Attaccato, e un po’ anche sbeffeggiato, da Massimo D’Alema, che considera Marco Minniti “efficiente” come ministro dell’Interno ma a troppo caro “prezzo” per un uomo di sinistra, vista la cattiva sorte dei migranti che non riescono più a partire dalla Libia con la frequenza e le complicità di una volta, il suo ex compagno di corrente e di partito gli ha risposto con una certa nettezza usando lo stesso intervistatore e lo stesso giornale: Aldo Cazzullo, del Corriere della Sera. Al quale il titolare del Viminale ha spiegato che l’immigrazione costituisce una delle due grandi “sfide del mondo globalizzato”. L’altra è il terrorismo.
Immigrazione e terrorismo -ha aggiunto il ministro dell’Interno, convinto peraltro orgogliosamente di sentirsi anche per questo di sinistra- destano paura nella gente. Che quanto più è modesta, più ne avverte forte il “sentimento”. E ha bisogno di esserne liberata con azioni concrete, non ignorando o esorcizzando la paura su cui altri -i cosiddetti populisti- speculano per ingrassarsi elettoralmente. Non è naturalmente casuale ogni allusione a grillini, leghisti e destra post-missina, che pure ha recentemente accolto Minniti ad una festa giovanile di partito non contestandolo soltanto, quando lui ha ricordato che il fascismo è il passato, ma anche applaudendolo quando ha parlato delle grandi sfide, appunto, del mondo globalizzato e del dovere che un governo ha non di negare la paura ma di contrastarne le ragioni. E ancor più applaudendolo quando l’ospite ha rivelato di essersi seduto nella sua esperienza di governo alle scrivanie che furono di Benito Mussolini e di Italo Balbo.
Come aveva già fatto con D’Alema a proposito di Craxi e di Renzi, chiedendogli se si potesse collegarli e consentendo quindi all’intervistato di riabilitare lo scomparso leader socialista come uno statista di sinistra e di negare al segretario del Pd la dimensione o natura sia di statista sia di uomo di sinistra, così Cazzullo ha fatto con Minniti buttandogli fra i piedi, o fra le braccia, una domanda utile, diciamo così, alla sua dialettica e alle sue prospettive. In particolare, gli ha chiesto se per fronteggiare le due grandi “sfide” globali dell’immigrazione e del terrorismo con intenti unitari e non divisivi, come auspicato dal ministro dell’Interno, non si possa perseguire una politica di “nuova solidarietà nazionale” fra tutte o le maggiori forze politiche. Che dovrebbe rifarsi a quella sperimentata in Italia fra il 1976 e il 1978, con i governi monocolori democristiani di Giulio Andreotti appoggiati da quasi tutti gli altri partiti per fronteggiare il terrorismo, allora soprattutto nazionale, e la crisi economica.
“Si”, ha risposto prontamente Minniti ribadendo che “sui grandi temi di fondo un Paese non si divide”. E soprattutto spiegando: “La mia scelta di metterci la faccia, senza entrare nel campo aperto della contrapposizione politica, ha questo significato. Solo così si affronta il tema cruciale della società moderna”.
Non vorrei che a D’Alema, a suo agio nel campo, appunto, aperto della contrapposizione politica, specie in questa stagione di scontro esasperato con Renzi, fossero venuti i brividi al pensiero di un capo dello Stato dopo le elezioni dell’anno prossimo, proprio a causa della propensione così esplicitamente esposta al Corriere della Sera, tentato anche da Minniti per un “governo del Presidente”. Che è quello ipotizzato o auspicato proprio dall’ex presidente del Consiglio nell’intervista a Cazzullo di mercoledì scorso, ritenendo assai probabile, se non scontato, un risultato elettorale sostanzialmente neutro, e in qualche modo persino peggiore del 2013.
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