaginabili, concordando con alcuni di essi persino una mozione di sfiducia al governo alla vigilia della cosiddetta sessione di bilancio.

Ci volle l’inusuale intervento dell’allora capo dello Stato Giorgio Napolitano, con tanto di vertice istituzionale al Quirinale, per mettere in sicurezza la legge finanziaria facendo calendarizzare solo dopo l’approvazione del bilancio la sfida al governo. Che, contrariamente alle leggende ancora perduranti su una complicità tra Fini e Napolitano, o viceversa, ebbe il tempo necessario per organizzare la sua difesa e battere la  insidiosissima mozione di sfiducia.

La crisi  e la caduta di Berlusconi sarebbero arrivate dopo quasi un anno, e per effetto non dell’anomalo passaggio all’opposizione di un presidente della Camera rimasto ostinatamente nella sua postazione istituzionale, ma di una crisi economica e finanziaria indipendente dalle presunte o reali capacità manovriere di Fini e amici.

Per fortuna le circostanze di questa fine di legislatura sono assai diverse, politicamente e finanziariamente, da quelle dall’autunno del 2011, quando si concluse l’esperienza governativa di Berlusconi, ma le anticamere di Fini del 2010 e di Grasso in questo autunno 2017 si assomigliano. Forse anche troppo, a scapito in entrambi i casi del ruolo neutrale imposto quanto meno dal galateo istituzionale ai presidenti delle Camere.

 

 

 

Ripreso da http://www.formiche.net col titolo: Vi racconto il movimentismo bersaniano di Pietro Grasso

Pubblicato da ItaliaOggi dell’11 novembre 2017

Blog su WordPress.com.

Su ↑