L’addio urticante e allusivo della Santanchè a Forza Italia

E’ proprio vero che il diavolo si nasconde nei dettagli. Come quello di una domanda galeotta di Paola Sacchi, del Dubbio, a Daniela Santanchè fresca di rientro nella “casa madre” della destra, come la stessa parlamentare ex forzista ha definito la famiglia dei Fratelli d’Italia guidata da Giorgia Meloni.

Perché Silvio Berlusconi si è lasciata scappare una come lei?, le ha chiesto la giornalista. “Beh, questo dovrebbe chiederlo a Berlusconi, non a me. Io credo di averlo motivato in quello che sento dentro di me”, ha risposto testualmente la deputata. Che così ha smentito quella parolaccia -“stronzate”- opposta a un altro giornalista, de La Stampa, che le aveva chiesto il giorno prima, al congresso triestino dei Fratelli d’Italia, se e quali problemi avesse avuto all’interno di Forza Italia per uscirne.

Su quali e quanti siano i problemi della Santanchè lasciatisi alle spalle nel partito di Berlusconi, il mistero naturalmente resta. Ma non è escluso che prima o dopo la stessa Santanchè si decida a svelarli, chiamando magari per nome e cognome persone e cose, come d’altronde è nel suo stile.

In attesa delle sue rivelazioni, c’è da prendere per buono l’impegno della Santanché a vigilare a destra perché dopo le elezioni Berlusconi o altri non tornino a fare accordi col Pd di Renzi. E anche a sostenere la candidatura di una donna finalmente a Palazzo Chigi, dopo il fallimento della sua corsa, nel 2006, alla luce e al calore della Fiamma tricolore allora custodita da Francesco Storace, adesso però approdato con Gianni Alemanno nella Lega di Matteo Salvini. Troppe cose forse si muovono e cambiano in questo centrodestra pur in testa ai sondaggi elettorali, grazie alla confusione maggiore che esiste a sinistra.

Vauro traduce in vignetta il Grasso “prestanome” indicato da Macaluso

Senza voler togliere nulla alla bravura e alla simpatia di Vauro Senesi, ho colto l’involontario zampino del nostro comune amico Emanuele Macaluso nella vignetta ch’egli ha dedicato all’ascesa di Pietro Grasso, acclamato domenica dai militanti della nuova sinistra antirenziana capo di Liberi e uguali. Che esordiranno elettoralmente fra qualche mese.

La vignetta è stata pubblicata sul Fatto Quotidiano, dove i sentimenti verso Grasso sono, diciamo così, opposti. Da una parte il direttore di quel giornale ne apprezza l’antirenzismo, dall’altra non riesce ancora a perdonargli di essere arrivato a suo tempo alla guida della Procura Nazionale Antimafia grazie ad una legge improvvisata dall’allora maggioranza di centrodestra per precludere la carica a Giancarlo Caselli con espedienti anagrafici.

Vauro ha messo nelle mani di un entusiasta militante di sinistra un cartello inneggiante al nuovo capo, scambiato però per il grasso, al minuscolo, più celebre in questi giorni per i suoi missili nucleari: il dittatore nordcoreano, e comunista, Kim Jong-un. Di cui alla Casa Bianca il presidente Trump non vede l’ora di ordinare l’annientamento con i missili americani.

Al malcapitato militante italiano tocca di incrociare per strada non un missile ma un trasecolato pedone Massimo D’Alema, che gli rimprovera l’equivoco e gli spiega che il Grasso da festeggiare è quello con la maiuscola, che ora divide il suo tempo fra i doveri della seconda carica istituzionale della Repubblica e quelli dell’opposizione a Renzi, ed anche al governo di Paolo Gentiloni.

La vignetta di Vauro rappresenta come meglio non si potrebbe lo scenario denunciato da Macaluso nel suo commento digitale all’avventura del pur amico Grasso, da lui molto stimato negli anni in cui faceva il magistrato.

In particolare, dall’alto dei suoi 93 anni e mezzo abbondanti Macaluso ha contestato l’ingenuità di Grasso di ritenere che a 73 anni, quanti gliene ha attribuito togliendogli i 25 giorni che ancora mancano alla scadenza anagrafica, possa essere o diventare davvero un capo politico. Egli si è più semplicemente adattato al ruolo di “prestanome”: di D’Alema, quello appunto della vignetta di Vauro, più ancora dell’ex segretario del Pd Pier Luigi Bersani, che cinque anni fa portò l’ex magistrato in politica candidandolo al Senato nelle liste blindatissime del cosiddetto Porcellum.

Chi ha davvero cercato di “comprare” Pietro Grasso ?

Pur se Pietro Grasso non lo ha detto nel discorso di avvento, con la minuscola,  alla guida del nuovo movimento della sinistra italiana nella prima domenica liturgica  dell’Avvento, con la maiuscola, il solito Fatto Quotidiano glielo ha messo quasi in bocca col titolo di prima pagina in cui si parla di un Pd che “voleva comprarlo”. Cioè corromperlo perché non gli si mettesse contro.  E a quale prezzo? Offrendogli quali “posti”, sempre nella traduzione travagliesca -da Travaglio- delle parole del presidente del Senato?

Al prezzo di alcuni “seggi sicuri”, ha detto Grasso, quello autentico, parlando naturalmente di seggi parlamentari e di relative candidature fra cui scegliere: quelle giornalisticamente definite blindate, come capitò ad un altro magistrato famoso, Antonio Di Pietro. Che fu candidato al Senato nel 1997 al Mugello dai post-comunisti, pur non essendo lui certamente di sinistra. Roba vecchia, d’accordo, ma sempre buona a ricordarsi e a ricordare.

Pure Grasso, d’altronde, è approdato dalla magistratura alla politica senza i rischi di una vera competizione, contendendo davvero il seggio a qualche temibile concorrente. Non fu certamente corruzione quella esercitata sull’ex magistrato dall’allora segretario del Pd Pier Luigi Bersani offrendogli cinque anni fa, proprio di questi tempi, una candidatura senatoriale. Che era in quel momento non blindata ma blindatissima, essendo in vigore il sistema  delle liste bloccate instaurato con una legge  elettorale passata giustamente alla storia col nome di Porcellum, per la cui traduzione in italiano non occorre una laurea in lettere.

Circostanze politiche, credo, irripetibili consentirono poi a Bersani di giocare la carta di Grasso anche per la presidenza del Senato, all’inizio della legislatura e all’inseguimento di un aiuto o aiutino dei grillini nella costruzione di un governo “di minoranza e di combattimento”. Fino a quando l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano non si spazientì e non tolse al segretario del Pd quello che si scoprì solo allora essere stato non un incarico, ma un pre-incarico a presidente del Consiglio.

Poi le cose, fuori e dentro il Pd, andarono come andarono, sino alla scissione a sinistra consumata dallo stesso Bersani, col quale Grasso si è ricongiunto mettendosi alla testa di Liberi e uguali, , senza tuttavia lasciare, oltre al Pd, la presidenza del Senato.

Sul piano strettamente personale Grasso si è comportato con Bersani con lealtà e fedeltà rare in politica. Ma sul piano istituzionale il discorso è diverso perché la neutralità imposta al presidente di un’assemblea legislativa in qualche modo ne soffre. Grasso e i suoi amici hanno ragione a ricordare l’immutato impegno politico di alcuni presidenti della Camera succedutisi nella prima e nella seconda Repubblica. Ma al presidente del Senato è richiesto qualcosa in più dal ruolo di capo supplente dello Stato che la Costituzione gli assegna in caso di necessità.

 

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

Blog su WordPress.com.

Su ↑