Pietro Grasso ha festeggiato da capo politico la prima domenica d’Avvento

Grazie alla segretaria generale della Cgil Susanna Camusso, la cui manifestazione di protesta  contro il governo ha fatto slittare di un giorno l’assemblea fondatrice di una nuova sinistra, il presidente del Senato Pietro Grasso ha potuto assumerne la guida nella prima domenica di Avvento. Che per un credente, quale lui è, dovrebbe suonargli come un augurio.

Si tratta tuttavia di una sinistra atipica. Che non ha voluto neppure chiamarsi così  perché le vecchie categorie politiche sono ormai superate, come ha spiegato qualche giorno fa Massimo D’Alema. Che pure è uscito dal Pd con i suoi compagni non ritenendolo più a sinistra con la guida di Matteo Renzi.

La nuova sinistra che ha voluto consegnarsi a Pietro Grasso preferisce chiamarsi Liberi e uguali. Neppure il termine “progressisti” perorato da D’Alema -sempre lui- è stato considerato idoneo a rappresentare compiutamente questo popolo al quale Grasso ha offerto, nel suo discorso di insediamento,”una casa”, avendo perduto quella frequentata per tanto tempo o non avendone mai avuta alcuna, specie se giovani, e non quindi astensionisti incalliti, come sono diventati in tanti da una decina d’anni a questa parte.

Evidentemente anche la categoria dei progressisti ha perso valore, per quanto Grasso ne abbia parlato nel suo discorso. Probabilmente il ricorso della sconfitta rimediata nel 1994 da Achille Occhetto, nello scontro elettorale con Silvio Berlusconi, alla testa di un cartello appunto di progressisti ha sconsigliato di insistervi.

Sul piano dei rapporti personali Grasso ha compiuto una scelta  che potrebbe pure fargli onore. Portato in politica cinque anni fa dall’allora segretario del Pd Pier Luigi Bersani, che volle candidarlo al Senato in qualche modo onorando la sua lunga carriera di magistrato, appena conclusa col pensionamento, Grasso non ha voluto rimanere nel Pd dopo che Bersani ne era uscito. E si è dimesso dal relativo gruppo parlamentare di recente, con forti dichiarazioni di dissenso dal partito come è stato politicamente ridotto, diciamo così, da Renzi. E a Bersani egli ha nuovamente obbedito assumendo la guida del nuovo movimento, comprensivo ora anche dei vendoliani e dei compagni di Giuseppe Civati, dopo che il suo sponsor aveva proclamato che in questa nuova collocazione il presidente del Senato ci sarebbe stato “da Dio”. La maiuscola è mia, essendo stata preferita la minuscola dai collaboratori dell’ex segretario del Pd, rigorosamente laici o non credenti, diffondendone le dichiarazioni.

La fedeltà è sempre apprezzabile. E non può essere liquidata cinicamente come il sentimento solo dei cani.

Ma il discorso si fa diverso sul piano istituzionale. Appena arrivato al Senato, nella confusione dell’avvio di questa legislatura finalmente agli sgoccioli, Grasso ne divenne anche il presidente, designato ma non nominato e tanto meno eletto da Bersani, che peraltro sedeva e siede alla Camera. Fu eletto col concorso di altri gruppi parlamentari, e non solo di quello del Pd. Che poi, una volta consumatasi la scissione, non è per niente passato con armi e bagagli a quello  composto dagli scissionisti.

Da presidente del Senato, Grasso avrebbe dovuto pertanto avvertire la sensibilità di lasciare anche il vertice di Palazzo Madama, una volta dimessosi dal partito e gruppo di appartenenza, specie dopo che gli scissionisti sono anche passati all’opposizione del governo.

Da questo orecchio Grasso, che pure è anche   preposto costituzionalmente al ruolo di presidente supplente della Repubblica e del Consiglio Superiore della Magistratura, non ha voluto sentire. E ha ritenuto di chiudere la partita, nel discorso di avvento alla guida di Liberi e uguali, dicendo che la neutralità dovuta dai vertici istituzionali non può togliere loro “la parola”, e tanto meno il pensiero.

Non è, francamente, un argomento molto forte, anche se tale è apparso all’interessato e ai suoi amici, o compagni. Qui non sono in gioco solo le parole e i pensieri. E’ in gioco la credibilità di un ruolo istituzionale. Che quanto più è alto, tanti più sacrifici comporta. Non mi sembra che il presidente del Senato, rimanendo dov’è anche dopo la sua scelta tutta di parte, abbia fatto sacrificio alcuno.

Scontro su Berlusconi e Renzi fra De Benedetti e Scalfari

Ospite, diciamo così, della concorrenza costituita dal Corriere della Sera, Carlo De Benedetti ha liquidato, pur non licenziandolo, Eugenio Scalfari per le sue aperture recenti e ripetute a Silvio Berlusconi. Che avrebbero peraltro molto “nuociuto” alla sua Repubblica di carta proprio all’inizio di una costosa campagna di rilancio, di cui la famiglia dell’ingegnere sta naturalmente pagando le spese come maggiore azionista del gruppo editoriale cui appartengono adesso anche La Stampa e Il Secolo XIX.

Di Scalfari, in particolare, De Benedetti ha lamentato la pur incolpevole età avanzata, più della sua, la “vanità”, il desiderio di “riconquistare la scena”, la morale dal “modo assai cangiante” che ha “predicato” per tutta la vita ed altro ancora. Solo così il capo della famiglia ormai editrice di Repubblica si è spiegato il cambiamento di umore e di giudizio di Scalfari su un Berlusconi  “imprudente e grottesco”, condannato per corruzione e frode fiscale e riducibile, nella migliore delle ipotesi, ad un “abito in disuso”. Nelle cui tasche si può trovare un biglietto del tram già obliterato che non si capisce bene, dalle parole dell’ingegnere, se dimenticato dall’uomo di Arcore o lasciato lì apposta per essere fraudolentemente riadoperato.

Di Berlusconi, contemporaneamente trattato nell’abituale appuntamento domenicale con i lettori, quasi sapesse dell’intervista di De Benedetti in uscita sul Corriere della Sera, Scalfari ha scritto con apparente rassegnazione che “è un appestato, politicamente e giudiziariamente parlando”. “In realtà- ha aggiunto grillinamente- appestati sono tutti, ma lui lo è al massimo grado. Senonchè, la destra da lui in gran parte rappresentata raccoglie la maggioranza dei voti”, per cui la “governabilità” del Paese impone di tenerne conto, e persino di accordarvisi in funzione antipopulista, purché Berlusconi dopo le elezioni rompa col populista che ha in casa, cioè Matteo Salvini, per stipulare col Pd di Matteo Renzi un altro, più stringente e trasparente patto del Nazareno.

Proprio su Renzi si è consumata un’altra rottura fra De Benedetti e Scalfari: il primo essendone tanto “deluso” da preferire la scheda bianca, piuttosto che tornare a votarne il partito la prossima volta, escludendo di potere contribuire alla “ridicola avventura” elettorale e politica di Massimo D’Alema, il secondo convinto invece che il Pd sia ancora votabile, nonostante gli errori certamente commessi dal suo segretario, ma sempre inferiori a quelli degli altri che pascolano a sinistra.

C’è tuttavia una contraddizione alla quale non è riuscito a sottrarsi De Benedetti parlando di Renzi: quando ne ha riconosciuto un certo “populismo intelligente”, che spesso lo porta a imitare o addirittura a inseguire Grillo, lamentando però che esso sia “privo di pensiero e di progetto”.

Beh, questa storia del populismo “intelligente” e al tempo spesso “privo di pensiero” non torna, francamente. Qualcosa o qualcuno privo di pensiero non può essere al tempo stesso intelligente. Siamo all’ossimoro, o giù di lì.

 

 

 

Ripreso da http://www.formiche.net col titolo: Vi racconto le ultime stilettate fra Scalfari e De Benedetti su Berlusconi e Renzi

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