Dalle frustate di Napolitano alla valeriana di Mattarella

            Ancor prima che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella le staccasse la spina col decreto di scioglimento per fine mandato, firmato rispettando tutte le procedure del caso nel palazzo del Quirinale e offrendo metaforicamente valeriana un po’ a tutti, sulla prima pagina del Corriere della Sera è stata pubblicata qualche giorno fa come foto emblematica della diciassettesima legislatura, cominciata nel 2013 con le frustate di Giorgio Napolitano ai refrattari alle larghe intese, quella del gelido passaggio delle consegne a Palazzo Chigi, il 22 febbraio del 2014, fra Enrico Letta e Matteo Renzi.

            In quella foto, a guardarla ancora oggi, si trovano espresse in tutta la loro evidenza la delusione del presidente del Consiglio uscente e la smania del subentrante, che per poco non si era lasciata scappare dalle mani la campanella d’argento delle sedute di governo consegnatagli svogliatamente da chi l’aveva usata per meno di una decina di mesi soltanto.

            La delusione e l’amarezza di Enrico Letta, incoraggiato digitalmente da Renzi in persona solo qualche settimana prima a “stare sereno” nella sua postazione di Palazzo Chigi, lasciando al segretario del suo partito, fresco di arrivo al Nazareno, il compito di rianimarne la maggioranza, erano destinate a crescere ancora. Sino a quando l’ex presidente del Consiglio, ormai convertito alle nuove mansioni di professore a Parigi, non apprese dai giornali il giudizio liquidatorio espresso su di lui, ancora presidente del Consiglio, da Renzi in persona al telefono con un amico generale della Guardia di Finanza: incapace di governare. E senza avere ancora l’età per potere aspirare al Quirinale, dove invece Renzi lo avrebbe visto bene nel momento in cui Giorgio Napolitano, confermato in primavera, si fosse stancato del suo secondo mandato dimettendosi: cosa che avvenne a gennaio del 2015, quando però il presidente del Consiglio aveva altri, anzi altro, per la testa sul colle più alto di Roma.

            Non meno emblematica della diciassettesima legislatura appena archiviata dal capo dello Stato è tuttavia la foto di quel meno baldanzoso arrivo di Matteo Renzi in una sala di Palazzo Chigi, con la moglie Arnese, la sera del 5 dicembre 2016 per annunciare, anzi per confermare le dimissioni da presidente del Consiglio dopo la cocente sconfitta subita nel referendum sulla sua riforma costituzionale. Cocente sia per le dimensioni –circa 20 punti di scarto- sia per la posta altissima che lui stesso aveva messo sul piatto: la prosecuzione o meno del suo impegno politico, e non solo di capo del governo.

            Poi, resistendo alle pressioni di Mattarella di proseguire lo stesso entrambi i lavori, Renzi ripiegò solo sul ritiro da Palazzo Chigi, contando però di tornarvi presto, magari solo dopo qualche mese, con un passaggio anticipato di elezioni. Che invece il capo dello Stato gli negò, dietro le quinte anche con le brutte, obbligandolo ad aspettare la scadenza ordinaria della legislatura. Alla quale però Renzi, confermato alla segreteria del Pd al prezzo di una scissione a sinistra consumata da Pier Luigi Bersani, Massimo D’Alema e compagni, è arrivato con progetti, propositi e quant’altro più modesti.

            In particolare, proprio mentre il suo successore a Palazzo Chigi, Paolo Gentiloni, da lui stesso sponsorizzato a quel posto, si accingeva alla sua conferenza stampa di fine anno e fine legislatura, Renzi ha detto –o confermato- in una intervista alla Stampa di “sperare” che dopo le elezioni a guidare il governo “vada un uomo del Pd”. Che può ben essere interpretata come la speranza di lasciare l’amico Gentiloni dov’è, anche se andare letteralmente non significare restare.

            Un’altra foto emblematica della legislatura appena finita potrebbe essere quella della manifestazione di protesta promossa il 28 novembre 2013 da Silvio Berlusconi sotto casa sua, a Roma, appena dopo che  a scrutinio innovativamente palese il Senato lo aveva fatto decadere da parlamentare applicando in modo retroattivo la cosiddetta legge Severino per la sua condanna definitiva per frode fiscale, comminatagli in agosto da una sezione feriale della Cassazione.

            Quei due verdetti, giudiziario e parlamentare, hanno contribuito a fare di Berlusconi un martire tale da farlo partire nella campagna elettorale per il rinnovo delle Camere, per quanto ancora incandidabile, col vento sulle vele del suo partito e della sua coalizione di centrodestra, pur attraversata da tensioni, contrasti o “capricci”, come lui chiama paternalisticamente quelli del segretario leghista Matteo Salvini. Ed è sempre Berlusconi  ad essersi potuto proporre come l’antagonista principale di Beppe Grillo, neppure lui però candidato personalmente alle elezioni.

            E’ curiosa davvero l’Italia. E sarà probabilmente, dopo il voto appena fissato dal governo per il 4 marzo del 2018, ancora più curiosa di quella uscita delle urne del 24 e 25 febbraio 2013.    

             

La fine ordinaria di una legislatura scampata all’aborto nel 2013

Già con quel numero d’ordine -17- assegnatole dal calendario parlamentare della Repubblica, la legislatura uscita dalle urne il 25 febbraio del 2013 sembrava inevitabilmente sfortunata, da scongiuri più che da auguri.

I risultati elettorali non furono da meno. Il bipolarismo orgogliosamente rivendicato dal centrodestra e dal centrosinistra dal 1994 in poi, come  bandiera della cosiddetta seconda Repubblica, risultò superato da un tripolarismo paralizzante, che neppure il premio di maggioranza assicurato dalla legge elettorale infelicemente nota come Porcellum riuscì a correggere. O vi riuscì solo alla Camera, non anche al Senato, dalla cui fiducia nessun governo poteva e può tuttora prescindere.

La quasi contemporanea scadenza del settennato presidenziale di Giorgio Napolitano, al Quirinale, rendeva costituzionalmente impraticabile ogni tentazione di elezioni anticipate, se mai qualcuno le avesse volute davvero, e non solo a parole, come reclamavano i grillini da una parte, col proposito di compiere lo sfondamento mancato al primo colpo, e i leghisti dall’altra.

Pier Luigi Bersani come segretario del maggiore partito –se non in termini di voti, viste le contestazioni grilline, sicuramente in termini di seggi parlamentari fra Camera e Senato, ma specie alla Camera- ottenne dal presidente della Repubblica un prudente incarico di formare il nuovo governo. Tanto prudente che, quando Napolitano glielo ritirò negandogli il percorso di un governo curiosamente di “minoranza e di combattimento”, appeso agli umori di Beppe Grillo e dei suoi “portavoce” parlamentari, si scoprì che era stato solo un “pre-incarico”.

L’insuccesso politico di Bersani crebbe ulteriormente dopo che il segretario del Pd non riuscì a venire a capo neppure dell’elezione di un successore a Napolitano, nel frattempo arrivato al termine ultimo del suo mandato. I due candidati messi in pista da Bersani per il Pd nella corsa al Quirinale –il presidente del partito Franco Marini prima e l’ex presidente del Consiglio Romano Prodi poi- furono abbattuti dai franchi tiratori. E Bersani per primo fu costretto a salire quaresimalmente al Colle, seguito da quasi tutti gli altri leader di partito, per chiedere a Napolitano la grazia di lasciarsi ricandidare e rieleggere, alla bella età di 88 anni quasi compiuti che “Re Giorgio” già aveva. Quasi tutti, perché i grillini opposero il rifiuto anche a questo passaggio, candidando sulle piazze e in Parlamento Stefano Rodotà, prima di scomunicarlo per avere osato dolersi, dopo qualche tempo, delle loro improvvisazioni, pure nella gestione del movimento che si era proposto di aprire le istituzioni come scatole di tonno.

Da Napolitano rieletto alla Presidenza della Repubblica le Camere accolsero con spirito che qualcuno, non solo fra i grillini, definì masochistico i rimproveri per le riforme boicottate dalla precedente edizione del Parlamento e per la diffusa diffidenza mostrata anche nella nuova legislatura verso larghe intese, se necessarie –come lui riteneva- per il governo del Paese. E l’opinione del capo dello Stato non poteva essere liquidata come un capriccio senile perché toccava pur sempre a lui nominare i governi, anche se i cultori del sistema maggioritario avevano dato agli elettori l’illusione che potessero eleggere nelle urne pure il governo, e non solo il Parlamento.

Nacquero così le larghe intese governative concordate attorno ad Enrico Letta, mentre Bersani si ritirava in buon ordine, fra il Pd e Silvio Berlusconi, con un programma ambizioso di riforme. Con questa scelta il Pd si allontanò ulteriormente dagli ex alleati elettorali di sinistra e Berlusconi dai leghisti e dalla destra post-missina, ora anche post-finiana.

Questo già faticoso avvio della diciassettesima legislatura fece i conti in agosto con una improvvisata  sezione feriale della Corte di Cassazione. Che, praticamente diffidata da un fax della Procura di Milano dal lasciar cadere in prescrizione un vecchio processo a carico di Berlusconi per frode fiscale, sia pure di una misura risibile rispetto al peso complessivo delle tasse pagate dall’imputato e dalle sue aziende, condannò in via definitiva l’ex presidente del Consiglio. Sotto i piedi del quale si aprì la botola giudiziaria della cosiddetta legge Severino per farlo decadere anche da senatore con inedita votazione, nell’aula di Palazzo Madama, a scrutinio palese.

Le cose si svolsero in modo tale, con forzature difficilmente negabili, visto che anche dall’interno del Pd si erano levate inutilmente voci –per esempio, quella dell’ex presidente della Camera Luciano Violante- a  favore di un rinvio di ogni decisione per lasciare alla Corte Costituzionale la possibilità di pronunciarsi sulla controversa legge Severino, che Berlusconi ritirò il suo partito dalla maggioranza. La quale sopravvisse ugualmente, ma di stenti, per il rifiuto del vice presidente del Consiglio e ministro dell’Interno Angelino Alfano, ma anche degli altri ministri dell’allora Pdl, di adeguarsi alle direttive berlusconiane. Nacquero così i “diversamente berlusconiani” del “Nuovo centrodestra”. I loro ormai ex colleghi di partito reagirono tornando orgogliosamente al nome originario di Forza Italia, indossando gli elmetti dell’opposizione e riavvicinandosi ai leghisti.

Come una pera dall’albero, cadde dopo poco più di un mese Enrico Letta dalla guida del governo, sotto l’effetto combinato di una più forte opposizione a destra, oltre a quella grillina, e di un cambiamento radicale al vertice del Pd. Dove arrivò impetuosamente Matteo Renzi. Che, senza badare molto alle forme, si spazientì dei metodi e tempi morotei del collega di partito Enrico Letta, che pure non lo aveva per niente ostacolato nella corsa congressuale alla segreteria, e ne prese il posto in poche settimane: giusto il tempo per attenuare l’opposizione di Berlusconi offrendogli una sostanziale riabilitazione politica con un patto, che prese il nome dalla sede del Pd, il Nazareno, sulle riforme. Al plurale, perché oltre a quella della Costituzione c’era da accelerare quella elettorale, avendo la Corte Costituzionale appena bocciato il malfamato e già ricordato Porcellum.

            Il pronunciamento della Consulta finì per aumentare le difficoltà della legislatura, di cui i grillini si affrettarono a denunciare la delegittimazione, essendo nata con regole risultate appunto illegittime. La Corte, peraltro dirimpettaia al Quirinale, la mise nella incubatrice di una sentenza nella quale si salvavano esplicitamente gli effetti delle elezioni svoltesi col Porcellum. Altro francamente non si poteva fare, perché sennò si sarebbero dovuti demolire anche gli effetti delle elezioni del 2006 e del 2008, svoltesi con le stesse norme.

Lì per lì sembrò che i cerotti della Corte Costituzionale tenessero. Nelle elezioni europee di maggio del 2014 Renzi portò il Pd ad oltre il 40 per cento dei voti, come riusciva a fare la Dc nei tempi migliori: forse troppo, però, per i gusti e le abitudini dei compagni e amici di partito del segretario e presidente del Consiglio. Forse anche per Berlusconi, che vide rappresentare il giovane Renzi come il suo erede. “Royal baby”, lo definì Giuliano Ferrara, ministro per i rapporti col Parlamento nel primo governo del Cavaliere. Ma forse fu troppo per lo stesso Renzi, che sopravvalutò la sua forza d’urto. O sottovalutò, come preferite, vecchi e nuovi timori di concorrenti ed avversari, esterni e anche interni al suo partito.

La baldanza di Renzi, da quel che riuscii a sapere, se non al Quirinale, nei suoi dintorni ambientali e umani, cominciò ad impensierire anche Napolitano. Che, già stanco di suo, con quel bastone che sempre più lo accompagnava nei corridoi del Quirinale, decise proprio alla fine di quell’anno di accelerare con le dimissioni la fine di quella fase eccezionale che sin dal primo momento aveva ritenuto il suo secondo mandato. E si arrivò così a fine gennaio del 2015 all’elezione del suo successore.

Nella soluzione del problema riapertosi al Quirinale Renzi sembrò, a torto o a ragione, condizionato più dai problemi interni di partito che dal collegamento con Berlusconi. Che, anche lui a torto o a ragione, riteneva che del Patto del Nazareno sulle riforme facesse parte anche la ricerca comune del nuovo presidente della Repubblica. L’elezione di Sergio Mattarella finì pertanto per tradursi, malgrado lo stesso Mattarella, nella rottura fra Renzi e Berlusconi, con tutto quello che ne conseguì: anche l’approvazione accindentata della riforma costituzionale e della legge elettorale chiamata Italicum, nonché il sorprendente allineamento nella campagna referendaria sul superamento del bicameralismo e il resto fra l’opposizione berlusconiana, quella dei grillini e la dissidenza della minoranza del Pd. Era una combinazione già micidiale di suo, cui Renzi aggiunse improvvidamente, come lui stesso poi riconobbe, la personalizzazione della partita con l’incauto impegno al ritiro –ma completo- in caso di sconfitta. Che arrivò puntualmente, e smaccatamente. Lo sconfitto rinunciò solo a Palazzo Chigi, trattenendo la segreteria del partito, da cui però sarebbe uscito il grosso delle minoranze.

Considerate le condizioni politiche nelle quali si era aperta e si è sviluppata, l’ondata populistica che l’ha accompagnata dal primo momento, e che ha portato i grillini a mantenere intatta la loro presa elettorale, a dispetto delle defezioni e degli incidenti subiti a livello centrale e locale, i cambiamenti intervenuti persino nella geografia dei partiti, con oltre cinquecento passaggi di parlamentari di ogni area da una combinazione all’altra, compresi i presidenti di entrambe le Camere, può ben essere considerato un miracolo che questa legislatura sia arrivata alla sua scadenza ordinaria. E, oltre a consegnarci con Paolo Gentiloni un presidente del Consiglio ancora in partita,  abbia potuto annoverare non solo riforme bocciate o mancate, ma anche leggi approvate come quelle che hanno garantito nuovi diritti civili, dalle unioni di fatto al biotestamento, una nuova legge elettorale non derivata dalle forbici della Corte Costituzionale e persino un miglioramento della situazione economica, col passaggio dal meno al più, a dispetto di terremoti, crisi bancarie e altri accidenti. Poteva francamente andare anche peggio, visto com’era cominciata.

 

 

 

Pubblicato su Il Dubbio

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