Gli auguri felicemente perfidi di Renzi a Berlusconi

Il già nutrito elenco delle colpe attribuite a Matteo Renzi dalla sinistra al cubo di Pier Luigi Bersani, Massimo D’Alema e compagni si è allungato con gli auguri che praticamente il segretario del Pd, ospite di Bruno Vespa a Porta a Porta, ha fatto a Silvio Berlusconi di vincere il ricorso presentato alla Corte europea dei diritti umani contro la decadenza dal Senato e l’incandidabilità inflittegli quattro anni fa.

Quasi a dettare la linea agli scissionisti del Pd e a tutti gli altri avversari del leader del centrodestra, compresi naturalmente i grillini, il solito Fatto Quotidiano diretto da Marco Travaglio ha sparato in prima pagina contro Renzi un titolo per rimproverargli di “legittimare” Berlusconi con il suo auspicio di vederlo candidato direttamente alle prossime elezioni politiche. Che significherebbe poi vederlo candidato anche contro di sé, e non solo contro il portavoce -così vogliono essere chiamati i parlamentari a 5 stelle- di Beppe Grillo.

Gli auguri di Renzi a Berlusconi, pur conformi alla volontà sempre espressa pubblicamente dal segretario del Pd di volere battere il leader del centrodestra politicamente, senza le scorciatoie o le deviazioni giudiziarie praticate o tentate dai suoi predecessori -ma contraddetti, in verità, dal contributo dato anche dai senatori renziani alla decadenza del presidente di Forza Italia da Palazzo Madama-  sono almeno due volte perfidi agli occhi degli avversari del segretario del Pd.

La prima perfidia sta nel fatto che l’auspicata contrapposizione elettorale, e diretta, fra Renzi e Berlusconi indebolisce la rappresentazione dei due leader impegnati sotto traccia a non farsi troppo male per potersi poi accordare per un governo di cosiddette larghe intese dopo un eventuale risultato inconcludente del voto popolare. Che non è una previsione azzardata, per come è fatta la nuova legge elettorale.

La seconda perfidia negli auguri di Renzi a Berlusconi sta nel fatto che da un successo del ricorso del leader del centrodestra alla Corte europea dei diritti umani ad uscire peggio di tutti sarebbe Pietro Grasso, presidente del Senato e ora anche ad un passo dall’incoronazione come capo del cartello elettorale della sinistra al cubo. Il cui obiettivo non è certamente quello di vincere le elezioni, date le sue dimensioni valutate ad una sola cifra percentuale, ma di farle perdere, o di non farle vincere, al Pd di Renzi e ai suoi alleati.

Il ruolo di Grasso nella decadenza di Berlusconi dal Senato, quattro anni fa, con l’applicazione retroattiva della cosiddetta legge Severino dopo la condanna definitiva dell’ex presidente del Consiglio per frode fiscale, fu davvero decisivo. Confortato da un parere della giunta del regolamento tanto improvvisato quanto condizionato da un clima politico a dir poco ossessivo, in cui era stata liquidata come una mezza provocazione anche la ragionevole opinione dell’ex presidente della Camera Luciano Violante che fosse meglio aspettare una valutazione della controversa legge Severino da parte della Corte Costituzionale, Grasso decise che sulla decadenza di Berlusconi si votasse in aula a scrutinio inusualmente palese, e non segreto.  Fu una decisione apparsa a molti due volte discutibile, per essere stata presa da un presidente di assemblea e da un ex magistrato.

 

Ripreso da http://www.formiche.net col titolo: Perché sono un po’ perfidi gli auguri di Matteo Renzi a Silvio Berlusconi

 

 

 

Se i magistrati a Messina sfidano pure la Madonna delle catene

I genitori del De Luca siciliano, da non confondere con quello della Campania, che governa più o meno felicemente la sua regione schivando ricorrenti difficoltà politiche e giudiziarie, furono davvero previdenti. Essi chiamarono all’anagrafe e alla parrocchia il loro figliolo non Vincenzo, come l’omonimo di Ruvo del Monte, ma Cateno. Che sembrerà un nome strano, ma in Sicilia è diffuso, sia pure meno del suo femminile Catena, ispirata  all’omonima Madonna promossa dal popolo, prima ancora che dalla Chiesa, più di seicento anni fa patrona degli schiavi, prigionieri, detenuti e chiunque altro si trovi appunto in catene.

La leggenda vuole che tre poveracci portati a morire per impiccagione davanti a una chiesetta dedicata alla Vergine furono salvati in prima battuta da un forte temporale. Che indusse le guardie a portare i malcapitati al coperto, aspettando che smettesse di piovere. Ma il tempo non migliorò e i tre furono legati di notte all’altare con le catene, che la Madonna rispondendo alle loro preghiere ruppe senza fare rumore, cioè senza svegliare le guardie. Che non si accorsero pertanto della fuga dei tre graziati.

Ma la leggenda non finisce qui. Essa vuole che le guardie, svegliatesi all’alba, e col tempo nel frattempo migliorato, riuscirono a catturare i fuggiaschi e a riportarli per l’esecuzione in piazza. Dove la popolazione impedì che la condanna a morte fosse eseguita, valendo ai propri occhi più la grazia della Madonna che l’autorità del re di

turno. Che si arrese pure lui alla Vergine ordinando la scarcerazione, a quel punto, dei fortunati.

Con una simile storia o leggenda alle spalle, e con quindici processi vinti su quindici in sette anni, il deputato regionale Cateno De Luca, appena rimesso in libertà da un giudice, e in attesa del sedicesimo processo, può ben considerare i pubblici ministeri che non lo mollano di essere anche blasfemi. Correrebbe meno rischi di quanti se ne sta forse procurando dando loro dei mafiosi, o quasi, sia pure in un empito comprensibile di rabbia.

 

 

Pubblicato da Il Dubbio

Grasso tira dritto contro Renzi. Al telefono, e per ora….

A leggere cronisti e inviati messigli alle costole dai giornali, il presidente del Senato Pietro Grasso non si sta lasciando incantare al telefono da nessuno, ma proprio nessuno, di quelli che lo chiamano per dissuaderlo dalla tentazione di accettare nei primi giorni di dicembre, quando a Palazzo Madama sarà finita la cosiddetta stagione del bilancio, l’incoronazione a capo della “lista unitaria” di sinistra. Che poi non è per niente unitaria perché è concepita per sancire la divisione della sinistra anche sul piano elettorale nazionale, com’é accaduto il 5 novembre in Sicilia, fra renziani e antirenziani, per chiamare le cose col loro nome.

E’ o sarà unitaria la lista offerta a Grasso, dopo le sue dimissioni dal gruppo del Pd e il passaggio a quello misto, perché metterà insieme gli scissionisti di Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema, la sinistra italiana di Nicola Fratoianni e quella di Giuseppe Civati, che si definisce ottimisticamente Possibile, con la maiuscola.

E’ francamente un po’ troppo per definire “unitaria” una lista del genere, valutata dai sondaggisti attorno al 6 per cento dei voti, ma che potrebbe saltare addirittura al 12 con l’incoronazione di Grasso. Il quale pertanto da solo varrebbe il 6 per cento, anche se il gradimento personale risulta essere del 17 per cento, pari a quello dell’odiato, anzi odiatissimo Renzi. Che avrebbe fatto del Pd, secondo Grasso, qualcosa di invotabile per un “ragazzo di sinistra” quale il presidente del Senato si sente a 72 anni compiuti il 1° gennaio di questo ormai declinante 2017: ben portati, per carità, ma pur sempre settantadue, in lettere, che diventeranno settantatré, sempre in lettere, fra poco più di un mese.

A trattenere Grasso dalla sua tentazione di capeggiare una sinistra pura e dura non è valso neppure il ritorno sulla scena di Romano Prodi  in sostanziale soccorso, per quanto borbottante, come quello di Giuliano Pisapia, al Pd guidato da Renzi, nel disperato tentativo di non ridurre anche la partita elettorale nazionale, come quella siciliana già citata, ad una contesa fra Silvio Berlusconi e Beppe Grillo, sia pure per interposte persone.

Particolarmente compiaciuti, diciamo così, sono i racconti su Grasso scritti per la Repubblica da Liana Milella, la specialista di affari giudiziari. E chi sennò?, dovendosi la signora occupare, come ha appena scritto tra virgolette, del “testimone vivente della lotta per la legalità”. Un testimone che ha personalmente ricordato in una intervista alla Stampa, fra una telefonata e l’altra, di essere sfuggito come magistrato alle stragi mafiose di 25 anni fa grazie al fatto che chi ne ordinò la stessa fine riservata a Giovanni Falcone e a Paolo Borsellino fu arrestato a metà gennaio del 1993: Totò Riina. Che dal carcere è uscito solo da morto.

L’entusiasmo della Milella deve essere apparso eccessivo anche ai colleghi della redazione di Repubblica, il cui fondatore Eugenio Scalfari d’altronde ha rinnovato domenica scorsa l’auspicio che Grasso si dimetta finalmente anche da presidente del Senato, insieme alla sua omologa della Camera Laura Boldrini, anche lei attratta dall’antirenzismo elettorale.

“Per ora Grasso tira dritto”, come presidente del Senato e capo dello schieramento antirenziano, hanno titolato il suo articolo i colleghi della Milella. Per ora, appunto. Poi sarà quel che Dio vorrà, e gli elettori eseguiranno.

E’ nato a Ostia il modello della sinistra al cubo, di Bersani e D’Alema

La candidata del centrodestra sconfitta a Ostia nel ballottaggio con la concorrente grillina, che l’ha distanziata di una ventina di punti, più che dolersi della sconfitta si è compiaciuta dell’aiuto decisivo che, secondo lei, è stato dato alla sua avversaria da quelli di Casa Pound. Che puzzando di destra avrebbero quindi rivalutato il centrodestra, rendendone i panni puliti, e sporcando invece quelli dei grillini.

Ostia, che non a caso è anche un’imprecazione di sorpresa nel linguaggio non solo romano, può ben essere vista come la rappresentazione emblematica del grande pasticcio che è diventata la politica italiana, non a caso rifiutata dalla stragrande maggioranza degli elettori.

Sul litorale romano si è scomodato a votare il 33,6 per cento dell’elettorato. E’ andato alle urne solo un cittadino su tre. A trattenere gli altri a casa non è stata la paura della mafia o di come altro si può e si deve chiamare la malavita di quelle parti, che non mi pare ad occhio e croce si possa considerare orfana dell’appena scomparso Totò Riina.

L’elettore rimane sempre di più a casa, a Ostia e altrove, per il semplice fatto che riesce a capire sempre meno la politica al livello in cui l’hanno ridotta i partiti che la praticano.

La candidata del centrodestra sconfitta sul litorale romano sa benissimo che ad aiutare davvero i grillini a vincere il ballottaggio municipale è stata la sinistra. Che si è divisa fra la parte, diciamo così, moderata del Pd che si è tirata fuori dalla competizione, preferendo i cassonetti dell’astensionismo al sospetto o all’accusa di voler dare una mano al centrodestra piuttosto che ai grillini, e quella radicale di Pier Luigi Bersani, Massimo D’Alema e compagni -mi scusi dall’aldilà l’amico Marco Pannella- che si è schierata col  movimento delle 5 stelle. E lo ha fatto -va detto con onestà- alla luce del sole, con trasparenza, senza nascondersi dietro sotterfugi verbali.

La sinistra filogrillina di Ostia- al quadrato o al cubo, più che radicale-  è la stessa che a livello nazionale ha appena vanificato la missione affidata da Matteo Renzi a Piero Fassino. Essa ha annunciato che col Pd non intende fare alcun accordo elettorale. Bersani, D’Alema e soci vogliono semplicemente contarsi nel loro ruolo di oppositori e poi decidere, nelle nuove Camere, che cosa fare e dire, con chi accordarsi e per fare che cosa.

L’antirenzismo, come l’anticraxismo ai tempi di Enrico Berlinguer testimoniati proprio da Piero Fassino nel suo libro autobiografico di 14 anni fa, quando era segretario dei Democratici di sinistra, ha accecato la sinistra sino a renderla funzionale solo alla vittoria altrui: dei grillini ad Ostia o di Silvio Berlusconi fra qualche mese a livello nazionale.

Fassino descrisse impietosamente nel 2003 il Pci berlingueriano degli anni Ottanta attratto dalle “sirene del passato”, contro la modernità della sinistra rappresentata dal socialismo craxiano.  Forse egli è tentato di ripetere quelle parole anche per lamentare le condizioni in cui hanno preferito porsi in questo 2017 i suoi ex compagni di partito, che ne hanno accolto la missione di ambasciatore, negoziatore e quant’altro per conto di Renzi con sberleffi, a dir poco. E ciò sino a liquidare il segretario del Pd, a dispetto dell’anagrafe, come l’uomo proprio del passato, secondo il certificato  anagrafico emesso dalla tribuna  del convegno  di giornata dal “coordinatore” degli scissionisti Roberto Speranza. Che più di un cognome, mi sembra un ossimoro, viste le cose che dice e che pensa.

Una sinistra sulle posizioni di Speranza, con gli occhi rivolti all’indietro, che dà la linea alla Cgil in procinto di proclamare lo sciopero contro un governo ormai a fine mandato, o se la lascia dettare, come preferite, non mi pare che possa avere una grande speranza, al minuscolo, di sopravvivere alla confusione che sta creando. O cui sta quanto meno contribuendo.

Tornerà di attualità, su questa strada, anche la sconfitta referendaria della sinistra del 1985 sui tagli antinflazionistici della scala mobile: sconfitta prenotata dall’ultimo scontro di Enrico Berlinguer, prima della morte, con l’allora presidente socialista del Consiglio. Che aveva osato preferire la stabilizzazione o difesa del valore effettivo dei salari ad un loro effimero aumento automatico, come oggi il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni chiede di non compromettere con richieste da sfascio dei conti la ripresa in corso. O di non buttare il bambino con l’acqua sporca di alcuni effetti delle riforme attuate nel mercato del lavoro. 

 

Ripreso da http://www.formiche.net col titolo: Chi ha fatto vincere il Movimento 5 Stelle a Ostia ?

La salma di Totò Riina al servizio di una nuova emergenza antimafia

Fra i molti articoli sulla morte di Totò Riina e sulla mafia dopo di lui, come se davvero egli ne fosse rimasto a capo anche in prigione, e che prigione, si è distinto per puntualità di racconto e di analisi quello scritto per Il Foglio da Giuseppe Sottile. Il quale ha giustamente visto e denunciato il pericolo di usare anche la salma di Riina per “perpetuare l’emergenza” dell’antimafia a scopo tutto politico.

Ciò significa anche “rinominare dopo le elezioni -ha scritto Giuseppe Sottile- una nuova commissione parlamentare antimafia e affermare il principio in base al quale ci salveremo solo se la politica si farà da parte consegnando il potere nelle mani di magistrati indomiti o indomabili. Come Piercamillo Davigo, come Nino Di Matteo”, di cui è noto, fra l’altro, il corteggiamento -chiamiamolo così- da parte dei grillini. Che li hanno prenotati da ministri di un loro governo destinato a rivoltare il Paese come un calzino, per ripetere un concetto attribuito, a torto o a ragione, negli anni di “Mani pulite” a Davigo, allora fra i magistrati di punta della Procura di Milano impegnata nelle indagini sul finanziamento illegale della politica, e sulla corruzione che ne conseguiva o l’accompagnava.

Gli elettori nel 1994, nonostante le folle sotto le finestre del tribunale di Milano, i cortei e i processi mediatici, preferirono affidare il compito di rivoltare il Paese come un calzino a Silvio Berlusconi, che vi provò inutilmente, trattenuto -come si è ripetutamente lamentato lui stesso- dalle resistenze dei suoi alleati, e non solo dai magistrati che si misero a rivoltare i calzini suoi, imbastendogli  un’infinità di processi.

Ma torniamo al commento di Giuseppe Sottile e alla sua denuncia del pericolo di perpetuare l’emergenza antimafia anche dopo la morte del capo che ne ha rappresentato la fase e l’immagine più criminale, quella delle stragi di venticinque anni fa, seguite al maxi-processo di Palermo che aveva decapitato, con la conferma in appello e in Cassazione, l’organizzazione. Vi torno per chiedermi se l’emergenza antimafia possa e debba esaurirsi nelle ipotesi di una nuova commissione parlamentare antimafia e in una irruzione in politica di Davigo e De Matteo, con il loro coinvolgimento in un improbabile -spero- governo a 5 stelle di Luigi Di Maio.

Non occorre spingersi sino ai grillini per lamentare o temere la strumentalizzazione politica della lotta alla mafia.

Da qualche settimana è sulla scena politica per capeggiare una nuova sinistra, in funzione antirenziana, un magistrato antimafia portato in Parlamento da pensionato cinque anni fa dall’allora segretario del Pd Pier Luigi Bersani e poi eletto presidente del Senato. E’ naturalmente Pietro o Piero Grasso, che con tempestività ha colto la prima occasione offertagli da un giornale dopo la morte di Riina per rivendicare i meriti della sua lotta alla mafia, che nel 1992 -ha ricordato in una intervista a Francesco La Licata, de La Stampa- lo portò persino a un passo dalla morte, dopo l’assassinio dei suoi colleghi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Già giudice a latere nel maxi processo di Palermo, e non ancora approdato alla Procura nazionale antimafia, dove sarebbe arrivato dopo anni, Grasso fu condannato a morte proprio da Riina con l’ordine di una “bottarella”, come disse a Gianni Brusca, che poi ne avrebbe parlato come collaboratore di giustizia. La “bottarella” avrebbe dovuto essere un attentato dinamitardo sotto casa dei suoceri, a Monreale, in occasione di una sua visita.

Per fortuna di Grasso i suoceri abitavano vicino a una banca, i cui dispositivi di allarme, potendo interferire coi timer dei mafiosi, ritardarono quanto meno l’attentato. A metà gennaio del 1993 per fortuna Riina fu arrestato “e io sono qui a raccontare”, ha detto il presidente del Senato: a raccontare e a seguire un dibattito politico che sempre più lo coinvolge, dopo le sue dimissioni dal Pd ma non dalla carica istituzionale di presidente del Senato e potenziale presidente supplente della Repubblica, come candidato alla guida di una nuova sinistra. Che molti definiscono “radicale”, ma che, per non fare torto ai radicali veri, quelli che si richiamano al compianto Marco Pannella, chiamerei sinistra al quadrato, anzi al cubo.

Il passato togato di Grasso non ha tuttavia impedito a Eugenio Scalfari di tornare nel suo appuntamento domenicale con i lettori di Repubblica a riproporre l’urgenza delle dimissioni da presidente del Senato, e di quelle di Laura Boldrini da presidente della Camera, anche lei impegnata sullo stesso versante politico, persino in concorrenza con lui. E all’ex presidente della Camera Luciano Violante, intervenuto a loro favore invocando la circostanza di un Parlamento ormai agli sgoccioli, Scalfari ha ricordato che “la legislatura finirà davvero fra sei mesi e forse anche sette, di piena campagna elettorale”, per cui “l’incompatibilità” fra  i ruoli politici e istituzionali dei due presidenti “diventerà ancora maggiore”.

Chi ha perduto la testa alla morte di Totò Riina

Pochi giornali, troppo pochi, hanno saputo resistere alla tentazione di terremotare le loro prime pagine o addirittura la loro foliazione, come si dice in gergo tecnico, per valorizzare la notizia, neppure arrivata all’ultimo momento, della morte di Totò Riina. Che era avvenuta, sempre in stato di detenzione, nell’ospedale di Parma la notte prima, non in quella di chiusura e stampa dei quotidiani in edicola. E’ stato quindi un terremoto, diciamo così, ragionato e non improvvisato.

L’arcivescovo di Monreale ci sarà rimasto male, dopo avere auspicato che del boss mafioso finalmente estinto non si facesse un mito, o un eroe. Eppure il monsignore credo che sappia di mafia e dintorni più di tanti giornalisti che ne scrivono, e persino di tanti magistrati che se ne occupano: spesso solo come antipasto per le loro future carriere politiche. Che sono state appena ridenunciate con la solita lucidità dal vecchio, saggio Emanuele Macaluso scrivendo del nuovo partito annunciato o minacciato da Antonio Ingroia. Al quale evidentemente non è bastata la ben misera sorte riservatagli dagli elettori quasi cinque anni fa, ancora fresco del suo lavoro giudiziario sulle presunte trattative fra lo Stato e la mafia nella stagione stragista di un quarto di secolo fa. Non parliamo poi dello scontro avuto dall’allora procuratore aggiunto con un presidente della Repubblica in carica, finito “casualmente” fra i suoi intercettati, sempre in ordine a quel processo che si trascina ancora a Palermo in questo autunno 2017, dopo avere perso per strada qualche imputato assolto col rito abbreviato, o in procedimenti analoghi, o morto, com’è appena accaduto a Riina.

Al cui capezzale c’è stato chi, scrivendone come in un concorso al premio Pulitzer, ha rivelato  -naturalmente dolendosi- che abbiano potuto accorrere per consolarlo negli ultimi istanti i familiari. Che invece sono stati autorizzati a raggiungerlo quando era già troppo tardi, avendo avuto il ministro della Giustizia firmato la cessazione o sospensione del regime durissimo di detenzione noto come 41 bis, dalla norma che lo disciplina, troppo tardi. E ciò -temo- per non incorrere nelle proteste o diffide della commissione parlamentare d’inchiesta parlamentare antimafia Rosy Bindi. Che nei mesi scorsi, quando già le condizioni di salute del detenuto erano peggiorate e la stessa magistratura segnalò l’opportunità di un approfondimento, si affrettò a un sopralluogo per certificarne un aggravamento non ancora abbastanza forte e la sua perdurante pericolosità come capo operoso della mafia.

Non faccio il nome di questo collega aspirante al premio Pulitzer per carità professionale, e per essermene già occupato in altre occasioni, col rischio quindi di sembrarne ossessionato.

Segnalo invece politicamente con nome e cognome un altro direttore, Michele Travaglio, che sul suo Fatto Quotidiano ha destinato o lasciato destinare “la cattiveria” di giornata, rubrica di  prima pagina, al solito Berlusconi. Per “tranquillizzare” il quale la sunnominata Bindi, conoscendone evidentemente abitudini e frequentazioni, vecchie e nuove, avrebbe annunciato che la morte di Totò Riina “non è la fine della mafia”.

La felice perfidia di Renzi nella missione affidata a sinistra a Fassino

Più che un ambasciatore, per il mandato che ha ricevuto da Matteo Renzi di ricucire quanto più possibile ciò che si è lacerato a sinistra, risparmiandole a livello nazionale lo spettacolo offerto dalle recenti elezioni regionali siciliane, Piero Fassino dovrebbe sentirsi un missionario. Che è stato scelto dal segretario del Pd non so se più con astuzia o perfidia, come ho sentito mormorare nei corridoi parlamentari dagli avversari dell’ex presidente del Consiglio, memori di Fassino non solo e non tanto come ultimo segretario dei Democratici di sinistra, confluiti nel 2007 con i post-democristiani de La Margherita di Francesco Rutelli nel Pd tenuto a battesimo da Walter Veltroni, ma come autore di un’autobiografia  pubblicata  da Rizzoli nell’estate del 2003.

“per passione”, tutto in umile minuscolo e corsivo,  era ed è  il titolo di quel libro ampiamente recensito in cui Fassino raccontava i suoi primi trent’anni di milizia e dirigenza politica. Ampiamente recensito ma -temo- rapidamente rimosso da alcuni compagni di partito, ora collocatisi a sinistra del Pd, per la coraggiosa rivisitazione della storia del Pci. Cui nessuno è arrivato con uguale e dirompente intensità: neppure i due decani -Giorgio Napolitano ed Emanuele Macaluso- dell’area “migliorista”, cioè riformatrice, di quella che fu la più grande forza della sinistra italiana.

Napolitano, per esempio, sarebbe arrivato solo sette anni dopo, nel 2010, nel decimo anniversario della morte di Bettino Craxi, a scrivere alla vedova, su carta intestata del Presidente della Repubblica, una lettera riparatrice per  liberare il leader socialista dalla prigione mediatica dove era rimasto rinchiuso per le sue vicende giudiziarie, gestite dalla magistratura -riconobbe l’allora capo dello Stato- con “una durezza senza uguali”.

Massimo D’Alema, poi, ha avuto bisogno di altri sette anni ancora per riconoscere di recente a Craxi la statura di “statista”, e solo in funzione antirenziana, cioè per contrapporlo all’attuale segretario del Pd. Che d’altronde non ha mai avuto il coraggio di rifarsi a lui, se non indirettamente  riportando adesso sulle prime pagine dei giornali il buon Fassino come missionario in terra ostile, nel disperato tentativo di ridurre, se non superare, le troppe divisioni e distanze nel campo della sinistra.

Piuttosto che ricollegarsi a Craxi, e ammetterlo nel metaforico Pantheon della sinistra, appunto, dove pure gli avrebbe fatto e farebbe comodo per sottrarsi alla rappresentazione forzata di un uomo della destra infiltrato nel Pd come un cavallo di Troia, Renzi gli ha più volte preferito la figura e il ricordo di Enrico Berlinguer, senza con questo riuscire peraltro a scaldare il cuore dei suoi irriducibili avversari.

Il doveroso e giusto rispetto per il segretario forse più amato dai militanti ed elettori del Pci, più ancora di Palmiro Togliatti, passato nella storia del partito come “il Migliore”, non ha impedito a Fassino di scriverne diciassette anni fa con grande realismo e disincanto politico, e in toni altamente drammatici. Che sono poi gli stessi con i quali si sono levati e si levano in questi giorni appelli alla sinistra a non perdersi definitivamente nei contrasti politici e personali.

“Craxi  -scrisse Fassino- coglie un punto di verità: l’Italia degli anni ’80 ha un gran bisogno, e anche una gran voglia- di modernizzazione. Di innovare cioè la struttura produttiva, le forme dello Stato sociale, gli assetti  istituzionali, il modo di essere e di vivere” (pagina 155). “Il conflitto col Pci, in particolare, diviene subito aspro. La sfida di Craxi coglie i comunisti impreparati e mette a nudo il loro ritardo nel misurarsi con la modernità ” ( pagina 156). “Craxi interpreta le domande di dinamicità di una società che cambia e chiede alla politica di stare al passo. Il Pci invece vede nei cambiamenti un’insidia, anziché un’opportunità, e si arrocca in un atteggiamento difensivo che ne ridurrà influenza e credibilità politica” (ancora pagina 156).

“È la deriva identitaria e solipistica di un partito -scrisse ancora Fassino, nel 2003, del Pci di Berlinguer degli anni Ottanta- che di fronte alle difficoltà del presente non sa opporsi al richiamo del passato. Un partito che si rifugia in un’autoconsolatoria riaffermazione di identità, di cui si rivendica la “diversità “: come se la differenza fra noi e gli altri partiti fosse un fatto genetico, e non più semplicemente programmatico. Un partito che si esilia così in una malinconica e solitaria navigazione senza bussola. Questo è quello che penso in quegli anni, e ho sempre avuto l’idea che lo stesso Berlinguer ne fosse consapevole” (pagine 160 e 161).

Mi chiedo se i problemi della sinistra di allora non siano in qualche modo, e paradossalmente, paragonabili a quelli di oggi. E se qualcuno fuori dal Pd, fatti – per carità- i debiti scongiuri, non rischi di doversi alla fine riconoscere in questa rappresentazione di Enrico Berlinguer del 1984 firmata da Fassino: “Un campione di scacchi che sta giocando la partita più importante della sua vita. La partita dura ormai da molte ore, sta giungendo alle battute finali. Guardando la scacchiera il campione si accorge che con la prossima mossa l’avversario gli darà scacco matto. Ha un solo modo per evitarlo: morire un minuto prima che l’altro muova. In fondo, la tragica fine risparmia a Berlinguer l’impatto con la crisi della sua strategia politica”.

 

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

Il ricco antipasto di Berlusconi, in attesa delle elezioni politiche

In attesa del pasto elettorale, che però non sa ancora se potrà consumare direttamente o limitarsi a vedere che lo consumi qualche uomo o donna di fiducia, perdurando il suo stato di incandidabilità impugnato davanti alla giustizia europea, a Silvio Berlusconi gli illustrissimi magistrati d’appello di Milano hanno dunque concesso un ricco antipasto. Che non è però di voti, non disponendo ancora la pur potente magistratura italiana di tanta forza o magìa, ma di soldi: più particolarmente di euro. Che sono quelli dovuti all’ex marito da Veronica Lario -nome d’arte più noto di quello vero- per averli ricevuti legittimamente, per carità, come mantenimento divorzile, in esecuzione di regolari sentenze, ordinanze e quant’altro, ma ingiustamente. E sono tanti, anche se di incerta misura.

La prima cifra di cui ho sentito parlare nei telegiornali pubblici e privati era di 70 milioni di euro, scesi poi a 60, poi ancora a “una sessantina”, a 54, a 52, a 46, infine a 42. Spero, per Berlusconi, che il calcolo si sia fermato qui e non sia destinato a scendere ancora, pur se 40 milioni di euro, per dire, sono sempre una bella cifra: sia per lui che deve riceverli, sia per la ex moglie che glieli deve restituire, essendosi finalmente i magistrati accorti che la signora, anche a causa della generosità pregressa del suo ex marito, aveva e ha di suo per mantenersi da sola, e da ricca, anzi ricchissima.

Peccato che 42 milioni di euro, di più o di meno, non siano 42 milioni di voti. Che farebbero più piacere al ricchissimo ex presidente del Consiglio: superiori persino al 50 per cento più uno dei voti richiesti ad un partito o concorrente per dire di avere conquistato la maggioranza assoluta, e di poter finalmente governare da solo, senza i condizionamenti, i capricci, gli sgambetti, le slealtà, gli ammutinamenti degli alleati. Che nella prima parte della sua avventura politica, cominciata a passo di carica nel 1994 gliene hanno fatte vedere e sentire di tutti i colori a Berlusconi: sino ad esporlo al disagio – da lui appena lamentato di nuovo nel salotto televisivo dell’amico Bruno Vespa, che da impertinente glielo aveva appena fatto notare in una interruzione- di non aver potuto mantenere al cento per cento le promesse fatte agli elettori prima del voto.

Il cento per cento. Ecco: questo è il sogno di Berlusconi. Cento per cento delle promesse mantenute. E magari anche cento per cento dei voti, senza che gli elettori ne sprechino neppure uno per gli altri, tutti al di sotto dei suoi meriti e delle sue potenzialità. E naturalmente senza che li gettino via nei cassonetti delle immondizie, quali sono quelli che contengono metaforicamente i voti degli astenuti, dei disertori dalle urne. Ecco perché i rifiuti a Roma, per esempio, traboccano in ogni quartiere e posto, anche nei sottopassaggi dei Ministeri.

Non resta a questo punto che dare a Berlusconi del buon antipasto e cercare di consolare l’ex moglie, Beppe Grillo, Matteo Renzi, Pietro Grasso, Laura Boldrini, Pier Luigi Bersani, Massimo D’Alema e compagni. I quali ultimi con la solita lungimiranza che distingue la sinistra dagli anni del feroce anticraxismo, almeno nella fase repubblicana della storia d’Italia, per non andare ancora più indietro, scambiano spesso la propria porta per quella degli avversari.  E riescono a fare, di meraviglioso, solo le autoreti.

 

 

 

Pubblicato da ItaliaOggi il 18 novembre 2017

Indigeste per D’Alema e & le credenziali di Piero Fassino

Piero Fassino, che all’anagrafe si chiama anche Franco Rodolfo, incaricato dal segretario del Pd Matteo Renzi di tentare un’alleanza elettorale con gli scissionisti e quanti altri ne sono attratti, ha inserito anche questo incarico in quelli esercitati in quaranta anni di attività politica “per passione”. Che è poi il titolo del libro autobiografico scritto nel 2003 e pubblicato da Rizzoli, quando lui era già da un anno e mezzo segretario dei Democratici di Sinistra, come si chiamavano i provenienti dal Pci, e forse non immaginava neppure di riuscire davvero a portarli nel 2007 alla fusione con i provenienti dalla sinistra democristiana ed altri nel Partito Democratico, affidatosi alla guida di Walter Veltroni.

Già nella prefazione a quel libro Fassino avvertiva, esattamente il 30 giugno 2003, “di quale stoffa sia fatta la sinistra italiana”: una stoffa “che la può rendere grande e la può perdere”.

Dove sia arrivata questa sinistra quattordici anni dopo il libro di Fassino lo dicono i fatti che hanno indotto Renzi a richiamarne in servizio l’autore per affidargli la missione disperata di ricomporre un po’ le divisioni vecchie e nuove. E ciò per evitare che si ripeta a livello nazionale, fra qualche mese, lo scenario elettorale siciliano del 5 novembre scorso. Che ha circoscritto la contesa politica per il governo del Paese a Silvio Berlusconi e a Beppe Grillo, per chiamare coi nomi dei due protagonisti questo nuovo bipolarismo, per quanto assai curioso. Le due forze che lo compongono sono ben lontane da coprire tutto il terreno di gioco, peraltro disertato da assenteisti ormai cronici, che costituirebbero il vero partito di maggioranza.

C’è tuttavia qualcosa di perfido nella scelta di Fassino da parte di Renzi come missionario nel campo degli scissionisti ed altri avversari. Fra tutti gli ex o post-comunisti rimasti nel partito dell’ex presidente del Consiglio, Fassino è il più anomalo: ancor più di Veltroni, che pure si vanta di avere potuto militare a suo tempo nel Pci senza essere stato o essersi sentito davvero comunista.

Il libro autobiografico di Fassino fu alla sua uscita un pugno nello stomaco a uno come Massimo D’Alema, che avrebbe riconosciuto solo quattordici anni dopo a Bettino Craxi la statura di “statista”, e solo per il gusto di contrapporlo a Renzi. Il quale  dello scomparso leader socialista non vuole neppure sentir parlare come figura nel suo metaforico Pantheon, per quanto Craxi lo avesse preceduto di parecchio nella concezione di una sinistra moderna. A lui Renzi ha sempre e curiosamente preferito  come punto di riferimento Enrico Berlinguer. Cui invece Fassino con onestà intellettuale e coraggio persino fisico, coi tempi che ancora correvano nel 2003, e forse corrono ancora dalle sue parti, rimproverò di essersi lasciato battere da Craxi sul terreno della modernità, sino a morirne prima ancora del segretario socialista, scomparso ad Hammameth nel 2000.

Quello guidato da Berlinguer nel 1984, quando egli morì dopo un drammatico comizio elettorale a Padova di duro attacco al governo Craxi, “è un partito -si legge nel libro di Fassino- che non sa opporsi al richiamo delle sirene del passato. Un partito che si rifugia in una autoconsolatoria riaffermazione di identità, di cui si rivendica la “diversità”: come se la differenza tra noi e gli altri partiti fosse un fatto genetico, e non più semplicemente programmatico. Un partito che si esilia, così, in una malinconica e solitaria navigazione senza bussola”. Che è un po’ quello -diciamo la verità- che hanno improvvisato in questo 2017 Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema uscendo dal Pd e risvegliando la passione non di Fassino ma di quel “ragazzo di sinistra” che il presidente del Senato si è recentemente vantato di sentirsi ancora, emulato dalla più giovane presidente della Camera.

“Mi è capitato spesso di pensare a Berlinguer -si legge ancora nel bel libro autobiografico dell’ex sindaco di Torino, a pagina 161- come a un campione di scacchi che sta giocando la partita più importante della sua vita. La partita dura ormai da molte ore, sta giungendo alle battute finali. E guardando la scacchiera il campione si accorge che, con la prossima mossa, l’avversario gli darà scacco matto. Ha un solo modo per evitarlo: morire un minuto prima che l’altro muova. In fondo, la tragica fine risparmia a Berlinguer l’impatto con la crisi della sua strategia politica”.

Volete che con queste credenziali insieme di militante, di dirigente di partito e di storico il missionario Fassino abbia in questi giorni davvero la possibilità di ricucire per conto di Renzi con gli epigoni di Enrico Berlinguer, quali mi appaiono D’Alema e compagni? Francamente, ne dubito. Non a caso quelli del Fatto Quotidiano hanno esultato in prima pagina perché  Grasso e D’Alema, appunto,  hanno già “snobbato” il loro interlocutore.

 

 

 

Pubblicato da ItaliaOggi il 17 novembre 2017

L’attivismo politico di Grasso ricorda quello di Fanfani presidente del Senato

Solo i più anziani tra funzionari, commessi, giornalisti ed ex parlamentari che ne frequentano ancora uffici e corridoi – magari solo per misurare di persona lo stato di pericolo dei loro vitalizi, minacciati dai forti tagli del disegno di legge  del deputato renziano Richetti- ricordano un’intensità di traffico politico al Senato paragonabile a quello di questi giorni  nell’anticamera del presidente Pietro Grasso e dintorni.

Era la primavera del lontano 1973: più di 44 anni fa. Presidente dell’assemblea di Palazzo Madama era Amintore Fanfani, uno dei due “cavalli di razza” della Dc, come Carlo Donat-Cattin chiamava lui e Aldo Moro: entrambi battuti però alla fine del 1971 in una lunghissima corsa al Quirinale vinta per il rotto della cuffia natalizia da Giovanni Leone.

Proprio per effetto di quella corsa al Quirinale, chiusasi con la vantata partecipazione dei missini di Giorgio Almirante all’elezione del nuovo presidente della Repubblica, per quanto contestata dallo stesso Leone in una inusuale e risentita lettera  a Giovanni Galloni, allora direttore del giornale ufficiale del partito “Il Popolo”, si era rotta l’alleanza di centro-sinistra. I socialisti, guidati da Giacomo Mancini, erano tornati all’opposizione. E al loro posto erano stati riportati al governo i liberali di Giovanni Malagodi, in una riedizione del centrismo guidata a Palazzo Chigi da Giulio Andreotti e chiamata “centralità” dal segretario della Dc Arnaldo Forlani. Di cui Ciriaco De Mita era il vice segretario: sofferente proprio per il recupero governativo dei liberali ma legato a Forlani da un patto di rinnovamento generazionale stretto in una località allora ridente delle Marche: San Ginesio, sotto i Monti Sibillini ora tormentati dal terremoto.

Col secondo governo Andreotti felicemente in carica da un anno e Forlani in carica come segretario da quasi quattro, fu convocato per il 6 giugno del 1973 il dodicesimo congresso della Dc.

Più arrivavano dalla periferia i risultati dei precongressi, tendenzialmente favorevoli alla conferma degli equilibri politici esistenti, più il presidente del Senato Fanfani si allarmava, volendo  il ripristino dell’alleanza di governo con i socialisti. E più Fanfani si allarmava, per nulla trattenuto dal suo ruolo istituzionale, né dal fatto che a guidare il partito fosse il suo delfino Forlani, più la sua anticamera si affollava di esponenti della Dc interessati a un suo intervento. I più inquieti erano i “dorotei” di Mariano Rumor e Flaminio Piccoli, i “basisti” di De Mita, soprattutto quelli del Nord guidati da Giovanni Marcora, i “forzanovisti” di Carlo Donat-Cattin e i morotei.

La situazione sembrava definitivamente compromessa, per gli inquieti, con l’avvenuta elezione, a fine maggio, di tutti i delegati al congresso. Ma Fanfani, affiancato nei contatti con gli amici di partito dal fedelissimo Ettore Bernabei, non si diede per vinto. Dopo una lunghissima serie di incontri a due, a tre, a quattro,, il presidente del Senato promosse  il 5 giugno nel suo ufficio di Palazzo Giustiniani, attiguo a Palazzo Madama, un incontro collegiale fra tutti i capi delle correnti del partito. Che concordarono con lui la conclusione politica del congresso che si sarebbe aperto l’indomani con la relazione del segretario uscente Forlani.

Intanto, per tagliare la testa al toro e impedire ulteriori resistenze all’interno della Dc, il leader repubblicano Ugo La Malfa annunciava la fine della partecipazione del suo partito al governo, prenotando quindi la crisi. E usava come ragione, o pretesto, la non condivisione del codice postale elaborato dall’esecutivo.

Gli accordi di Palazzo Giustiniani, cioè del Senato, prevedevano il ritorno di Fanfani personalmente alla segreteria del partito, sostituito a Palazzo Madama dal collega democristiano Giovanni Spagnoli, doroteo, e il ritorno, a sua volta, di Mariano Rumor a Palazzo Chigi per un nuovo governo di centrosinistra.

Per Moro, al quale Fanfani due anni prima non aveva voluto cedere il passo per il Quirinale dopo la propria, inutile scalata al colle più alto di Roma, si pensò alla presidenza della Camera, dove sedeva però il socialista Sandro Pertini. Di cui si  decise di chiedere al presidente della Repubblica Leone la nomina a senatore a vita non appena fosse morto uno dei cinque in carica. Ce n’erano due particolarmente claudicanti.

Ma a Pertini -si chiesero Fanfani e il segretario del Psi  Francesco De Martino prima dell’incontro fra i capicorrente della Dc- chi va a sollecitare le dimissioni spontanee da presidente della Camera ? De Martino, che era tornato alla guida del Psi sostituendo Mancini, non ebbe scampo. Non poteva che toccare a lui.

Quando il segretario socialista, ricevuto già con giustificata diffidenza dal compagno di partito cui erano arrivate voci su ciò che stava bollendo nel pentolone della politica, formulò la sua proposta Pertini per poco non gli scagliò addosso la pipa ben accesa che aveva in mano. Gli risparmiò alla fine il fuoco ma lo mise alla porta chiamando i commessi perché lo accompagnassero all’uscita dal palazzo di Montecitorio e sentissero anche loro il suo monito a non coinvolgerlo in  “questo indegno mercato delle cariche istituzionali”.

Timoroso di non essere stato sufficientemente chiaro, Pertini incaricò il suo capo ufficio stampa Marco Guidotti di avvisare i giornalisti presenti nella sala stampa della Camera che il presidente sarebbe sceso di lì a poco alla buvette per prendere un caffè. E alla loro presenza, perché ne riferissero ben bene alle agenzie e ai giornali, volle augurare “lunga vita ai senatori a vita”. Che in effetti sopravvissero tutti, almeno a breve, agli accordi di Palazzo Giustiniani.

Non sopravvissero invece politicamente né Andreotti né Forlani. Il primo s’incurvò un po’ di più. L’altro si prese su Fanfani  solo la rivincita di una replica congressuale sul filo del sarcasmo, che ne fece un leader ormai autonomo. In particolare, Forlani si avventurò nella ricerca del vero, più profondo significato del diavolo. E concluse che diavolo è “colui che si trasforma”.

Fanfani si era ben trasformato, almeno agli occhi del suo ormai ex delfino.  Ed era cambiato neppure con tanta grazia perché nel suo intervento al congresso, nella doppia veste di dirigente di partito e ancòra di presidente del Senato, augurò al segretario uscente una buona Quaresima, sia pure fuori stagione, atmosferica e liturgica: una Quaresima -ricordò- alla quale “ogni buon cristiano deve credere che seguirà la Pasqua”.

La resurrezione di Forlani, almeno come segretario della Dc, sarebbe arrivata solo nel 1989, cioè 16 anni dopo, durante i quali però egli avrebbe avuto le occasioni di fare il ministro degli Esteri, peraltro negli anni della difficile e sotto certi aspetti anche drammatica stagione della “solidarietà nazionale”, contrassegnata dal sequestro e dall’assassinio di Moro, il presidente del Consiglio, il vice presidente con Bettino Craxi e il presidente del partito. Come Quaresima, certo, non fu male.

Fanfani, al contrario, avrebbe vissuto una Pasqua a dir poco difficile. Da segretario democristiano di ritorno, rifiutando la prudenza adottata da Andreotti e da Forlani sulla strada del referendum sul divorzio,  da loro rinviato nel 1972 al 1974 per il timore, rivelatosi fondato, di perderlo e di indebolire fortemente la Dc, l’aretino volle la prova di forza, piuttosto che tentare seriamente un cambiamento della legge in Parlamento. E perse guadagnandosi quella indimenticabile vignetta di Forattini che lo trasformò su Paese Sera in un tappo schizzato via dalla bottiglia di champagne dei divorzisti.

Da buon Rieccolo di conio montanelliano, Fanfani dopo la sconfitta referendaria sul divorzio e la fine anche della sua seconda segreteria di partito, sarebbe riuscito a tornare alla presidenza del Senato, e persino alla guida del governo elettorale, nel 1987, ma ormai senza più lo smalto e la forza di una volta. Egli venne onorato come un “mobile di antiquariato” da De Mita, che da segretario del partito lo mandò a Palazzo Chigi per qualche mese, solo per allontanare il mal tollerato Bettino Craxi.

Non vorrei che questa lunga rievocazione della presidenza del Senato di più di 44 anni fa potesse apparire di conforto, o addirittura di stimolo, a Pietro Grasso per il grande impegno nel quale si sta spendendo in questi giorni da “ragazzo di sinistra”. Sino a procurarsi con la presidente della Camera Laura Boldrini, impegnata pure lei su questo terreno, il ruvido giudizio del decano, ormai, del giornalismo politico italiano Eugenio Scalfari. Il quale ha scritto che i due “prima si dimettono” dalle loro cariche istituzionali “meglio è”. Meno ruvido ma sempre critico è stato un giudizio del guardasigilli Orlando.

A parte la differenza di uomini e di situazioni, vale forse anche per Grasso il famosissimo monito di Karl Marx sulla storia che “si ripete due volte: la prima come tragedia, la seconda come farsa”.

 

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

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