Nuovo e vecchio antiberlusconismo, e berlusconismo

Il buon Angelo Panebianco si è appena chiesto sul Corriere della Sera se “la rinascita di Berlusconi farà rinascere anche l’antiberlusconismo”. Che sembrava molto affievolito, se non scomparso, dopo la rovinosa caduta dell’ultimo governo dell’allora Cavaliere, la condanna definitiva per frode fiscale, la conseguente decadenza da senatore, l’irruzione di un nuovo protagonista come Beppe Grillo e l’individuazione, da parte della sinistra e di una certa intellettualità, di un nuovo “tiranno” in fasce con cui prendersela: naturalmente Matteo Renzi.

Non so, francamente, se più l’impressione o l’auspicio dell’insigne professore e editorialista del Corriere della Sera è che non possa decollare più di tanto l’antiberlusconismo di ritorno avvertito qua e là. Cui il solito Marco Travaglio non ha saputo sottrarsi scrivendo, in coincidenza con quello di Panebianco, un editoriale sul suo Fatto Quotidiano per dolersi, fra l’altro, che l’uomo di Arcore sia “ancora incredibilmente a piede libero”.

Fra le ragioni del suo ottimismo, finalizzato al perseguimento di una politica meno astiosa e più ragionata, e soprattutto più consapevole del rischio maggiore per la sorte della democrazia derivante dal movimento antisistemico delle 5 Stelle, Panebianco ha indicato non l’età ormai di Berlusconi, di ben 23 anni più anziano dell’impetuoso esordio politico, ma la sua ridotta forza elettorale. La sua Forza Italia in effetti ha perso metà dei voti raccolti nelle elezioni europee del 1994, superiori di un terzo a quelli delle elezioni politiche di pochi mesi prima. La stessa leadership berlusconiana, già indebolita dalla incandidabilità elettorale che ancora pesa sull’ex presidente del Consiglio, è contestata  all’interno dello schieramento di centrodestra un giorno sì e l’altro pure dal rampante segretario leghista Matteo Salvini. Al quale una sinistra ragionevole dovrebbe pur preferire  politicamente il Berlusconi “ancora a piede libero” lamentato da Travaglio.

La “rinascita” di Berlusconi, o del berlusconismo, per ripetere la parola o l’immagine di Panebianco, non sta comunque provocando soltanto una rinascita dell’antiberlusconismo, debole o forte, lento o veloce che sia, ma anche un certo affollamento ai cancelli metaforici della villa di Arcore. E ciò spesso con spettacoli francamente imbarazzanti, come quello offerto qualche sera fa, nel salotto televisivo di Lilli Gruber, da un ex collaboratore di Berlusconi che ora siede su designazione dei grillini nel Consiglio di amministrazione della Rai: Carlo Freccero.

Quest’ultimo, in pur amichevole polemica con la stessa Gruber e con Vittorio Zucconi, critici di una lunga serata televisiva di Berlusconi con l’amico Maurizio Costanzo, che “insieme -aveva osservato Zucconi- fanno più di un secolo e mezzo”, ha elogiato la freschezza, l’arguzia, la scaltrezza e quant’altro dimostrate dall’ex presidente del Consiglio parlando della sua infanzia e famiglia senza ricordare, vista la impopolarità delle banche, il lavoro del padre.

Ma il papà di Silvio Berlusconi, benedetto Freccero, non era un banchiere. Era più semplicemente, o meno impopolarmente con gli occhi di oggi, il dipendente di una banca, sia pure di livello, non il proprietario. Cerchiamo di non esagerare nella vecchia arte, consapevole o no, dell’adulazione.

Sa sempre più di Cardinale la vittoria del centrodestra in Sicilia

Il numero magico, perché ricorrente, delle elezioni siciliane appena svoltesi e dei loro risultati è il cinque.

Cinque sono notoriamente le stelle del movimento grillino, che è riuscito a raccogliere il maggior numero di voti, pur mancando l’obiettivo della presidenza del governo regionale col suo candidato Giancarlo Cancelleri. Che è riuscito peraltro a raccogliere più consensi della lista dei candidati del suo partito a consiglieri regionali, avendo potuto giovarsi del voto cosiddetto disgiunto consentito dalla legge elettorale vigente nell’isola.

Sono stati circa otto i punti percentuali conquistati da Cancelleri oltre quelli della lista orgogliosamente solitaria del suo partito. A fornirli sono stati presumibilmente gli elettori delle due sinistre fronteggiatesi rovinosamente attorno alle candidature di Fabrizio Micari e di Claudio Fava. E’ quanto meno improbabile che siano giunti al mancato governatore grillino voti da destra, come accadde l’anno scorso nelle elezioni comunali di Roma e Torino. Dove le candidate pentastellate prevalsero  sui candidati sindaci  del Pd nei ballottaggi, col non nascosto favore degli elettori leghisti di Matteo Salvini e post-missini di Giorgia Meloni. Che non avevano gradito la scommessa capitolina fatta all’ultimo momento da Silvio Berlusconi, nel primo turno, su Alfio Marchini precludendo il ballottaggio proprio alla Meloni.

Cinque sono stati stati i punti percentuali che hanno distanziato il governatore eletto del centrodestra, stavolta unito, e il governatore mancato del partito di Beppe Grillo. O di Luigi Di Maio, per chi prende sul serio la premiership conferita digitalmente al vice presidente della Camera, della cui autenticità diffida giustamente Piero Sansonetti sentendo puzza o odore, secondo i gusti, di qualche magistrato o giornalista da mettere in pista all’ultimo momento, prima e forse anche dopo le elezioni politiche dell’anno prossimo.

I cinque punti di distacco usciti dalle urne fra Musumeci e Cancelleri sono esattamente quelli preconizzati alla vigilia del voto in una intervista alla nostra Paola Sacchi dall’ex ministro della Difesa Ignazio La Russa, milanese di adozione ma sicilianissimo. Che aveva messo nel conto l’aiuto che Cancelleri avrebbe potuto ricevere da sinistra, col già ricordato voto disgiunto, dimezzando le distanze dall’avversario di centrodestra emerse dai sondaggi di metà ottobre.

Ma anche Musumeci deve avere avuto sotto traccia, e sempre col meccanismo del voto disgiunto, qualche aiuto da fuori, visto che ha preso una decina di punti percentuali in più rispetto alla somma dei voti raccolti dalle liste della sua coalizione: dieci punti che, al netto dei cinque di vantaggio su Cancelleri, hanno dato alla sua vittoria una fortissima consistenza.

Da dove, più in particolare, possono essere arrivati a Musumeci i soccorsi esterni non è forse azzardato intuire allungando lo sguardo sui sei punti e forse più -diciamo 5+1 per rimanere nei dintorni del 5 come numero magico di queste elezioni siciliane- mancati al candidato Fabrizio Micari rispetto alla somma dei voti delle liste  di centro e di sinistra che lo hanno fiancheggiato. Fra le quali per diabolica coincidenza ce n’è una che ha raccolto il sei per cento dei voti: quella allestita dall’ex ministro democristiano Salvatore Cardinale e chiamata “Sicilia futura”.

D’altronde, lo sfortunato rettore dell’Università di Palermo, scomodato dal sindaco quasi sempiterno Leoluca Orlando per correre col sostegno del Pd, di Angelino Alfano e altri, era ormai completamente fuori gioco, come l’altro candidato della sinistra Claudio Fava. Fargli mancare un po’ di voti per soccorrere Musumeci e salvarlo dal pericolo del sorpasso grillino non dev’essere apparsa un’azionaccia agli amici di Cardinale, se l’hanno davvero commessa.

Lo stesso Cardinale aveva avvertito durante la campagna elettorale, quando le divisioni a sinistra si erano aggravate e la corsa di Micari si era ristretta alla conquista del terzo posto, non oltre, che mai e poi mai egli si sarebbe convertito alla logica perversa del “tanto peggio tanto meglio”. Come sarebbe accaduto obiettivamente se sull’altare magari dell’antiberlusconismo, che a sinistra diventa spesso l’altra faccia dell’antirenzismo, non si fossero rafforzati gli argini di Musumeci rispetto al rischio esondativo di Cancelleri.

La Sicilia d’altronde è la terra di Luigi Pirandello. Così è se vi pare.

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

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