Piero Fassino, che all’anagrafe si chiama anche Franco Rodolfo, incaricato dal segretario del Pd Matteo Renzi di tentare un’alleanza elettorale con gli scissionisti e quanti altri ne sono attratti, ha inserito anche questo incarico in quelli esercitati in quaranta anni di attività politica “per passione”. Che è poi il titolo del libro autobiografico scritto nel 2003 e pubblicato da Rizzoli, quando lui era già da un anno e mezzo segretario dei Democratici di Sinistra, come si chiamavano i provenienti dal Pci, e forse non immaginava neppure di riuscire davvero a portarli nel 2007 alla fusione con i provenienti dalla sinistra democristiana ed altri nel Partito Democratico, affidatosi alla guida di Walter Veltroni.
Già nella prefazione a quel libro Fassino avvertiva, esattamente il 30 giugno 2003, “di quale stoffa sia fatta la sinistra italiana”: una stoffa “che la può rendere grande e la può perdere”.
Dove sia arrivata questa sinistra quattordici anni dopo il libro di Fassino lo dicono i fatti che hanno indotto Renzi a richiamarne in servizio l’autore per affidargli la missione disperata di ricomporre un po’ le divisioni vecchie e nuove. E ciò per evitare che si ripeta a livello nazionale, fra qualche mese, lo scenario elettorale siciliano del 5 novembre scorso. Che ha circoscritto la contesa politica per il governo del Paese a Silvio Berlusconi e a Beppe Grillo, per chiamare coi nomi dei due protagonisti questo nuovo bipolarismo, per quanto assai curioso. Le due forze che lo compongono sono ben lontane da coprire tutto il terreno di gioco, peraltro disertato da assenteisti ormai cronici, che costituirebbero il vero partito di maggioranza.
C’è tuttavia qualcosa di perfido nella scelta di Fassino da parte di Renzi come missionario nel campo degli scissionisti ed altri avversari. Fra tutti gli ex o post-comunisti rimasti nel partito dell’ex presidente del Consiglio, Fassino è il più anomalo: ancor più di Veltroni, che pure si vanta di avere potuto militare a suo tempo nel Pci senza essere stato o essersi sentito davvero comunista.
Il libro autobiografico di Fassino fu alla sua uscita un pugno nello stomaco a uno come Massimo D’Alema, che avrebbe riconosciuto solo quattordici anni dopo a Bettino Craxi la statura di “statista”, e solo per il gusto di contrapporlo a Renzi. Il quale dello scomparso leader socialista non vuole neppure sentir parlare come figura nel suo metaforico Pantheon, per quanto Craxi lo avesse preceduto di parecchio nella concezione di una sinistra moderna. A lui Renzi ha sempre e curiosamente preferito come punto di riferimento Enrico Berlinguer. Cui invece Fassino con onestà intellettuale e coraggio persino fisico, coi tempi che ancora correvano nel 2003, e forse corrono ancora dalle sue parti, rimproverò di essersi lasciato battere da Craxi sul terreno della modernità, sino a morirne prima ancora del segretario socialista, scomparso ad Hammameth nel 2000.
Quello guidato da Berlinguer nel 1984, quando egli morì dopo un drammatico comizio elettorale a Padova di duro attacco al governo Craxi, “è un partito -si legge nel libro di Fassino- che non sa opporsi al richiamo delle sirene del passato. Un partito che si rifugia in una autoconsolatoria riaffermazione di identità, di cui si rivendica la “diversità”: come se la differenza tra noi e gli altri partiti fosse un fatto genetico, e non più semplicemente programmatico. Un partito che si esilia, così, in una malinconica e solitaria navigazione senza bussola”. Che è un po’ quello -diciamo la verità- che hanno improvvisato in questo 2017 Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema uscendo dal Pd e risvegliando la passione non di Fassino ma di quel “ragazzo di sinistra” che il presidente del Senato si è recentemente vantato di sentirsi ancora, emulato dalla più giovane presidente della Camera.
“Mi è capitato spesso di pensare a Berlinguer -si legge ancora nel bel libro autobiografico dell’ex sindaco di Torino, a pagina 161- come a un campione di scacchi che sta giocando la partita più importante della sua vita. La partita dura ormai da molte ore, sta giungendo alle battute finali. E guardando la scacchiera il campione si accorge che, con la prossima mossa, l’avversario gli darà scacco matto. Ha un solo modo per evitarlo: morire un minuto prima che l’altro muova. In fondo, la tragica fine risparmia a Berlinguer l’impatto con la crisi della sua strategia politica”.
Volete che con queste credenziali insieme di militante, di dirigente di partito e di storico il missionario Fassino abbia in questi giorni davvero la possibilità di ricucire per conto di Renzi con gli epigoni di Enrico Berlinguer, quali mi appaiono D’Alema e compagni? Francamente, ne dubito. Non a caso quelli del Fatto Quotidiano hanno esultato in prima pagina perché Grasso e D’Alema, appunto, hanno già “snobbato” il loro interlocutore.
Pubblicato da ItaliaOggi il 17 novembre 2017