Pochi giornali, troppo pochi, hanno saputo resistere alla tentazione di terremotare le loro prime pagine o addirittura la loro foliazione, come si dice in gergo tecnico, per valorizzare la notizia, neppure arrivata all’ultimo momento, della morte di Totò Riina. Che era avvenuta, sempre in stato di detenzione, nell’ospedale di Parma la notte prima, non in quella di chiusura e stampa dei quotidiani in edicola. E’ stato quindi un terremoto, diciamo così, ragionato e non improvvisato.
L’arcivescovo di Monreale ci sarà rimasto male, dopo avere auspicato che del boss mafioso finalmente estinto non si facesse un mito, o un eroe. Eppure il monsignore credo che sappia di mafia e dintorni più di tanti giornalisti che ne scrivono, e persino di tanti magistrati che se ne occupano: spesso solo come antipasto per le loro future carriere politiche. Che sono state appena ridenunciate con la solita lucidità dal vecchio, saggio Emanuele Macaluso scrivendo del nuovo partito annunciato o minacciato da Antonio Ingroia. Al quale evidentemente non è bastata la ben misera sorte riservatagli dagli elettori quasi cinque anni fa, ancora fresco del suo lavoro giudiziario sulle presunte trattative fra lo Stato e la mafia nella stagione stragista di un quarto di secolo fa. Non parliamo poi dello scontro avuto dall’allora procuratore aggiunto con un presidente della Repubblica in carica, finito “casualmente” fra i suoi intercettati, sempre in ordine a quel processo che si trascina ancora a Palermo in questo autunno 2017, dopo avere perso per strada qualche imputato assolto col rito abbreviato, o in procedimenti analoghi, o morto, com’è appena accaduto a Riina.
Al cui capezzale c’è stato chi, scrivendone come in un concorso al premio Pulitzer, ha rivelato -naturalmente dolendosi- che abbiano potuto accorrere per consolarlo negli ultimi istanti i familiari. Che invece sono stati autorizzati a raggiungerlo quando era già troppo tardi, avendo avuto il ministro della Giustizia firmato la cessazione o sospensione del regime durissimo di detenzione noto come 41 bis, dalla norma che lo disciplina, troppo tardi. E ciò -temo- per non incorrere nelle proteste o diffide della commissione parlamentare d’inchiesta parlamentare antimafia Rosy Bindi. Che nei mesi scorsi, quando già le condizioni di salute del detenuto erano peggiorate e la stessa magistratura segnalò l’opportunità di un approfondimento, si affrettò a un sopralluogo per certificarne un aggravamento non ancora abbastanza forte e la sua perdurante pericolosità come capo operoso della mafia.
Non faccio il nome di questo collega aspirante al premio Pulitzer per carità professionale, e per essermene già occupato in altre occasioni, col rischio quindi di sembrarne ossessionato.
Segnalo invece politicamente con nome e cognome un altro direttore, Michele Travaglio, che sul suo Fatto Quotidiano ha destinato o lasciato destinare “la cattiveria” di giornata, rubrica di prima pagina, al solito Berlusconi. Per “tranquillizzare” il quale la sunnominata Bindi, conoscendone evidentemente abitudini e frequentazioni, vecchie e nuove, avrebbe annunciato che la morte di Totò Riina “non è la fine della mafia”.