Scalfari gioca all’8, da non confondere col gioco del lotto, di cui non ha bisogno

Eugenio Scalfari si è accomiatato con qualche giorno di anticipo dal 2017 con ilare giovialità, permessagli dall’agiatezza nella quale giustamente trascorre la sua vecchiaia dopo anni di intenso e fortunato lavoro. Si è abbandonato ad un gioco propostogli dai fratelli o cugini, come volete, dell’Espresso ma da lui sviluppato nel primo appuntamento festivo a disposizione con i lettori della sua Repubblica. Non è il vecchio gioco del lotto, di cui Scalfari non ha del resto bisogno bastandogli e avanzandogli -ripeto- quello che ha, ma il gioco dell’8, inteso come numero. Che peraltro è davvero diabolico nella cabala: temuto come nessun altro numero per i guai che può comportare, a cominciare dalla morte.

Quello che sta arrivando è un anno che finisce proprio con l’8. Ed è per gli italiani anche l’anno delle elezioni miracolosamente ordinarie per il rinnovo delle Camere uscite dalle urne nel 2013 così malmesse che sembrava impossibile garantirne la sopravvivenza ai primi mesi di un forzato insediamento. Invece la legislatura è andata avanti per tutti i suoi regolari cinque anni, e con l’avvicendamento di soli tre uomini, e dello stesso partito, a Palazzo Chigi: Enico Letta, Matteo Renzi e Paolo Gentiloni. In passato è accaduto anche di peggio.

Ma con quel maledetto 8 finale dell’anno di inizio la nuova legislatura rischierà di brutto. Scalfari ne ha già previsto l’interruzione nel 2019, col ricorso del presidente della Repubblica ad elezioni anticipate per l’impossibilità di coniugare la necessaria governabilità del Paese col maledetto tripolarismo -centrodestra, centrosinistra e grillismo- prodotto da un sistema elettorale adottato nel 1993 con la pretesa, più che con la speranza, di obbligare l’Italia dei mille partiti, oltre che delle mille torri, ad un virtuoso bipolarismo. Che per qualche tempo politici e intellettuali si illusero di avere raggiunto e assicurato con i duelli elettorali fra Silvio Berlusconi e Romano Prodi. Bei tempi, sarà tentato di dire qualcuno dimenticandone le magagne, perché sia Berlusconi sia Prodi hanno finito per trovarsi col classico pugno di mosche in mano e col produrre, volenti o nolenti, il terzo incomodo costituito da Beppe Grillo. Che è cresciuto nelle piazze e nelle urne ridendo dell’uno e dell’altro, e mandandoli entrambi a quel paese, per non scrivere di peggio.

L’incubo di Scalfari per questo 2018 in arrivo è che quella pentola di rancori personali e di velleità  che è diventata la sinistra, divisasi con l’uscita di Pier Luigi Bersani e di Massimo D’Alema dal Pd, produca prima o dopo un’alleanza di governo nelle aule parlamentari fra i grillini e i fuoriusciti, appunto, dal partito di Renzi.

La disperazione è tale di fronte a questa prospettiva che Scalfari, dopo avere tentato di dare una mano addirittura a Berlusconi, con una mezza sponsorizzazione televisiva che ha terremotato il suo stesso giornale, sino a procurarsi gli insulti, o qualcosa di simile, del vecchio editore e amico Carlo De Benedetti, si è rifugiato in una speranza da lui stesso ridotta, persino nel titolo del suo intervento, a una “chimera”. Che è quella del ritorno degli scissionisti, sotto la guida del presidente uscente del Senato Pietro Grasso, da lui inutilmente invitato peraltro a dimettersi dalla seconda carica dello Stato per il ruolo di parte che ha preferito assumere, nel Pd. A quali condizioni, Scalfari non ha precisato, forse non potendo neppure immaginarle prima che Renzi e i suoi avversari di sinistra non si siano pesati sulla bilancia elettorale verificando la loro forza.

Fra le due parti, comunque, Scalfari ha già deciso per chi voterà nell’anno dell’8 finale. Voterà per il Pd, considerandolo “discendente” dal “partito di Berlinguer, che si era distaccato completamente dall’Unione Sovietica” prima ancora che il comunismo crollasse col muro di Berlino. Completamente distaccato? Mah. Ricordo che fu così poco completo quel distacco, che Berlinguer uscì dalla maggioranza parlamentare di solidarietà nazionale con la Dc all’inizio del 1979 piuttosto che condividere il riarmo missilistico della Nato in Europa, dopo l’installazione degli euromissili puntati contro l’Occidente nelle basi militari dei sovietici e dei loro alleati.

L’ombrello della Nato, sotto cui lo stesso Berlinguer aveva detto in una intervista al Corriere della Sera di volersi rifugiare per proteggere l’autonomia del Pci da Mosca, avrebbe dovuto quindi rimanere bucato. Bel modo davvero di distaccarsi “completamente” dai sovietici.

Purtroppo per Scalfari, molti dei residui elettori del Pd voteranno con lui per Renzi perché convinti dell’opposto: che cioè il Pd non abbia nulla più in comune col Pci berlingueriano, orgogliosamente e geneticamente “diverso” da tutti gli altri partiti. E arroccato nella difesa di un modello istituzionale e di sinistra superato, ai tempi di Berlinguer, dal secolo e più trascorso dal manifesto di Marx. Di cui proprio Scalfari aveva  accusato quell’imprudente di Bettino Craxi di avere “tagliato la barba” con le forbici del riformismo.

Processo ai giornali dopo le ultime notizie su Marcello Dell’Utri

Finalmente un procuratore generale, quello di Caltanissetta, è incorso nelle invettive di un giornale –Il Fatto Quotidiano diretto da Marco Travaglio- che d’abitudine si riconosce nelle posizioni dei magistrati d’accusa. Ed è generalmente portato a scambiare chi ne dissente per un mentecatto o un criminale, complice dell’imputato di turno.

“Vergogna” ha gridato in apertura della prima pagina il giornale di Travaglio per avere il procuratore generale del lontano distretto giudiziario siciliano chiesto alla locale Corte d’Appello di sospendere l’esecuzione della pena a carico di Marcello Dell’Utri. E ciò non perché il detenuto stia male, come hanno riconosciuto a Roma altri giudici che però hanno deciso di lasciarlo lo stesso fra le sbarre di Rebibbia, ma perché la sua condanna per concorso esterno in associazione mafiosa ha ormai il piombo, diciamo così, nelle ali. E’ il piombo della Corte europea dei diritti dell’uomo, che già nel 2015 ha abbattuto una condanna analoga di Bruno Contrada, i cui effetti sono stati conseguentemente annullati, sia pure a cose ormai fatte, dalla Cassazione.

Indotto dalla logica, non dal capriccio, a prevedere lo stesso esito per il ricorso a suo tempo presentato ai giudici europei da Dell’Utri, condannato in Italia in via definitiva per fatti avvenuti o compiuti prima ancora che nascesse il reato di concorso esterno, appunto, in associazione mafiosa contestato all’ex senatore, il procuratore generale di Caltanissetta ha con onestà proposto di sospendere intanto l’esecuzione della pena. Che potrebbe essere ripresa e portata a termine se il verdetto europeo dovesse a sorpresa essere diverso da quello che ha restituito a Contrada, fra l’altro, i gradi e gli emolumenti della Polizia.

“Vergogna”, ripeto, ha reagito il giornale di Travaglio diffidando di fatto i giudici d’appello di Caltanisetta, dove pende un procedimento di giudizio di revisione intentato dai difensori di Dell’Utri, dall’accettare la richiesta cautelativa dell’accusa. Che evidentemente si è vergognata dell’opposto: cioè di sottrarsi, giusto per evitare gli  insulti di Travaglio e simili, alla possibilità di risparmiare al detenuto di Rebibbia altri due anni e più di detenzione prevedibilmente illegittima.

Va detto tuttavia, a questo punto, che ancor più grottesca della vergogna gridata dal Fatto Quotidiano contro il procuratore generale di Caltanisetta è la distrazione, chiamiamola così, di quasi tutti gli altri giornali italiani, che non hanno ritenuto di mettere in prima pagina la notizia riguardante Dell’Utri: non il Corriere della Sera, non la Repubblica, non La Stampa, non le testate del gruppo Riffeser-Monti, non Il Messaggero, non Il Sole 24 Ore, non Avvenire, non il Manifesto, non Il Foglio di Giuliano Ferrara e Claudio Cerasa, non Libero di Vittorio Feltri, non la Verità di Maurizio Belpietro. E neppure -udite, udite- il Giornale della famiglia Berlusconi, dove Dell’Utri era o poteva considerarsi, diciamo così, di casa prima di finire in prigione. 

Il centrodestra ha troppe gambe per poter camminare diritto

E’ strano che un uomo come Silvio Berlusconi,  esperto ed amante più dello spettacolo che dei mobili, formidabile nel ricordare vecchie barzellette e inventarsene seduta stante di nuove, non si renda conto che cominciano ad essere un po’ troppo stucchevoli le gambe che crescono, non di  solidità o di altezza ma di numero, nella nuova edizione del centrodestra, in vista delle  elezioni del prossimo mese di marzo.

Alle tre gambe costituite da Forza Italia, dalla Lega e dai Fratelli d’Italia-ex Movimento Sociale o Alleanza Nazionale, se ne sono aggiunte in queste settimane di vigilia dello scioglimento delle Camere una quarta e una quinta di area centrista. Ma non si esclude una sesta. Gambe che non sono fisse come quelle dei tavoli ma si muovono con quelli che le portano. E, anziché preoccuparsi di camminare diritto, si prendono a calci negli stinchi fra di loro, come fa continuamente Matteo Salvini. Che liquida i nuovi arrivi o ritorni come quelli di “poltronisti” o “voltagabbana” incalliti, cui lui non intende cedere una sola delle candidature spettantegli nei collegi unimominali della Camera e del Senato, in ciascuno dei quali la coalizione dovrà concordare e presentare un candidato comune. A lasciare loro lo spazio che reclamano  dovrà quindi essere solo il partito di Berlusconi, essendo quello di Giorgia Meloni già piccolo di suo per stringersi ancora di più.

Fermiamoci alla foto, pubblicata su molti giornali, della gamba del centrodestra appena chiamatasi Noi con l’Italia. Essa ne contiene a sua volta sei se  pensiamo a un tavolo, dodici se pensiamo a quelle fisiche dei leader e leaderini dei partiti e partitini assemblati nell’occasione: quelle -nell’ordine in cui lorsignori si sono collocati davanti ai fotografi attorno al simbolo della nuova ditta politica- di Enrico Zanetti, di Enrico Costa, di Raffaele Fitto, di Maurizio Lupi, di Francesco Saverio Romano e di Flavio Tosi, da sinistra a destra. Sono dodici gambe: il doppio delle celebri zampe del cane dell’Eni.

Fuori da ogni metafora, penso già alle consultazioni che il presidente della Repubblica dovrà fare al Quirinale dopo le elezioni per la formazione del primo governo, e di quelli che dovessero succedergli nella diciottesima legislatura, e mi viene già la vertigine.

Il nuovo centrodestra riuscirà probabilmente a  fare rimpiangere persino le dodici sigle contate con comprensibile sconforto dal primo segretario del Pd Walter Veltroni leggendo l’elenco degli invitati al Quirinale per le consultazioni dopo la caduta del secondo governo di Romano Prodi. Che si era formato meno di due anni prima con un programma di circa trecento pagine concordato da una dozzina fra partiti e partitini.

E’ quanto meno sorprendente un centrodestra che rincorre, in retromarcia, quella strana, parossistica Unione del centrosinistra realizzata con orgogliosa ma vuota sicurezza nel 2006 dal professore emiliano, reduce dalla presidenza della Commissione europea, a Bruxelles, rimediatagli con insolita generosità da Massimo D’Alema dopo il fallimento, nel 1998, del primo governo contrassegnato dall’Ulivo.

La pressione del sangue, e quella politica, di Maria Elena Boschi…

Invidio l’ironia di Vauro Senisi. Che in una vignetta pubblicata dal Fatto Quotidiano, purtroppo solo in fondo alla prima pagina, schiacciata sotto una specie di manifesto contro “la banda” renziana che starebbe, anzi avrebbe già distrutto il Paese, ha lodevolmente cercato di fare sorridere, e non indignare i lettori.

Lodevolmente, perché in questa maledetta storia della dissestata Banca Etruria la figlia dell’allora vice presidente Pier Luigi Boschi, Maria Elena, già ministra della riforme con Matteo Renzi e ora sottosegretaria di Paolo Gentiloni alla presidenza del Consiglio, è stata solo goffa, non criminale.

Goffa, perché si è occupata dell’affare riguardante il suo territorio elettorale, e non solo il padre, con una ingenuità disarmante, senza mai pensare -come avrebbe fatto invece un politico o una politica di maggiore esperienza- all’uso strumentale che gli avversari avrebbero potuto fare delle sue iniziative. Per esempio, senza coprirsi le spalle con una telefonata al ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, impedendogli così di poter poi andare a dire a una commissione parlamentare d’inchiesta, mandando in sollucchero opposizioni e antipatizzanti,  di essere  stato all’oscuro dell’attività della sua giovane collega di governo, e di non avere delegato né a lei né ad altri funzioni e competenze che spettavano a lui.

In questa faccenda insomma c’è stata goffaggine, ripeto, ingenuità, leggerezza, non il compimento di un reato. La ministra, e ora sottosegretaria, ma in una postazione che vale più di quella di un ministro di media stazza politica, si è mossa per informarsi, e magari anche per raccomandare -inutilmente- una soluzione della crisi del credito aretino piuttosto che un’altra, ma non per delinquere. Non per fare “pressione” indebita, come hanno chiarito onestamente davanti alla commissione parlamentare d’inchiesta le stesse persone da lei contattate e scambiate con malevolenza dalle opposizioni per testimomi d’accusa o persino per pubblici ministeri.

E’ proprio sulla pressione, sul concetto di questa parola, che Vauro ha scherzato ridendo e facendomi ridere, e pensando forse -ahimè- di far ridere anche il direttore del Fatto Quotidiano, oltre ai lettori comuni, quando ha fatto sedere la Boschi nella sua vignetta davanti a un medico perché gliela misurasse. Ma la pressione del sangue, accertabile con tanto di apparecchio, si può mescolare solo con lo scherzo del plurale a quella politica addebitatale dagli avversari in questa guerra elettorale che è ormai diventata la vicenda della Banca Etruria: elettorale e niente di più, a pochi giorni ormai dallo scioglimento delle Camere.

Personalmente, ci rido su volentieri. Anche per non piangere sullo stato al quale è ridotta la politica italiana con una lotta tribale di tutti contro tutti, e tutto. Quando si perde anche la capacità e la voglia di sorridere, o si sorride solo per scherno, come fa sistematicamente in televisione il direttore del Fatto Quotidiano quando si confronta con altri che la pensano diversamente da lui, è davvero la fine.

Quello che di Mancino nel 1992 al Viminale non si è voluto sapere…..

L’unica colpa di Nicola Mancino, di cui Piero Sansonetti ha giustamente lamentato l’imputazione di falsa testimonianza nel lunghissimo e per ciò stesso incredibile processo in corso a Palermo sulla presunta trattativa fra lo Stato e la mafia nella stagione delle stragi di 25 anni fa, è quella di essere diventata nel 1992 ministro dell’Interno al posto del suo collega di partito Vincenzo Scotti.

Lo divenne -hanno sospettato gli inquirenti palermitani della nomina di Mancino al Viminale -per ammorbidire la lotta alla mafia troppo tenacemente condotta dal suo predecessore, in funzione quindi di una trattativa con Cosa Nostra. Che aveva già ammazzato quell’anno l’eurodeputato democristiano Salvo Lima, luogotenente di Giulio Andreotti in Sicilia, e il giudice antimafia per eccellenza Giovanni Falcone, saltato in aria con la moglie e la scorta nel tragitto stradale fra l’aeroporto di Punta Raisi e Palermo. E ciò mentre a Roma si cercava faticosamente di eleggere a Montecitorio il successore di Francesco Cossiga al Quirinale.

Fu falsa testimonianza nelle indagini, quella di Mancino, perché, visto che gli stessi inquirenti non lo hanno potuto incolpare delle trattative? Per non avere confermato evidentemente i loro sospetti ch’egli fosse stato mandato al Viminale dopo le elezioni del 1992 e la strage di Capaci per lasciare che altri facessero il lavoro sporco della ricerca di un accordo con la mafia: cosa che Scotti non avrebbe mai consentito. Ma Scotti aveva perso il suo posto solo per ragioni interne di partito, che gli inquirenti avrebbero potuto scoprire rileggendo le cronache politiche di quel periodo, senza scomodare nessun testimone, né di alto né di basso profilo.

Anche allora i retroscenisti si sprecavano tra i giornalisti e gli stessi politici. E fu proprio un politico, la buonanima di Marco Pannella, che aveva allora buoni rapporti col Quirinale, dove era appena riuscito a favorire l’arrivo di Oscar Luigi Scalfaro, ad avvertire il segretario socialista e amico Bettino Craxi di un curioso incontro appena svoltosi fra lo stesso Scalfaro, Scotti e il ministro socialista della Giustizia Claudio Martelli.

Lo scenario politico concordato fra i vertici della Dc e del Psi prima delle elezioni prevedeva il ritorno a Palazzo Chigi di Craxi, che ne era stato bruscamente allontanato nel 1987 dall’allora segretario democristiano Ciriaco De Mita, nel frattempo sostituito da Arnaldo Forlani. Ma Craxi, già inviso ai comunisti e a buona parte della sinistra democristiana, era in difficoltà per i rumori giudiziari provenienti da Milano, dove se ne prevedeva o auspicava, secondo i gusti, il coinvolgimento nelle indagini su Tangentopoli. Scalfaro pertanto, pur essendo stato a suo tempo leale ministro dell’Interno di Craxi, aveva remore a conferirgli l’incarico di presidente del Consiglio, che nelle consultazioni per la formazione del nuovo governo i partiti della maggioranza uscente, e salvatasi nelle urne per il rotto della cuffia, si accingevano a chiedergli nelle consultazioni di rito.

Convocati al Quirinale per conferire sulla predisposizione di misure antimafia imposte dalla recrudescenza stragista del fenomeno criminale, Scotti e Martelli di loro iniziativa, come Pannella riferì a Craxi, o spinti dal presidente della Repubblica, come poi avrebbe detto Martelli, si avventurarono a parlare del nuovo governo. E Scalfaro ricavò, a torto o a ragione, la convinzione che i due fossero disposti a scambiarsi i posti di presidente e di vice presidente del Consiglio in un governo voglioso di ridurre le tensioni politiche, sino a guadagnarsi una benevola attesa dell’opposizione comunista.

Craxi, informato- ripeto- da Pannella, si affrettò a cercare Forlani per consultarlo. Il loro giudizio fu comune sulla stranezza, diciamo così, dell’incontro al Quirinale. E comune fu anche il proposito di non fargliela passare liscia ai due -Scotti e Martelli- che avevano quanto meno scavalcato tutti gli organi dei loro partiti offrendosi, o mostrandosi disponibili, ad una soluzione della crisi di governo diversa da quella concordata tra le loro rispettive formazioni politiche. Nacque così un problema di equilibri interni alla Dc, al Psi e alla maggioranza. La lotta alla mafia non c’entrava nulla, essendo tutti d’accordo che essa dovesse continuare.

Le consultazioni al Quirinale, allargate curiosamente all’allora capo della Procura di Milano, dal quale Scalfaro volle sapere quante probabilità ci fossero di un coinvolgimento di Craxi nell’inchiesta sul finanziamento illegale della politica, si conclusero con la forzata rinuncia del segretario socialista a rimanere in corsa per Palazzo Chigi. Dove lui stesso propose a Scalfaro, col consenso della Dc, di mandare Giuliano Amato, preferendolo “in ordine non solo alfabetico”- disse pubblicamente- ai colleghi di partito Gianni De Michelis e Martelli.

Quando si passò alla composizione della lista dei ministri, con le conseguenti trattative fra il presidente del Consiglio incaricato e i partiti della maggioranza, Scotti fu democristianamente -direi- punito con la formale promozione da ministro dell’Interno a ministro degli Esteri, ma con l’obbligo di rinunciare al seggio parlamentare per rispettare una incompatibilità appena decisa dal suo partito, desideroso di dare un segnale di cambiamento all’antipolitica accesa dalle vicende giudiziarie. E Scotti alla fine, per quanto già nominato, preferì il seggio alla Farnesina.

Per Martelli si stava ancora esaminando una destinazione diversa dal Ministero della Giustizia quando lo stesso Martelli, amichevolmente allertato da Amato, prese il coraggio a due mani e telefonò a Craxi. Il quale mi raccontò personalmente di avere ricevuto la richiesta di conferma al Ministero di via Arenula per “portare avanti -mi disse- il lavoro antimafia cominciato alla direzione generale degli affari penali da Giovanni”, cioè Falcone.

“Non me la sentii francamente di dirgli no”, mi raccontò Craxi, chiudendo il capitolo dell’incontro al Quirinale riferitogli da Pannella. E infatti Martelli fu confermato, sino a quando non fu costretto a dimettersi, l’anno dopo, per il coinvolgimento pure lui nelle indagini giudiziarie milanesi.

Ecco. Questa è la storia di quella maledetta primavera governativa del 1992: cioè la storia della disgrazia capitata al povero Mancino, già capogruppo della Dc al Senato, di diventare ministro dell’Interno E poi finire imputato di falsa testimonianza in un processo più lungo di quello storico contro la mafia per il quale tanto si era speso il povero Falcone.

 

 

 

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L’avviso di Sergio Mattarella ai naviganti della campagna elettorale

Chissà se qualcuno ha spiegato al giovane aspirante grillino a Palazzo Chigi, il vice presidente della Camera Luigi Di Maio seduto in prima fila tra gli invitati a causa del suo ruolo istituzionale, che il capo dello Stato Sergio Mattarella ce l’aveva proprio o soprattutto con lui sotto i soffitti dorati del Quirinale nel passaggio  del discorso di auguri di fine anno, e fine legislatura, sulla necessità di formulare agli elettori proposte “concrete”, davvero realizzabili.

Fra tutte le promesse, o le minacce, sinora annunciate dai partiti e rispettivi leader agli italiani che voteranno a marzo per il rinnovo delle Camere, quelle a 5 stelle sono le più fantasiose, bizzarre e strampalate. Non ha avuto torto il vignettista del Giornale della famiglia di Berlusconi nel ridurre all’infelice “spelacchio” fatto montare dalla sindaca grillina di Roma in piazza Venezia il programma elettorale del suo partito al netto delle balle, al posto delle palle, appese ai suoi rami striminziti.

Il guaio, per i grillini, è che le hanno sparate così grosse da non poter rinfacciare a Berlusconi quelle che ha sparato e sta sparando pure lui a nome della sua Forza Italia e, più in generale, del centrodestra. Lo ha ammesso anche l’insospettabile Vittorio Feltri, che sicuramente voterà lo stesso per uno dei partiti di quella coalizione ma su Libero ha più o meno perentoriamente invitato l’ex presidente del Consiglio a spiegare bene, per esempio, il finanziamento dell’aumento del minimo di pensione a mille euro per tredici o addirittura quattordici mensilità.

Chissà se non si è sentito toccato dai moniti di Mattarella anche il presidente del Senato, e potenziale supplente del capo dello Stato, presente alla cerimonia al Quirinale e protetto dai Corazzieri fra le massime autorità istituzionali. Pietro Grasso aveva infatti appena rilasciato al Corriere della Sera un’intervista come capo dei Liberi e uguali per promettere di “riportare a casa gli elettori delle 5 stelle”, gli astensionisti e chissà chi altro, e di “ricostruire il Paese”. Che evidentemente è stato distrutto da  Matteo Renzi, dai predecessori e persino dal successore Paolo Gentiloni, visto che il movimento guidato dalla seconda carica dello Stato è  dichiaratamente all’opposizione. “Vasto programma”, avrebbe detto la buonanima del generale  e poi presidente francese Charles De Gaulle.

Fra tutti, comunque, Di Maio dovrebbe sentirsi toccato maggiormente dal monito di Mattarella anche per il diritto che continuamente rivendica di essere chiamato al Quirinale dopo le elezioni per ottenere l’incarico di formare il nuovo governo, se non si invertirà la tendenza del suo partito, certificata ormai da tutti indistintamente i sondaggi, a classificarsi in testa alla graduatoria dei voti. Che per fortuna -fatti i debiti scongiuri- non si tradurrà però nella maggioranza assoluta dei seggi parlamentari.

Pertanto i grillini dovrebbero poi confrontare le loro balle con quelle degli altri per cercare di racimolare in Parlamento la maggioranza necessaria alla fiducia di governo. E se non ci riusciranno, dovranno rassegnarsi a mettere quell’incarico, o pre-incarico, di presidente del Consiglio in qualche cornice di partito o di casa, come proprio loro costrinsero a fare nel 2013 l’allora segretario del Pd Pier Luigi Bersani.

Si può ragionevolmente escludere che Mattarella sarà con Di Maio più indulgente del predecessore Giorgio Napolitano col suo ex compagno di partito Bersani quasi cinque anni fa, quando gli revocò l’incarico, o pre-incarico, e costrinse i partiti a rimettere i piedi a terra, senza ulteriori voli nello spazio stellato.

A proposito delle distanze…tecniche di Padoan dalla Boschi

Il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan da buon tecnico forse non se n’è reso ben conto, almeno sino a quando non si è chiarito al telefono con Matteo Renzi, ma con la sua collega di governo Maria Elena Boschi- ma anche con Graziano Delrio- ha compiuto lo stesso errore di Aldo Moro nel 1965 con Amintore Fanfani. Che peraltro la Boschi, quasi concittadina dello scomparso leader democristiano, lui di Arezzo e lei di Montevarchi, ha orgogliosamente e pubblicamente adottato qualche anno fa come caposcuola politico, in un discorso alla Camera.

Moro guidava il suo secondo governo “organico” di centro sinistra. Fanfani, l’altro “cavallo di razza” della Dc, che da presidente del Consiglio gli aveva spianato la strada preparando con le “convergenze parallele” l’alleanza con i socialisti, era il suo ministro degli Esteri, subentrato al leader socialdemocratico Giuseppe Saragat. Di cui Moro aveva gestito l’elezione a presidente della Repubblica alla fine del 1964, anche a costo di procurarsi un bel po’ di malumori nel partito scudocrociato, danneggiato dall’interruzione del mandato di Antonio Segni per ragioni fisiche.

Erano gli anni del conflitto vietnamita, di fronte al quale Moro esprimeva “comprensione” per la posizione e l’intervento degli Stati Uniti a sostegno del Vietnam del Sud. Ma Fanfani alla Farnesina comprendeva, diciamo così, anche la posizione dei nordvietnamiti e si propose, anche come presidente dell’assemblea generale dell’Onu, di avvicinare le parti.

L’amico Giorgio La Pira, sindaco di Firenze, che Matteo Renzi ha studiato bene dedicandogli la sua tesi di laurea, prese in parola le aspirazioni di Fanfani e s’improvvisò addirittura mediatore, vedetta e quant’altro con un viaggio esplorativo ad Hanoi. Dove lo accompagnò il professore Mario Primicerio, destinato a succedergli dopo anni alla guida di Firenze.

I due, ricevuti con tutti gli onori nella capitale del Vietnam del Nord dopo un lungo e complicatissimo itinerario, perché nessuno se ne accorgesse, misero su un progetto di soluzione del conflitto che gli informatissimi americani decisero di stroncare sul nascere, prima che diventasse una proposta dell’Italia.

Scoppiò così un putiferio internazionale, di fronte al quale la prima moglie di Fanfani, Bianca Rosa, decise di difendere il marito, e l’amico La Pira, in una intervista a Gianna Preda, del settimanale longanesiano Il Borghese. Gli americani naturalmente gradirono ancor meno.

Come Padoan ha fatto con la Boschi, dicendo di non aver mai saputo nulla delle sue iniziative per cercare di salvare con la Banca Etruria i numerosi clienti, prima ancora del papà vice presidente, così Moro mostrò di non sapere nulla della missione di La Pira ad Hanoi e del supporto che poteva avere ricevuto da Fanfani. Il quale, orgoglioso com’era, e come gli avversari di Renzi vorrebbero che si comportasse la Boschi, si dimise da ministro. Ricordo ancora bene il suo discorso alla Camera, uno dei primi che seguii come cronista parlamentare.

Per niente intimidito dagli attacchi della destra e dalla mancata copertura del presidente del Consiglio, Fanfani rivendicò l’autonomia del Ministero degli Esteri: del suo Ministero degli Esteri, che invitò i rappresentanti diplomatici degli Stati Uniti, presenti in una tribuna degli ospiti a Montectorio, a non scambiare per “il Ministero delle Poste”.

La cosa sembrò finita lì, con Moro pazientemente costretto dalle circostanze internazionali a riassumere l’interim del Ministero degli Esteri, come aveva fatto per qualche settimana dopo l’elezione di Saragat al Quirinale. Anche Fanfani sembrò rassegnato all’ennesimo rovescio personale sull’accidentato terreno della politica questa volta internazionale, e non solo italiana: tanto rassegnato, da accompagnare la pur orgogliosa rivendicazione dell’autonomia della Farnesina con la sconfessione della moglie, declassata a “inprovvido familiare”, per l’intervista rilasciata al Borghese.

Erano gli ultimi giorni del 1965. Ma meno di due mesi dopo il secondo governo Moro cadde per contrasti interni alla Dc sull’istituzione della scuola materna di Stato, fortemente voluta dai socialisti.

Saragat, sbrigativo come sapeva essere quando voleva, chiuse la crisi ordinando a Moro di restare al suo posto con un terzo governo. Nel quale il presidente della Repubblica, fortemente filoamericano, si aspettava forse che il presidente del Consiglio mantenesse gli interim degli Esteri, o li destinasse a qualcuno senza precedenti di liti o di incomprensioni con i potenti alleati d’oltre Oceano.

Ma Moro -che non era un tecnico come Pier Carlo Padoan- fece orecchie da mercante alle attese e alle proteste dei soliti, immancabili oltranzisti. E richiamò o rispedì, come preferite, alla Farnesina Fanfani, Che fu ben lieto naturalmente di tornarvi, prendendosi solo il gusto tutto toscano di progettare o allargare -non ricordo bene- un ufficio postale al piano terra del Ministero degli Esteri, ma non certo per andare o mandare i diplomatici a ricevere ordini.

Potrò sbagliare, per carità, ma penso che Fanfani non si sarebbe comportato diversamente dalla sua giovane e non ancora nata ammiratrice Maria Elena Boschi se la banca del suo collegio elettorale avesse avuto problemi. Si sarebbe dato da fare, eccome, anche senza essere ministro del Tesoro, D’altronde, per non isolare la sua Arezzo egli aveva imposto, senza essere ministro dei Lavori Pubblici, una costosa variante all’originario progetto dell’Autostrada del Sole nel tratto Firenze-Roma.

 

 

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Maria Elena Boschi “vittima” di fanfanismo, non di familismo

Finisce in “ismo” ma non è il familismo la “colpa” di Maria Elena Boschi in quest’affare della Banca Etruria, vice presieduta per un po’ dal padre,  che gli avversari di Matteo Renzi le contestano sino a reclamarne le dimissioni dal governo, e qualcuno all’interno del Pd anche la rinuncia a ricandidarsi alle elezioni di marzo.

La sottosegretaria di Paolo Gentiloni alla presidenza del Consiglio, già ministra dei rapporti col Parlamento e delle riforme nel governo di Renzi, soffre -si fa per dire- di fanfanismo. Che d’altronde lei stessa, nata in terra aretina, ha orgogliosamente rivendicato pubblicamente in Parlamento dichiarando una volta di riconoscersi nella storia, appunto, dell’aretino Amintore Fanfani. Una storia politica, tutta democristiana, e di stile di governo. Che l’ha portata a muoversi tra le competenze ministeriali con lo stesso dinamismo e a volte persino con la stessa disinvoltura del suo illustre predecessore, non abituato certamente a contenersi quando riteneva di dover difendere gli interessi del suo territorio elettorale.

Per ricordare solo una vicenda, e non certamente la maggiore della sua lunga storia politica, Fanfani non si fermò certamente davanti alle competenze dell’allora Ministero dei Lavori Pubblici, di cui non ebbe mai la guida, quando impose una  costosa variante al progetto dell’Autostrada del Sole per farla passare dalla sua Arezzo.

L’interesse politico, non certo familistico, per quella variante, somiglia in qualche modo a quello avvertito dalla Boschi come ministro pur soltanto delle riforme e dei rapporti col Parlamento per le sorti della Banca Etruria, dei suoi clienti e, più in generale, dell’economia del suo territorio di nascita e di elezione. E’ stato un interesse per le sorti della Banca e dei suoi clienti, non certo del padre, decaduto dalla carica di amministratore col commissariamento disposto dal governo di cui faceva parte la figlia, e finito sotto indagine come altri sul dissesto dell’istituto di credito.

Visto il problema in questi termini, il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan avrebbe potuto francamente cavarsela meglio di quanto abbia voluto fare davanti alla commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche. Dove egli ha colto l’occasione offertagli da una domanda non certamente casuale  per rivendicare tutte le sue competenze e fare risultare con un’evidenza strumentalizzata dalle opposizioni il carattere del tutto  personale dei colloqui, incontri e quant’altro avuti dalla sua collega di governo sulle sorti della banca aretina. Sarebbe bastato che il ministro davanti alla commissione apprezzasse le finalità delle iniziative della collega, senza lasciarla agli assalti mediatici e politici che le sue parole le hanno rovinosamente procurato.

Ma Padoan è un tecnico prestato alla politica, alle cui logiche i tecnici sono estranei. O vi arrivano, e vi si adeguano, quando vogliono: solo in seconda, terza e a volte ancor più lontana battuta.

Le lacrime di Renzi per le elezioni anticipate negategli da Mattarella

In una lunga intervista al Corriere della Sera, pur riconoscendo con un vecchio proverbio che “è inutile piangere sul latte versato”, Matteo Renzi non ha potuto trattenere lacrime metaforiche sulle mancate elezioni anticipate a giugno o settembre. Che lui, da segretario del Pd appena confermato, avrebbe preferito ma gli furono negate dal presidente della Repubblica: l’unico che avrebbe potuto concedergliele usando il potere riconosciutogli dall’articolo 88 della Costituzione di sciogliere le Camere.

Il presidente Sergio Mattarella, d’altronde,  aveva già  negato le elezioni anticipate per il mese di marzo o addirittura febbraio, quando gli erano state proposte dallo stesso Renzi, fra le proteste dell’allora minoranza del Pd guidata da Pier Luigi Bersani e dai cosiddetti poteri forti. Che eran insorti come un sol uomo contro i rischi di instabilità che il ricorso  immediato alle urne avrebbe comportato dopo il trauma politico della bocciatura referendaria della riforma costituzionale e la staffetta fra il segretario del Pd e Paolo Gentiloni a Palazzo Chigi.

Renzi si è detto convinto, sempre nell’intervista al Corriere della Sera, che le mancate elezioni anticipate abbiano favorito le opposizioni rappresentate da Beppe Grillo e da Silvio Berlusconi. Ma convinto anche di potere “scatenare” col suo partito, con o senza la collaborazione del guardasigilli Andrea Orlando, il quale continua a fargli critiche, “una campagna elettorale a tappeto” quando questa si aprirà davvero con lo scioglimento delle Camere, a ridosso di Capodanno, e con la presentazione delle liste dei candidati al Parlamento. L’obiettivo di Renzi, nonostante le difficoltà procurategli dall’affare Etruria-Boschi riesploso in questi giorni, è di recuperare le perdite attribuitegli dai sondaggi e di riportare il Pd al primo posto nella graduatoria elettorale, o comunque nella graduatoria dei gruppi parlamentari.

Solo i fatti naturalmente potranno dare ragione o torto alle aspettative del segretario del Pd. Che intanto compie un errore di sicuro quando pensa che la campagna elettorale debba ancora cominciare, dimenticando che essa è in corso esattamente dal giorno delle sue dimissioni da presidente del Consiglio per la sconfitta referendaria dell’anno scorso. Una campagna elettorale troppo lunga sfiancherebbe chiunque, e non solo Renzi. Che infatti cercò di evitarla chiedendo o comunque lavorando per le elezioni anticipate: evidentemente non con tutto il vigore, l’astuzia, la pazienza, come preferite, che erano necessari per convincere il riottoso capo dello Stato Sergio Mattarella. Di cui pure il segretario del Pd aveva fortemente voluto l’elezione in Parlamento l’anno prima, quando la partita del Quirinale si era riaperta con le dimissioni del troppo stanco e forse deluso Giorgio Napolitano, l’unico che era riuscito ad essere confermato al suo posto alla scadenza del  primo e giù lungo mandato settennale.

Anche a costo di essere impertinente, mi chiedo come si sarebbe comportato di fronte all’ipotesi delle elezioni anticipate, francamente non irragionevole dopo un colpo così forte inferto alla legislatura con la bocciatura referendaria della riforma costituzionale, il più famoso “dottor Sottile” della Repubblica Italiana. Che è Giuliano Amato: il candidato al Quirinale al quale Renzi preferì Mattarella, anche a costo di rompere il cosiddetto patto del Nazareno stretto sulle riforme con Silvio Berlusconi. Che poi nel referendum si sarebbe schierato sul fronte del no contribuendo a farlo prevalere, sia pure nella scomoda compagnia di Grillo e  di Massimo D’Alema, per non parlare d’altri.

La curiosa settimana natalizia di Passione di Pier Ferdinando Casini

E’ davvero curioso questo Natale di Pier Ferdinando Casini. Che da cattolico praticante vorrebbe giustamente festeggiarlo in serenità e fiducia. Ma che stavolta assomiglia per lui ad una Quaresima, e più in particolare alla fase settimana di Passione, a causa dei problemi che gli ha creato la presidenza della commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche. Una presidenza, peraltro, capitatagli fra capo e collo dopo che lui, saggiamente, aveva sconsigliato di percorrere quella strada per venire a capo dei pasticci, a dir poco, in cui erano rotolati tanti risparmiatori, e poche, pochissime teste, se non nessuna, dei vertici aziendali e dei loro controllori. Tanto ne aveva diffidato, il “Pierfurby”, come affettuosamente viene chiamato dagli amici l’ex presidente della Camera, da non aver voluto votare la legge costituiva di questa commissione, parendogli più appropriate le indagini giudiziarie.

C’è stato forse solo un altro Natale così faticoso, incidentato e anomalo nella vita del politico Casini: quello del 1993. Allora l’ultimo segretario della sua Dc, il bresciano Mino Martinazzoli, aveva consigliato a lui, per i suoi rapporti stretti con Arnaldo Forlani, e a Clemente Mastella, per i suoi rapporti altrettanto stretti con Ciriaco De Mita, di rassegnarsi a stare fermi per un giro elettorale: il tempo necessario per far passare quell’uragano giudiziario che stava travolgendo la cosiddetta prima Repubblica e aveva fatto scambiarne i maggiori esponenti per gente di malaffare, già col piombo delle Procure nelle ali o in procinto di riceverne.

Casini e Mastella dissero no a Martinazzoli e improvvisarono un partitino moderato con l’aiuto non certo disinteressato di Silvio Berlusconi, che se li portò alla Camera nelle liste Forza Italia e li autorizzò poi a costituire dei gruppi parlamentari autonomi, con e nei quali i due seppero destreggiarsi alla grande, pur dividendosi ad un certo punto. Casini sarebbe riuscito a diventare presidente della Camera e sfiorare il Quirinale. Mastella sarebbe diventato nel secondo governo di cosiddetto centrosinistra di Romano Prodi ministro della Giustizia. Ma ciò non gli evitò di cadere con l’intera famiglia tra le grinfie della Procura della Repubblica di Santa Maria Capovetere. La moglie, presidente del Consiglio Regionle della Campania, finì agli arresti domiciliari, lui si dimise per protesta e Prodi tornò a casa con tutte e due le Camere, sciolte anticipatamente.

Ora Mastella, sindaco di Benevento e finalmente assolto dalle accuse di corruzione, concussione e quant’atro nel campo della sanità campana, anche se nel casellario giudiziario custodito, diciamo così, da Marco Travaglio risulta ancora aperto un processo contro di lui, peraltro il più insidioso secondo le valutazioni del direttore del Fatto Quotidiano, sta tornando con la sua Udeur nel centrodestra. Casini invece partecipa alla composizione del campo elettorale renziano del Pd, ma si trova esposto come presidente della commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche ad ogni sospetto degli antirenziani di favorire, coprire e quant’altro  quel vaso dei veleni che è diventata la vicenda della dissestata Banca Etruria. Che ha avuto, fra gli altri, l’inconveniente di essere stata vice-presieduta da Pier Luigi Boschi, padre di Maria Elena, già potente ministra delle riforme nel governo Renzi e ora non meno influente sottosegretaria alla presidenza del Consiglio nel governo Gentiloni.

Ogni decisione sulla lista delle persone da ascoltare, per quanto presa nell’ufficio di presidenza a maggioranza, spesso col dissenso del presidente, viene valutata in ordine ai riflessi che può avere nei rapporti fra Casini e il Pd. Ogni occhiata durante le sedute della commissione, ogni suo sospiro, ogni dichiarazione strappatagli dai giornalisti, ogni intervista che Casini rilascia viene soppesata e interpretata in funzione delle sue ambizioni di candidato alle nuove Camere.

La legislatura è davvero agli sgoccioli, e con essa anche la commissione d’indagine che Casini presiede. Ma il suo percorso è quello della Croce, non della Natività.

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