L’avviso di Sergio Mattarella ai naviganti della campagna elettorale

Chissà se qualcuno ha spiegato al giovane aspirante grillino a Palazzo Chigi, il vice presidente della Camera Luigi Di Maio seduto in prima fila tra gli invitati a causa del suo ruolo istituzionale, che il capo dello Stato Sergio Mattarella ce l’aveva proprio o soprattutto con lui sotto i soffitti dorati del Quirinale nel passaggio  del discorso di auguri di fine anno, e fine legislatura, sulla necessità di formulare agli elettori proposte “concrete”, davvero realizzabili.

Fra tutte le promesse, o le minacce, sinora annunciate dai partiti e rispettivi leader agli italiani che voteranno a marzo per il rinnovo delle Camere, quelle a 5 stelle sono le più fantasiose, bizzarre e strampalate. Non ha avuto torto il vignettista del Giornale della famiglia di Berlusconi nel ridurre all’infelice “spelacchio” fatto montare dalla sindaca grillina di Roma in piazza Venezia il programma elettorale del suo partito al netto delle balle, al posto delle palle, appese ai suoi rami striminziti.

Il guaio, per i grillini, è che le hanno sparate così grosse da non poter rinfacciare a Berlusconi quelle che ha sparato e sta sparando pure lui a nome della sua Forza Italia e, più in generale, del centrodestra. Lo ha ammesso anche l’insospettabile Vittorio Feltri, che sicuramente voterà lo stesso per uno dei partiti di quella coalizione ma su Libero ha più o meno perentoriamente invitato l’ex presidente del Consiglio a spiegare bene, per esempio, il finanziamento dell’aumento del minimo di pensione a mille euro per tredici o addirittura quattordici mensilità.

Chissà se non si è sentito toccato dai moniti di Mattarella anche il presidente del Senato, e potenziale supplente del capo dello Stato, presente alla cerimonia al Quirinale e protetto dai Corazzieri fra le massime autorità istituzionali. Pietro Grasso aveva infatti appena rilasciato al Corriere della Sera un’intervista come capo dei Liberi e uguali per promettere di “riportare a casa gli elettori delle 5 stelle”, gli astensionisti e chissà chi altro, e di “ricostruire il Paese”. Che evidentemente è stato distrutto da  Matteo Renzi, dai predecessori e persino dal successore Paolo Gentiloni, visto che il movimento guidato dalla seconda carica dello Stato è  dichiaratamente all’opposizione. “Vasto programma”, avrebbe detto la buonanima del generale  e poi presidente francese Charles De Gaulle.

Fra tutti, comunque, Di Maio dovrebbe sentirsi toccato maggiormente dal monito di Mattarella anche per il diritto che continuamente rivendica di essere chiamato al Quirinale dopo le elezioni per ottenere l’incarico di formare il nuovo governo, se non si invertirà la tendenza del suo partito, certificata ormai da tutti indistintamente i sondaggi, a classificarsi in testa alla graduatoria dei voti. Che per fortuna -fatti i debiti scongiuri- non si tradurrà però nella maggioranza assoluta dei seggi parlamentari.

Pertanto i grillini dovrebbero poi confrontare le loro balle con quelle degli altri per cercare di racimolare in Parlamento la maggioranza necessaria alla fiducia di governo. E se non ci riusciranno, dovranno rassegnarsi a mettere quell’incarico, o pre-incarico, di presidente del Consiglio in qualche cornice di partito o di casa, come proprio loro costrinsero a fare nel 2013 l’allora segretario del Pd Pier Luigi Bersani.

Si può ragionevolmente escludere che Mattarella sarà con Di Maio più indulgente del predecessore Giorgio Napolitano col suo ex compagno di partito Bersani quasi cinque anni fa, quando gli revocò l’incarico, o pre-incarico, e costrinse i partiti a rimettere i piedi a terra, senza ulteriori voli nello spazio stellato.

A proposito delle distanze…tecniche di Padoan dalla Boschi

Il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan da buon tecnico forse non se n’è reso ben conto, almeno sino a quando non si è chiarito al telefono con Matteo Renzi, ma con la sua collega di governo Maria Elena Boschi- ma anche con Graziano Delrio- ha compiuto lo stesso errore di Aldo Moro nel 1965 con Amintore Fanfani. Che peraltro la Boschi, quasi concittadina dello scomparso leader democristiano, lui di Arezzo e lei di Montevarchi, ha orgogliosamente e pubblicamente adottato qualche anno fa come caposcuola politico, in un discorso alla Camera.

Moro guidava il suo secondo governo “organico” di centro sinistra. Fanfani, l’altro “cavallo di razza” della Dc, che da presidente del Consiglio gli aveva spianato la strada preparando con le “convergenze parallele” l’alleanza con i socialisti, era il suo ministro degli Esteri, subentrato al leader socialdemocratico Giuseppe Saragat. Di cui Moro aveva gestito l’elezione a presidente della Repubblica alla fine del 1964, anche a costo di procurarsi un bel po’ di malumori nel partito scudocrociato, danneggiato dall’interruzione del mandato di Antonio Segni per ragioni fisiche.

Erano gli anni del conflitto vietnamita, di fronte al quale Moro esprimeva “comprensione” per la posizione e l’intervento degli Stati Uniti a sostegno del Vietnam del Sud. Ma Fanfani alla Farnesina comprendeva, diciamo così, anche la posizione dei nordvietnamiti e si propose, anche come presidente dell’assemblea generale dell’Onu, di avvicinare le parti.

L’amico Giorgio La Pira, sindaco di Firenze, che Matteo Renzi ha studiato bene dedicandogli la sua tesi di laurea, prese in parola le aspirazioni di Fanfani e s’improvvisò addirittura mediatore, vedetta e quant’altro con un viaggio esplorativo ad Hanoi. Dove lo accompagnò il professore Mario Primicerio, destinato a succedergli dopo anni alla guida di Firenze.

I due, ricevuti con tutti gli onori nella capitale del Vietnam del Nord dopo un lungo e complicatissimo itinerario, perché nessuno se ne accorgesse, misero su un progetto di soluzione del conflitto che gli informatissimi americani decisero di stroncare sul nascere, prima che diventasse una proposta dell’Italia.

Scoppiò così un putiferio internazionale, di fronte al quale la prima moglie di Fanfani, Bianca Rosa, decise di difendere il marito, e l’amico La Pira, in una intervista a Gianna Preda, del settimanale longanesiano Il Borghese. Gli americani naturalmente gradirono ancor meno.

Come Padoan ha fatto con la Boschi, dicendo di non aver mai saputo nulla delle sue iniziative per cercare di salvare con la Banca Etruria i numerosi clienti, prima ancora del papà vice presidente, così Moro mostrò di non sapere nulla della missione di La Pira ad Hanoi e del supporto che poteva avere ricevuto da Fanfani. Il quale, orgoglioso com’era, e come gli avversari di Renzi vorrebbero che si comportasse la Boschi, si dimise da ministro. Ricordo ancora bene il suo discorso alla Camera, uno dei primi che seguii come cronista parlamentare.

Per niente intimidito dagli attacchi della destra e dalla mancata copertura del presidente del Consiglio, Fanfani rivendicò l’autonomia del Ministero degli Esteri: del suo Ministero degli Esteri, che invitò i rappresentanti diplomatici degli Stati Uniti, presenti in una tribuna degli ospiti a Montectorio, a non scambiare per “il Ministero delle Poste”.

La cosa sembrò finita lì, con Moro pazientemente costretto dalle circostanze internazionali a riassumere l’interim del Ministero degli Esteri, come aveva fatto per qualche settimana dopo l’elezione di Saragat al Quirinale. Anche Fanfani sembrò rassegnato all’ennesimo rovescio personale sull’accidentato terreno della politica questa volta internazionale, e non solo italiana: tanto rassegnato, da accompagnare la pur orgogliosa rivendicazione dell’autonomia della Farnesina con la sconfessione della moglie, declassata a “inprovvido familiare”, per l’intervista rilasciata al Borghese.

Erano gli ultimi giorni del 1965. Ma meno di due mesi dopo il secondo governo Moro cadde per contrasti interni alla Dc sull’istituzione della scuola materna di Stato, fortemente voluta dai socialisti.

Saragat, sbrigativo come sapeva essere quando voleva, chiuse la crisi ordinando a Moro di restare al suo posto con un terzo governo. Nel quale il presidente della Repubblica, fortemente filoamericano, si aspettava forse che il presidente del Consiglio mantenesse gli interim degli Esteri, o li destinasse a qualcuno senza precedenti di liti o di incomprensioni con i potenti alleati d’oltre Oceano.

Ma Moro -che non era un tecnico come Pier Carlo Padoan- fece orecchie da mercante alle attese e alle proteste dei soliti, immancabili oltranzisti. E richiamò o rispedì, come preferite, alla Farnesina Fanfani, Che fu ben lieto naturalmente di tornarvi, prendendosi solo il gusto tutto toscano di progettare o allargare -non ricordo bene- un ufficio postale al piano terra del Ministero degli Esteri, ma non certo per andare o mandare i diplomatici a ricevere ordini.

Potrò sbagliare, per carità, ma penso che Fanfani non si sarebbe comportato diversamente dalla sua giovane e non ancora nata ammiratrice Maria Elena Boschi se la banca del suo collegio elettorale avesse avuto problemi. Si sarebbe dato da fare, eccome, anche senza essere ministro del Tesoro, D’altronde, per non isolare la sua Arezzo egli aveva imposto, senza essere ministro dei Lavori Pubblici, una costosa variante all’originario progetto dell’Autostrada del Sole nel tratto Firenze-Roma.

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

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