L’assordante silenzio dei renziani su Berlusconi mandante di stragi

Visto  il destino fallimentare che anche uno specialista ed estimatore delle toghe come Marco Travaglio  ha definito “probabile” scrivendo delle nuove indagini aperte dalla Procura di Firenze su Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri come mandanti delle stragi di mafia compiute nel biennio 1992-93, le reazioni politiche sono sono più importanti e significative dell’annuncio dell’ennesima inchiesta giudiziaria sui fondatori di Forza Italia.

Abituati ormai alla musica delle Procure, e convinti forse non a torto di poterne ricavare addirittura vantaggi elettorali sia in Sicilia, dove si voterà fra qualche giorno, sia in tutta Italia, dove si voterà fra poco più di quattro mesi per il rinnovo delle Camere, Berlusconi e i suoi amici, oltre ai legali, hanno fatto spallucce o poco più. Ed hanno strappato solidarietà agli alleati di centrodestra pur insofferenti della leadership dell’ex presidente del  Consiglio.

Quando indagini e processi diventano troppi, diminuiscono gli indignati e aumentano gli scettici. Sorprende che non se ne rendano conto i magistrati,  che finiscono per diventare loro i più danneggiati perdendo credibilità. Che per un giudice, ma anche per un pubblico ministero dovrebbe essere il primo bene da tutelare.

Le reazioni dei grillini sono state a dir poco grottesche, essendosi tradotte nella protesta contro il solito “sistema informativo”. Che avrebbe dato più risalto alle bagatelle dei loro amministratori e militanti locali, alle prese crescenti con tribunali e dintorni, o alla loro allegra prenotazione di un rogo per il capogruppo del Pd alla Camera Ettore Rosato, che alle vicende giudiziarie di Berlusconi.

Da sinistra invece, fatta eccezione per l’ex presidente della Camera Luciano Violante, affrettatosi a definire “singolare” la decisone dei suoi ex colleghi magistrati di correre appresso all’ergastolano di mafia Giuseppe Graviano, intercettato in carcere mentre parla o allude a Berlusconi mandante delle stragi guardando verso l’obiettivo nascosto che lo ritraeva, si è levato un silenzio assordante.

Neppure Matteo Renzi e i suoi amici, che si vantano di essere garantisti, specie da quando hanno cominciato a sperimentare di persona gli inconvenienti di una giustizia alquanto garibaldina e invasiva, per non dire politicizzata, hanno avvertito il bisogno o l’opportunità di esprimere un dubbio, magari fermandosi all’osservazione di Violante e condividendola.

Al massimo, si è sentito qualche amico del segretario del Pd -per esempio, Emanuele Fiano e Stefano Esposito- esprimere preoccupazione per il vantaggio elettorale che Berlusconi potrebbe ricavare dall’ennesimo assalto giudiziario, che potrebbe farlo apparire come un perseguitato: apparire, quindi, non essere.

Evidentemente, già sospettati o accusati dai loro concorrenti a sinistra, peggiori degli avversari  secondo regole e abitudini dei fratelli coltelli, di coltivare progetti di governo e di maggioranza con Berlusconi dopo le elezioni, hanno chiuso le finestre e non si sono neppure affacciati sulla strada delle polemiche sulle nuove indagini di Firenze, o sulle vecchie già chiuse con l’archiviazione ma riaperte, per arrivare ai mandanti delle stragi mafiose di più di 25 anni fa.

Non è stato, quello dei renziani, francamente uno spettacolo confortante, almeno per quanti avevano pensato ch’essi fossero di una pasta davvero diversa dai loro predecessori in tema di rapporti fra politica e magistratura. Li trattiene evidentemente la stessa paura che hanno sempre avuto di rivisitare, diciamo così, la vicenda di Bettino Craxi. Che pure ne anticipò i tentativi di modernizzare la sinistra. Essi hanno lasciato che fosse il loro avversario ormai giurato Massimo D’Alema a parlare dell’ultimo leader socialista, sia pure dopo più di diciassette anni dalla morte, come di uno “statista”, per giunta contrapposto proprio a Renzi, considerato un mezzo infiltrato della destra  nel Pd.

 

 

Pubblicato su ItaliaOggi il 3 novembre 2017

Travaglio ricorda la “brusca” fine delle stragi mafiose con Berlusconi al governo

È stato evidentemente irresistibile, al solito, il richiamo della foresta giustizialista, e in più antiberlusconiana. Marco Travaglio, pur consapevole che “l’esito più probabile dell’ennesima inchiesta sui mandanti occulti delle stragi” mafiose di più di 25 anni fa “è lo stesso di quelle precedenti: l’archiviazione”, ha sparato a pallettoni, fortunatamente solo di carta, contro Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri. Sui quali la Procura di Firenze, stimolata da carte inviate da Palermo, ha chiesto e ottenuto dal giudice di tornare ad indagare, appunto, sui presunti pupari dei mafiosi che fra il 1992 e il 1993 “insanguinarono l’Italia, da Firenze a Milano e a Roma, uccidendo 10 innocenti -ha ricordato il direttore del Fatto Quotidiano- e ferendone altre decine, abbattendo basiliche e musei e aprendo la strada al primo governo B”.

B naturalmente, tanto per risparmiare qualche battuta nella stesura dell’articolo, e nella lettura al pubblico che aveva fretta di arrivare alla conclusione, è Berlusconi. Il quale pertanto arrivò a Palazzo Chigi non tanto per avere vinto libere e regolari elezioni, in competizione col cartello dei progressisti, guidati dall’ultimo segretario del Pci Achille Occhetto, e dei centristi raccoltisi attorno a Mario Segni, quanto per il terrore seminato dalla mafia. Che avrebbe concesso con i suoi attentati, e col sangue degli altri, quella “bella cosa” chiesta, o fatta chiedere, a uomini come Giuseppe Graviano, arrestato peraltro proprio nel 1994 e condannato a un po’ di ergastoli anche per quelle stragi

È stato proprio Graviano che nella primavera dell’anno scorso, parlando con un compagno d’aria, diciamo così, e guardando curiosamente in direzione della telecamera nascosta che lo riprendeva su ordine della Procura di Palermo, si è vantato della “bella cosa” -ripeto- chiesta da Berlusconi. Il cui nome, tuttavia, non è risultato chiaro a tutti i periti che hanno ascoltato l’intercettazione depositata dai pubblici ministeri di Palermo al processo in corso in quella città da tempo ormai immemorabile sulla presunta trattativa fra lo Stato e la mafia nella stagione delle stragi.

Purtroppo, per i pubblici ministeri siciliani, al processo di Palermo non hanno potuto saperne di più perché quel furbacchione di Gaviano, forse per condurre meglio un’azione di “ricatto” sospettata anche dal Fatto Quotidiano nel titolo di prima pagina di ieri, ha taciuto ai giudici avvalendosi della facoltà di non rispondere come imputato di procedimenti connessi. Ma per loro fortuna e avvedutezza i pubblici ministeri di Palermo hanno informato del loro materiale anche le Procure delle altre città investite dalle stragi. E quella di Firenze, pur avendo dovuto archiviare negli anni passati due inchieste analoghe nate da dichiarazioni di altri pentiti di mafia, non si è lasciata scappare l’occasione per confermare il vecchio detto popolare che non c’è due senza tre.

In verità, a Firenze avrebbero potuto anche aspettare qualche giorno per evitare che l’annuncio della nuova inchiesta, o la riapertura delle vecchie, coincidesse con gli ultimi giorni della campagna elettorale in Sicilia per il rinnovo dell’amministrazione regionale, cui partecipa personalmente proprio Berlusconi a sostegno del candidato della sua parte politica a governatore dell’isola. E vi partecipa come antipasto della campagna elettorale nazionale che, per quanto in corso di fatto da circa un anno, cioè dalla sconfitta referendaria di Matteo Renzi sulla riforma costituzionale, si aprirà formalmente fra un paio di mesi per il rinnovo delle Camere.

Mi rendo tuttavia conto, per quanto spiacevole sia la coincidenza, tradotta spesso nell’immagine della “giustizia ad orologeria”, che in Italia -fortunatamente per certi versi- si vota ogni anno, e quasi in ogni stagione,. Lo ha più volte fatto notare, a sostegno dei suoi colleghi, giudici o inquirenti che siano, l’ex segretario dell’associazione nazionale dei magistrati Percamillo Davigo. Pertanto a Firenze potrebbero sentirsi pure offesi a sentirsi contestare i tempi della loro iniziativa, e persino scaricare la responsabilità della coincidenza ai giornali che hanno dato una notizia segreta, imbeccati dal solito uccel di bosco.

Anche questo ormai è uno scenario abituale, al quale non c’è giornalista che possa rivoltarsi o eccepire qualcosa senza essere scambiato o per un invidioso dei più fortunati o bravi concorrenti o un traditore della professione. È ciò che ha sempre fatto e scritto in difesa dei suoi scoop giudiziari Travaglio, che coerentemente -va detto- si è complimentato questa volta con i colleghi del Corriere della Sera e di Repubblica preferiti, diciamo così, dall’uccello di bosco di turno.

In un empito di generosità verso gli inquirenti fiorentini il direttore del Fatto Quotidiano ha loro offerto un contributo non so se più semplicemente di cronista o più presuntuosamente di storico: un contributo di conoscenza o di analisi, come preferite, per capire fatti e circostanze su cui sulle rive dell’Arno si sta indagando.

Appena arrivato B a Palazzo Chigi- ha scritto in un inciso del suo editoriale di ieri Travaglio, mettendolo fra due parentesi- vi fu “la brusca fine della stagione stragista”. Pensate un po’: brusca, non con la maiuscola di un altro famoso pentito di mafia, ma con la minuscola dell’aggettivo che indica, come leggo sul dizionario della lingua italiana di Giacomo Devoto e Gian Carlo Oli, una persona mancante di tatto e di riguardo.

Meno sospetta per gli antiberlusconiani di professione, e più utile paradossalmente all’allora presidente del Consiglio, e perdurante leader del centrodestra, al netto della concorrenza che gli fa Matteo Salvini, sarebbe stata dopo il suo arrivo alla guida del governo una fine graduale delle stragi mafiose: una ogni anno, per cominciare, e poi ogni due, e poi ancora ogni tre.

Ma cessarle così, di colpo, mentre peraltro venivano catturati i vari Graviano e, più in alto ancora, Riina e Provenzano, no. Questo, i mafiosi non dovevano proprio farlo a Travaglio, ai suoi lettori e ai suoi estimatori, togati e non.

Ne’ dovevano farla tanto sporca a Travaglio  il Matteo Renzi oggi in carica al vertice del maggiore partito della sinistra e tutti i suoi predecessori, ora in parte avversari, che non hanno mai voluto costituire -ha lamentato il direttore del Fatto Quotidiano- il necessario “Comitato di liberazione nazionale da Berlusconi”, e dai ricatti suoi e della mafia. Ma chi e quando si deciderà invece a liberarci dai giustizialisti e dai loro ricatti  moralistici? Del  moralismo di un tanto al chilo.

 

 

Pubblicato su Il Dubbio del 2-11-2017

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