Salvo improbabili sorprese, Giorgia Meloni ce l’ha dunque fatta….

La corsa ai sondaggi prima del divieto di diffonderne i risultati sino al giorno delle votazioni è stata mediaticamente vinta dalla emittente televisiva di Urbano Cairo con una rivelazione eseguita per suo conto dal telegiornale di Enrico Montana, quasi a ridosso di un’altra commissionata dal salotto di Lilli Gruber. E’ stata quindi una gara, alla fine, tutta interna a  la7. 

Il segretario del Pd Enrico Letta

Ve ne riferisco in modo molto sommario per obbligo, a questo punto, di legge. Si sono allungate le distanze fra il centrodestra e la maggiore coalizione concorrente, quella formata da Enrico Letta attorno al suo Pd. E all’interno del centrodestra fra i partiti di Giorgia Meloni e quelli  arrancanti di Matteo Salvini e di Silvio Berlusconi.  Il quale ultimo è ancora più a rischio di sorpasso anche da parte del cosiddetto quarto polo improvvisato da Carlo Calenda e Matteo Renzi per pescare voti appunto in quelle acque, oltre che nel bacino del Pd. Dove Enrico Letta -si sa- ha preferito lasciarsi abbandonare dai due concorrenti di centro con i quali si era già accordato piuttosto che abbandonare, a sua volta, verdi e rossi che pure non avevano mai accordato la fiducia al governo di Mario Draghi. In difesa del quale invece lo stesso Letta aveva rinunciato al cosiddetto “campo largo” con i grillini. Che alla fine avevano rotto con Draghi per diventare più competitivi a sinistra proprio col Pd, ma senza riuscire più di tanto nell’obiettivo perché l’ultimo sondaggio li dà in competizione con la Lega, piuttosto che col Nazareno lettiano. 

Dalla prima pagina del Fatto Quotidiano

Questa situazione, che con minore sintesi non sono purtroppo riuscito a rappresentare, rafforza le ambizioni o aspettative di Giorgia Meloni a 15 giorni dal voto. E allarma naturalmente i suoi avversari, venuti particolarmente allo scoperto oggi sul Fatto Quotidiano con la rivelazione di un certo traffico svoltosi al Quirinale, e al massimo livello, nel mese di agosto. Si è riferito, in particolare di “due vertici segreti” fra Sergio Mattarella e Giorgia Meloni, con Mario Draghi messo sullo sfondo in un malizioso fotomontaggio, per preparare quel “clima unitario” post-elettorale non a caso auspicato negli ultimi giorni da Guido Crosetto. Il quale sta alla Meloni come Silvio Berlusconi si è proposto alla stessa Meloni e a Salvini: un padre rispetto ai figli. 

Chissà se tutto questo, peraltro, riuscirà alla fine a ridurre un altro rischio che incombe sul voto del 25 settembre: una sospettosa o sconcertata fuga degli elettori dalle urne, in linea con una tendenza che già a livello amministrativo ha  portato l’astensionismo allo stato consolidato di primo partito italiano. Ciò danneggerebbe ulteriormente la rappresentatività del Parlamento già compromessa da una riforma monca, che ne ha ridotto di un terzo i seggi a legge elettorale invariata -e che pasticcio di legge- e a regolamento anch’esso invariato alla Camera. 

Marzio Breda, il quirinalista del Corriere della Sera

Non per portare acqua al mulino del Fatto Quotidiano, dove i confini fra l’informazione e la partecipazione attiva alla lotta politica -diciamo così- sono quanto meno incerti, ma per una doverosa presa d’atto di cose realmente avvenute di recente, i “due vertici” al Quirinale rivelati dal giornale di Marco Travaglio spiegherebbero la dura reazione opposta da Mattarella allo “stupore”, riserve e quant’altro attribuitegli dal pur autorevole quirinalista del Corriere della Sera, Marzio Breda, sulla automaticità di un conferimento dell’incarico di presidente del Consiglio a Gorgia Meloni in caso di vittoria elettorale del centrodestra e sua personale.Quale andrebbe appunto delineandosi con gli ultimi sondaggi per la giovane leader della destra dichiaratamente conservatrice. Che sono ultimi naturalmente in senso relativo, perché di ultimo davvero ci sarà solo il verdetto delle urne.   

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Biden tirato goffamente per la giacca nella campagna elettorale italiana

Dal Dubbio
Titolo del Dubbio

Benedetta campagna elettorale -si fa molto per dire naturalmente- vicina ormai alla conclusione. Ma cominciata ben prima della sua recente apertura ufficiale, essendo stata tutta la diciottesima legislatura una campagna elettorale continua, a vari livelli, sviluppatasi per uscire progressivamente dalle maglie della vittoria a sorpresa, per quanto relativa, conseguita nel 2018 dai grillini. I quali si sono fortunatamente prestati via via a sperimentare ogni tipo di maggioranza pur di rimanere al potere. E  perdendo quindi per strada la loro identità, se mai in verità ne hanno avuta una che non fosse di semplice populismo, come si suol dire a carico anche di altri, e non a torto. “Avvocato del popolo” -ricordate?- si definì orgogliosamente Giuseppe Conte arrivando a Palazzo Chigi con i suoi vice presidenti del Consiglio Luigi Di Maio e Matteo Salvini. 

Dalla prima pagina del Foglio di ieri
Titolo del Foglio di ieri

Persino Il Foglio -e per mano del suo direttore Claudio Cerasa, non ancora rassegnato forse, come il più realistico fondatore Giuliano Ferrara, a scommettere sulla capacità degli avversari del centrodestra ormai condotto da Giorgia Meloni di fare dopo le elezioni una sana e rigenerante opposizione- si è poco elegantemente aggrappato ad un evento come la scomparsa della regina Elisabetta II per spargere nubi sulla fase dichiaratamente conservatrice che si sta davvero avvicinando in Italia. E non solo nelle chiacchiere di chi vede da tempo conservatori dappertutto, anche a sinistra: per esempio, nel Pd di Enrico Letta. Ripeto: Enrico, non lo zio forzista Gianni, col quale è capitato anche a me di recente di scambiarlo scrivendo dell’uno e pensando familiarmente all’altro. 

Claudio Cerasa sul Foglio di ieri

Sentite l’incipit dell’editoriale di ieri di Cerasa: “Parlare di mondo anglosassone, oggi, senza parlare della regina Elisabetta può apparire fuori contesto, lontano dalla realtà, ma c’è una ragione ulteriore che, in queste ore, avvicina emotivamente il mondo anglosassone all’universo italiano. E quella ragione ha a che fare con un futuro che giorno dopo giorno somiglia sempre di più al volto di Giorgia Meloni, la prossima, possibile regina della politica italiana”. 

Già confessa di tremore dei polsi a immaginarsi a Palazzo Chigi, come va dicendo nei comizi e nelle interviste, la Meloni sarà sbiancata nel sentirsi indicare persino come “regina della politica italiana”. Che avrebbe tuttavia il torto, secondo quanto si capisce dal ragionamento di Cerasa, di sentire ormai superata l’”impresentabilità”, rimproveratale dagli avversari, scambiando il “mondo anglosassone” per la sola parte britannica. Dove una regina è appena morta dopo 70 anni sul trono cominciati e finiti con un conservatore allo storico numero 10 di Dowing Street: nel 1952 con Winston Churchill e ora con Liz Truss, appena nominata al posto del collega di partito Boris Johnson dalla stessa regina con quella mano destra livida delle sue ultime cure. 

  Giorgia Meloni- conservatrice anche lei, alla testa addirittura di una omonima formazione europea- è stata quindi invitata  da Cerasa a non pensare che possano bastarle le credenziali, diciamo così, britanniche. E meno male che il direttore del Foglio non ha evocato le simpatie per i nazisti attribuite a suo tempo allo zio allora regnante di Elisabetta, Edoardo VIII, poi dimessosi per amore della divorziata americana Wallis Simpson. 

Il presidente americano Joe Biden
Cerasa dal Foglio di ieri

A Giorgia Meloni mancherebbero ancora le credenziali del mondo anglosassone d’oltre Atlantico. Dove le chiavi della presentabilità dell’ex ragazza della Garbatella però sarebbero nelle mani non più dei conservatori repubblicani ormai sputtanati -diciamo così- da Donald Trump, ma in quelle dei democratici, rappresentati alla Casa Bianca dal presidente Joe Biden. Con i quali tuttavia -ha riconosciuto Cerasa- la leader della destra italiana sarebbe già riuscita a realizzare una “sorprendente simmetria” sul terreno dell’”atlantismo, odio per il puntinismo, distanza dalla Cina, vicinanza a Taiwan”. 

Sempre Cerasa dal Foglio di ieri

Sino a quando questo processo di simmetria, diciamo così, non sarà completato, nonostante la presentabilità acquisita -ripeto- nella Gran Bretagna della scomparsa Elisabetta e forse anche del subentrato Carlo III, il partito della Meloni continuerà ad essere “per i tedeschi un cugino alla lontana dell’Afi, per i francesi un cugino alla lontana della Le Pen, per gli spagnoli un cugino non alla lontana di Vox”. 

Tutto questo, magari, sarà pure vero.  Ma dobbiamo dirci francamente che conta, o dovrebbe contare alla fine soprattutto ciò che della Meloni, del suo partito e della sua “presentabilità” pensiamo noi italiani. E su questo terreno neppure al Foglio si riesce bene a capire che cosa ne pensino davvero. In particolare, se condividono o no l’allarme per la democrazia derivante da un’affermazione della Meloni lanciato da Enrico Letta, che non per questo ha perduto il voto pubblicamente annunciato e ribadito più volte da Giuliano Ferrara in persona. 

Pubblicato sul Dubbio

In omaggio ad Elisabetta II, una grande regina spentasi nella serenità dei suoi 96 anni

No. Oggi non ce la faccio a tenere basso lo sguardo per riferirvi della campagna elettorale italiana a 16 giorni dal rinnovo delle Camere. Una campagna monotonamente contrassegnata dalle divisioni che accomunano i due poli certificati dalla Corte di Cassazione -il centrodestra molto avanti nei sondaggi e il centrosinistra molto indietro- insidiati entrambi dal polo non certificato di centro per una valutazione della consistenza, rispettivamente, della vittoria e della sconfitta.  Il resto è ormai dettaglio, o poco più, sotto le 5 stelle e altrove. 

Dalla prima pagina di Repubblica

Oggi lo sguardo non può che levarsi più in alto, geograficamente e umanamente, con l’omaggio dovuto ad una grande, grandissima regina -Elisabetta II d’Inghilterra- che ha concluso serenamente la sua lunga avventura terrena guadagnandosi tutti, ma proprio tutti gli elogi che le sono stati riservati immediatamente nella nostra doppia Capitale del Cristianesimo e dell’Italia: dall’”esempio di devozione al dovere” indicato da Papa Francesco all’”autorevole saggezza e altissimo senso di responsabilità” sottolineati dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, infine al riconoscimento di “una protagonista assoluta” da parte del presidente del Consiglio Mario Draghi. 

Nell’ormai lontano, anzi lontanissimo 1956 andai a Londra in estate come premio di mio padre per il diploma di maturità classica. E mi colpì, all’arrivo, un giornale appena uscito con un titolo su tutta la prima pagina che diceva: Slapped. Cioè, schiaffeggiato. Era la sorte toccata in Parlamento ad un deputato britannico che aveva attaccato la regina salita al trono quattro anni prima. E di quel giornale vidi, ammirato, la corsa all’acquisto davanti alle edicole, come poi vidi e ascoltai nelle sale cinematografiche gli applausi del pubblico al filmato che precedeva ogni spettacolo per il saluto alla Regina. 

Sono andato a cercare  su internet il nome di quel deputato slapped da me purtroppo dimenticato. E’ stata una ricerca felicemente inutile, avendomi finalmente restituito un’immagine umana della navigazione elettronica. Che ha anch’essa evidentemente i suoi limiti. 

La vignetta del Secolo XIX

Ne è passato di tempo da quel giorno, ne sono accadute di cose attorno ad Elisabetta II, in Gran Bretagna e in famiglia, ma quel deputato è probabilmente morto senza la soddisfazione di vedere minata la popolarità della Regina. Peggio ancora se è sopravvissuto, perché adesso sta vedendo e sentendo di persona quanto Elisabetta fosse riuscita a smentirlo nel suo lunghissimo regno. 

Il commiato della Regina dalla premier

Onore, dunque, alla Regina, con quella mano destra livida delle cure cui doveva sottoporsi  per le sue condizioni di salute, a 96 anni, che abbiamo tutti potuto vedere in fotografia e in televisione mentre, sorridente e serena, si accomiatava dalla conservatrice Liz Truss dopo l’ultimo adempimento del suo mandato regale. L’aveva appena nominata alla guida del governo britannico al posto del praticamente sfiduciato collega di partito Boris Johnson. 

Quel sorriso ci mancherà -credo, o temo- con Carlo III arrivato finalmente al trono all’età di 74 anni da compiere a novembre. Sua madre era già regina a 25.

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Brividi ad Arcore per la nube del sondaggio che dà Berlusconi sorpassabile anche da Calenda

Il sondaggio appena condotto per Otto e mezzo

  Pare dunque che ad Arcore e dintorni, più ancora di quella grande nube nera levatasi sulla Lombardia per un incendio, vista d’altronde da quelle parti più in televisione che ad occhio nudo perché fortunatamente distante, abbia creato un certo panico un sondaggio elettorale di Demopolis condotto per il salotto televisivo di Lilli Gruber, su la 7. Un sondaggio peraltro che rischia di essere ricordato più a lungo del solito perché da dopodomani- 10 settembre- non se ne potranno pubblicare altri, troppo vicini al 25, il giorno del voto. 

Augusto Minzolini sul Giornale

E’ valsa poco la consolazione della distanza ormai incolmabile fra il centrodestra e la coalizione rimasta nelle mani di Enrico Letta. Una consolazione modesta rispetto alle dimensioni, all’interno del centrodestra, della crescita di Giorgia Meloni. Che con quel 25 per cento non solo e non tanto ha sorpassato ulteriormente all’esterno il Pd, ma all’interno  ha superato di parecchio la somma dei voti della Lega e di Forza Italia. E’ una circostanza che delude un pò la principale aspettativa berlusconiana emersa dagli editoriali del Giornale di famiglia del Cavaliere. Nell’ultimo dei quali, oggi, si legge  ancora che “la scelta è tra chi tra i partiti del centrodestra vuole che il profilo del futuro governo abbia l’imprinting della destra, populista o sovranista poco importa, e chi invece preferisce che il proprio voto garantisca un esecutivo più attento all’Europa o ai valori liberali”. “Da qui non si scappa”, ha avvertito il direttore Augusto Minzolini.  

Berlusconi collegato a Porta a Porta

Ebbene, Forza Italia è lontana non solo dal 20 per cento sognato da Silvio Berlusconi- che in un collegamento televisivo con Bruno Vespa se n’è quasi scusato dicendo di averla sparata così grossa per motivare i suoi- ma anche dall’obiettivo più modesto e realistico di un risultato genericamente a due cifre. Il partito del Cavaliere è dannatamente sotto il 7 per cento, sia pure di uno starnuto per ora, accreditato al cosiddetto terzo polo di Carlo Calenda e Matteo Renzi. Che è nato dichiaratamente per togliere voti, da posizioni di centro, sia al Pd sia, appunto, a Forza Italia. E pare che stia riuscendo a farlo ai danni più dell’una che dell’altro. 

Gelmini e Carfagna con Calenda

Un aiuto su questa strada a Calenda e a Renzi è dato naturalmente dalle ministre ex forziste Mara Carfagna e Maria Stella Gelmini, in ordine rigorosamente alfabetico,  candidatesi nel terzo polo dopo il contributo dato a sorpresa anche da Berlusconi, e non solo da Salvini, ad un assottigliamento tale della maggioranza uscente di questa legislatura da avere spinto alle dimissioni Mario Draghi. Che peraltro -non dimentichiamo- era stato contrastato personalmente da Berlusconi come candidato al Quirinale perché insostituibile a Palazzo Chigi. 

Mario Draghi

Non si è rivelato proprio un capolavoro di coerenza di fronte a quel che sarebbe poi accaduto, per quanto Berlusconi si difenda sostenendo che, se lo avesse voluto davvero, Draghi avrebbe potuto restare al suo posto dopo la fiducia negatagli dai grillini scaricandoli e cambiando maggioranza. Ma Draghi -va detto anche questo- può difendersi a sua volta  dicendo che la disponibilità del Pd, oltre che sua personale, ad una simile operazione non era certa. Di certa invece è rimasta sul tavolo la fiducia a Draghi negata anche dal partito di Berlusconi, e da quello di Salvini, dopo il disimpegno grillino. 

Della Carfagna e della Gelmini -per non parlare di Renato Brunetta, ritiratosi proprio dalla politica- Berlusconi ha ritenuto di liquidare il dissenso facendone denunciare il “tradimento” dalla solita corte, di donne ma anche di uomini, alla quale lui permette di liquidare i rapporti politici col criterio dei favori, premi eccetera ricevuti e dati. Almeno la buonanima di Palmiro Togliatti nel Pci si avvolgeva nella bandiera non personale dell’ideologia per liquidare i dissidenti come “pidocchi nella criniera del cavallo”. Con Berlusconi invece tutto su riduce alla fine sul piano personale. Peccato, anche per lui.  

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Se la crisi d’identità della politica finisce in una mostra d’arte

Il Quarto Stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo

Dichiaratamente e orgogliosamente ispirato al Quarto Stato, il celebre capolavoro di Giuseppe Pellizza da Volpedo, ammirando il quale sono cresciute generazioni di socialisti inconsapevoli che ad un certo punto della storia d’Italia e della sua sinistra essi sarebbero diventati, o sarebbero stati trattati come intrusi, Bruno Pellegrino ha finito per tradurre a sua insaputa -ma non so fino a che punto- in una proiezione della campagna elettorale in corso una mostra di maschere da lui dipinte su ferro. Che lo stesso ex senatore del Psi degli anni di Bettino Craxi ha  rivelato di usare come “un materiale molto più docile di quanto non si possa immaginare”. “Io -ha spiegato- lo taglio con il plasma e lo dipingo come fosse una tela”. 

Bruno Pellegrino

Sempre Bruno, il mio amico Bruno, assorto e felice nella sua fuga ormai da una politica nella quale c’è davvero poco in cui si possa riconoscere. al pari di molti altri, a cominciare dal sottoscritto, ha dichiarato di essersi “impegnato a trasformare volti anonimi in individui con la loro personalità, che possono comunque essere individuati come massa critica, ma sviluppano le loro identità con le loro storie, che camminano, e i loro mondi che si incrociano, e le loro culture che si contaminano, dando a ciascuno di loro un’anima, puntando sul colore in modo impressionistico per trasmettere emozioni”. 

Pagatogli tuttavia questo contributo di cronaca, Bruno mi perdonerà la libertà di visione, lettura, interpretazione e quant’altro che mi sono presa collegando le sue maschere un pò agli spettatori e un pò anche agli attori della primizia politica che è stata ed è ancora la campagna elettorale estiva di questo bizzarro  2022. 

Giovanna Melandri

Nel Corner del Maxxi -il museo nazionale delle arti del XXI secolo, che ospita la mostra di Pellegrino intitolata Personae- di fronte alle 63 sculture bidimensionali, e alle 6 grandi maschere allineate poco prima, mi sono sentito come ad uno spettacolo forse ancor più politico che artistico. E mi ha un pò consolato, come se avessi trovato una sponda emotiva,  un’opinione espressa dalla sempre bella Giovanna Melandri, presidente del museo. “Sono persone con la loro spirituale individualità -ha detto l’ex ministra della cultura parlando delle maschere di Bruno- che possono diventare anche terreno per una nuova politica”. Nuova, appunto, come in tanti la cercano, l’aspettano, la reclamano delusi da quella attuale o prevalente, che abbonda più di parole che di idee, di luoghi comuni più che di proposte innovative, di insolenze più che di rispetto, di paure più che di fiducie. 

Sbaglierò, per carità, essendo forse fra quelli che invecchiando peggiorano anziché migliorare come il buon vino. Ma non è forse un caso che visitando la mostra fra i primi, poco dopo l’inaugurazione, mi sono ritrovato con persone che ritengo -per come le conosco  o ne ho interpretato più o meno recenti sortite o silenzi- ugualmente deluse dalla politica di questi tempi, di questi protagonisti, di questi attori. Persone di varie provenienze o culture -messe in ordine rigorosamente alfabetico dopo averle viste- come Pierluigi Battista, Luigi Compagna, Anna Finocchiaro e Marco Follini.  Con i quali mi scuso in anticipo se mai non dovessero gradire questa citazione. 

Ho l’impressione che il 25 settembre in cabina elettorale mi torneranno alla mente le maschere di Bruno, che rimarranno esposte al Maxxi sino a oggi 8 settembre. Chissà se mi aiuteranno a scegliere meglio. Ma di certo voterò, considerando l’astensionismo l’altra faccia dell’evasione fiscale. 

Pubblicato sul Dubbio

Enrico Letta suona l’allarme per una stravittoria di Giorgia Meloni

Titolo di Repubblica

In un crescendo non contraddittorio ma complementare alla scelta di Gorgia Meloni come antagonista principale di questa campagna elettorale, il segretario del Pd Enrico Letta ha lanciato “l’allarme” per la democrazia. Che è stato scelto come apertura di prima pagina da Repubblica, volendolo evidentemente condividere. Un allarme che deriverebbe non solo e non tanto dalla ormai scontata vittoria elettorale del centrodestra a trazione femminile con Giorgia Meloni, quanto dalle sue dimensioni. 

Titolo del manifesto

L’”incubo” lettiano, esplicitato in particolare dal manifesto, è che la destra -grazie ad una legge elettorale che molti contestano proprio al Pd di avere voluto a suo tempo e di non avere fatto modificare in tempo- prenda il 70% dei seggi parlamentari e modifichi a suo piacimento la Costituzione. Per evitarlo basterebbe al Pd prendere con la sua coalizione “progressista” il 4 per cento in più di quanto gli attribuiscano sinora i sondaggi. Sarebbe per la destra una vittoria mutilata, e per gli avversari una sconfitta misurata, consolante  e quant’altro, magari suscettibile di rivalsa in corso di legislatura con qualche operazione di palazzo in un Parlamento che vi si presterebbe più facilmente con quei nuovi 600 seggi contro i 945 delle Camere sciolte a luglio. Vasto programma, avrebbe detto il compianto generale francese Charles De Gaulle spesso evocato quando i partiti, o le loro nomenclature, si prefiggono traguardi troppo ambiziosi. 

Titolo del Foglio
Titolo del Messaggero

Non so se l’allarme lanciato dal segretario del Pd, peraltro spalleggiato dal ricandidato “indipendente” Pier Ferdinando Casini in un discorso alla Fondazione Sturzo, basterà a rispondere all’inquietudine di Claudio Cerasa. Che sul Foglio di oggi da lui diretto, con minore rassegnazione forse del fondatore Giuliano Ferrara, si è chiesto “perché Meloni non fa così paura ai suoi nemici?”. Fra i quali infatti ve ne sono, come Claudio Calenda nel cosiddetto terzo polo, che non escludono di poterle alla fine dare una mano almeno nella difesa delle posizioni atlantiste dalle posizioni critiche assunte da Matteo Salvini verso le sanzioni adottate contro la Russia per la guerra in Ucraina. Esse, secondo il leader leghista, danneggerebbero più noi che Putin, pur tanto colpito evidentemente da averci minacciato un inverno freddissimo se non ci decidiamo a toglierle. 

Paolo Valentino sul Corriere della Sera
L’editoriale del Corriere della Sera

“La strana guerra” è stata definita nell’editoriale del Corriere della Sera quella che Putin combatte sul versante ucraino con le bombe e su quello europeo col gas. “Ancora una volta, come ai tempi del generale Kutuzov contro le armate napoleoniche, il Cremlino sembra scommettere -ha scritto Paolo Valentino- sul “generale inverno”, sperando questa volta che il fronte europeo si frammenti sotto la pressione delle opinioni pubbliche colpite dall’inflazione e stremate dal freddo della stagione che incombe”. 

Mario Draghi a Rimini il 24 agosto
Titolo del Corriere della Sera

Ma da Londra, per quanto ormai uscita dall’Unione Europea, la nuova premier Liz Truss- conservatrice come il predecessore Boris Johnson e la candidata italiana a Palazzo Chigi Giorgia Meloni- ha detto fiduciosamente  che “supereremo questa tempesta”. L’aveva anticipata a Rimini Mario Draghi parlando, per l’Italia, di “qualsiasi governo” destinato a succedergli dopo le elezioni: evidentemente anche quello contro il quale Enrico Letta ha lanciato invece il suo allarme per le sorti della democrazia articolata nella Costituzione in vigore.

Ripreso da http://www.policymakermag.it 

La Meloni sogna in inglese nella corsa tutta italiana a Palazzo Chigi

Dalla prima pagina della Stampa
Titolo del Foglio

Se Mary Elisabeth Truss, 47 anni, Liz per gli amici ma anche per il più largo pubblico inglese, scelta dagli “intrepidi” conservatori -come ha scritto ammirato Giuliano Ferrara sul Foglio-  per la successione a Boris Johnson arriva a Dowing street “sognando la Thatcher”, secondo il titolo della  Stampa, la conservatrice -anche lei, dichiaratamente- Giorgia Meloni, 45 anni, scala in Italia Palazzo Chigi in questa campagna elettorale sognando entrambe. E avendo ormai buone probabilità di riuscita, per quanto il suo per niente estimatore Carlo De Benedetti, collegato ieri sera con lo studio televisivo appena riaperto di Lilly Gruber, la consideri una disgrazia. E scommetta addirittura su Silvio Berlusconi, il proprio arcinemico, per fermarla. O farla almeno durare il meno possibile. 

Donald Trump
Carlo De Benedetti

Carlo De Benedetti, “l’ingegnere”, già editore della Repubblica e ora del più modesto  ma ugualmente ambizioso Domani, fondato giusto per dimostrare o insegnare ai figli come possedere un giornale senza danneggiarlo e cederlo ai concorrenti, è un uomo  -anche per la sua stazza fisica- più di pancia che di testa, direi. E’ rimasta celebre la sua profezia, proprio nello studio televisivo della Gruber, contro l’elezione di David Trump a presidente degli Stati Uniti nel 2017 perché troppo indebitato, troppo pasticcione e troppo di destra: elezione invece puntualmente arrivata. E che potrebbe essere addirittura ritentata, per quanto i problemi dell’ex presidente siano nel frattempo aumentati di numero e di peso.

Il segretario del Pd Enrico Letta

“L’ingegnere” è di una franchezza anche spietata. Per quanto cerchi ancora di stimarlo, prevedendone comunque un difficile passaggio congressuale nel Pd dopo le elezioni del 25 settembre, egli ha liquidato Enrico Letta come l’uomo che ha sbagliato tutto nella preparazione e nella conduzione di questa campagna elettorale. Avrebbe sbagliato soprattutto a non capire la necessità di allestire contro il centrodestra a trazione ormai meloniana un cartello tipo Cln: il Comitato di Liberazione Nazionale, a suo tempo, dal nazifascismo. Un cartello comprensivo anche dei “grillozzi”, come li chiama sul Foglio il già citato Giuliano Ferrara con la stessa indulgenza, comprensione e quant’altro dell’’ingegnere”.

Giuliano Ferrara, ieri
Titolo del Foglio di ieri

Ora purtroppo, secondo il quadro dipinto dallo stesso Ferrara non più tardi di ieri, e condiviso su Domani anche da Curzio Maltese, sempre ieri, non resterebbe che rassegnarsi e prepararsi ad un’avveduta gestione della sconfitta. “Appello al centrosinistra per un futuro decente di battaglie comuni”, ha titolato Il Foglio con questa conclusione dell’elefantino rosso: “Quello che si sarebbe dovuto intraprendere prima, per essere competitivi, si deve ricostruire dopo, a competizione perduta”. 

Titolo dell’editoriale di Domani

“Pd, M5S e terzo polo torneranno insieme ma solo dopo le elezioni”, si leggeva nel titolo dell’editoriale di Domani dando a costoro degli “uccellini sullo stesso ramo”. E risparmiando il meno poetico ma forse più pertinente paragone -dal punto di vista di De Benedetti, Ferrara e Maltese- con i famosi polli che nei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni si beccavamo mentre Renzo li portava alla mensa dell’avvocato Azzeccacarbugli.  

Antonio Ingroia
Antonio Ingroia ieri alla

C’è chi teme, sempre dal punto di vista dell’”ingegnere” e dintorni, che sarà difficile comporre dopo le elezioni ciò che il segretario del Pd non ha saputo o voluto unire prima, vista -per esempio- la fuga a sinistra di Giuseppe Conte, per quanto ancora raggiunto ieri da un’altra sponsorizzazione del destrissimo Trump, da oltre Oceano. Ma forse non ha torto il politicamente redivivo Antonio Ingroia, in una intervista alla Verità di Maurizio Belpietro, a scommettere sul camaleontismo dell’ex presidente del Consiglio. Conte tornerà col Pd? gli ha chiesto l’intervistatore. “Di sicuro, sì, c’è forse chi ha qualche dubbio?”, ha risposto e ridomandato l’ex pm ora dichiaratamente rosso, convinto che il presidente di ciò che rimane del MoVimento 5 Stelle sia solo un emulo dei più disinvolti democristiani di un tempo.

Ripreso da http://www.startmag.it e http://www.policymakermag.it

Gli errori di Gianfranco Fini che Giorgia Meloni non ripeterà nel centrodestra

Quelle mani di Giorgia Meloni a Cernobbio fra i capelli -o sugli occhi, come altri hanno preferito riferirne- per difendersi da un Matteo Salvini poco riguardoso della  corsa a Palazzo Chigi dell’alleata mi hanno riportato indietro con la memoria ad una scena apparentemente diversa. Eppure univoca nella incapacità a destra di mimetizzarsi, di fare buon viso a cattivo gioco.

Gianfranco Fini alla Direzione del Pdl nel 2010

La scena richiamata alla mia memoria  è quella dell’ormai lontano 22 aprile del 2010 a Roma, quando in una seduta da auditorium della direzione del Pdl  il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi sbottò contro Gianfranco Fini. Che da tempo, per niente trattenuto dal ruolo di presidente della Camera, promessogli dallo stesso Berlusconi prima delle elezioni del 2008 e puntualmente assegnatogli, gliela tirava nella maggioranza. E a chi gli raccomandava prudenza per conto del Cavaliere rispondeva paragonandosi ad un combattente che poteva anche saltare per aria ma trascinandosi appresso pure il capo del governo. Ma ciò non avvenne perché, a rottura avvenuta, Berlusconi sopravvisse al tentativo di sfiduciarlo compiuto dagli amici di Fini con una mozione a Montecitorio.

Quando Berlusconi -dicevo- sbottò dicendogli di dimettersi almeno da presidente della Camera se intendeva continuare a tirargliela, Fini dal suo posto cominciò a fare gesti di derisione, sino ad alzarsi, avvicinarsi al palco e chiedergli: “Che fai? Mi cacci?”. E Berlusconi di fatto lo cacciò. Fini rimase al vertice di Montecitorio, dove però non sarebbe più tornato neppure da semplice deputato, inutilmente candidatosi nelle liste improvvisate nel 2013 da Mario Monti. 

Carlo Calenda a Cernobbio

La Meloni, pur cresciuta alla sua scuola, non è Fini. E nella veste di candidata a Palazzo Chigi per il centrodestra, dove il suo partito sembra in grado di raccogliere più voti della somma di quelli di Berlusconi e Salvini, non si mette a fare scenate in pubblico. Si porta solo le mani fra i capelli o -ripeto- sugli occhi. Ma poi spiega all’alleato insofferente che dalle sanzioni alla Russia per la guerra in Ucraina l’Italia non può tirarsi indietro, come lui vorrebbe, senza perdere credibilità internazionale. Una donna tosta, direi, della quale il capo della Lega dovrà prima o poi tenere conto, anche se il pubblico molto scelto di Cernobbio -come ha notato un cronista scrupoloso- non le ha mai concesso più di dieci secondi di applausi. Molti di più ne hanno  invece ottenuti Carlo Calenda ed Enrico Letta, in ordine cronometrico. 

Il fatto è che nel mondo delle imprese e della finanza più di una imitazione di Draghi, cui la Meloni sarebbe disponibile pur dopo tanta opposizione, vorrebbero il Draghi vero. Su cui Calenda ha scommesso, insieme con Matteo Renzi, senza con questo infastidire il presidente del Consiglio, almeno sinora.  E certamente il segretario del Pd non lo contrasterebbe nel caso in cui fosse possibile confermarlo.

Pubblicato sul Dubbio

Ripreso da http://www.startmag.it l’11 settembre

Il draghismo di Carlo Calenda ha fatto il pieno dei consensi a Cernobbio

Titolo di Repubblica
Titolo del Corriere della Sera

In questa edizione, finita per essere elettorale, del raduno annuale degli imprenditori e finanzieri a Cernobbio il più applaudito dei leader politici è stato dunque Carlo Calenda. Lo hanno rilevato tutti i cronisti riferendo quello che hanno visto e sentito di persona, a cominciare da quelli del Corriere della Sera, il cui direttore Luciano Fontana ha peraltro condotto l’incontro degli ospiti in rappresentanza dei loro partiti o coalizioni: compreso quello anche fisicamente, oltre che politicamente, più lontano dall’uditorio come Giuseppe Conte, intervenuto in collegamento esterno. 

Persino alle orecchie del cronista del Fatto Quotidiano, Giacomo Salvini, è risultato chiaro il successo del rappresentante del cosiddetto terzo polo, considerato invece dalla Corte di Cassazione -legge elettorale alla mano- solo un concorrente “singolo” delle due coalizioni capeggiate nei sondaggi daGiorgia Meloni e da Enrico Letta. 

Dal Fatto Quotidiano

Chi si è avvicinato di più agli applausi di Calenda è stato, per il cronista del giornale di Marco Travaglio, proprio Enrico Letta, il segretario del Pd. E c’è una ragione, anche se non spiegata o esplicitata sul Fatto Quotidiano. Essa consiste   nell’apprezzamento di Mario Draghi da parte di entrambi: Calenda proponendosi di farlo rimanere a Palazzo Chigi anche dopo le elezioni, o di farvelo tornare dopo un breve passaggio di un centrodestra troppo diviso su temi importanti per durare a lungo, ed Enrico Letta reclamando il merito di essere stato il Pd l’unico, fra i maggiori partiti della legislatura interrotta con lo scioglimento anticipato delle Camere, a non far mai mancare la fiducia al governo guidato appunto da Draghi. 

Gli altri, in effetti, dal MoVimento 5 Stelle  di Conte alla Lega di Matteo Salvini e alla Forza Italia di Silvio Berlusconi, gli hanno alla fine negato la fiducia. Giorgia Meloni, che ora ne condivide la cosiddetta agenda, non gliel’aveva mai concessa. 

Matteo Salvini e Giorgia Meloni a Cernobbio

Di questa sintonia della giovane leader della destra italiana con l’agenda Draghi si è avuta a Cernobbio anche una prova concreta con quelle mani infilatesi fra i capelli da Giorgia Meloni mentre Matteo Salvini, sedutole accanto, ripeteva le sue critiche alle sanzioni contro la Russia convintamente adottate e tuttora sostenute da Draghi per la guerra di aggressione all’Ucraina.  Eppure la Meloni -ha raccontato un cronista, cronometro alla mano- non ha mai strappato a Cernobbio un applauso superiore ai dieci secondi. Draghi è Draghi, insomma, agli occhi, alle orecchie e al cuore di un certo pubblico certamente non sprovveduto, Calenda é Calenda e la Meloni è Meloni. 

Titolo del Giornale

Tiepido, a dir poco, è stato quel pubblico anche nei riguardi di Forza Italia rappresentata da Antonio Tajani, peraltro scontratosi con Calenda a Cernobbio per difendere il campo elettorale azzurro dalle incursioni del cosiddetto terzo polo. “La farsa di Calenda”, ha titolato non a caso su tutta la prima pagina il Giornale della famiglia Berlusconi.

Titolo di Domani
Titolo di Libero

I malumori berlusconiani per il draghismo di Calenda, e Renzi, sono stati espressi a Libero da quella che il quotidiano diretto da Alessandro Sallusti ha definito “lady B”. E’ la deputata uscente -e ricandidata di ferro, in collegio superblindato- Marta Fascina, convinta che “non sia rispettoso per la sua persona proporre o suggerire ruoli che possa rivestire” Mario Draghi. Il quale però, almeno sino a questo momento, non si è mostrato infastidito dall’attenzione, chiamiamola così, che gli riserva il terzo polo. Egli si è limitato a non lasciarsi trascinare nella campagna elettorale da quei promotori del simbolo di “Italiani con Draghi” depositato al Viminale, e bocciato perché privo della trasparenza che sarebbe stata possibile solo col e per il suo consenso. Del resto, anche Domani, il nuovo giornale di Carlo De Benedetti, titola oggi in prima pagina, tra analisi, previsione, auspicio e quant’altro, “Draghi dopo Draghi”.

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C’è del metodo nella follia del contrasto di Salvini a Giorgia Meloni

Quell’aò! tanto romanesco che Francesco Tullio Altan ha messo in bocca, e nella mano destra, di Giorgia Meloni con la vignetta di prima pagina della Repubblica è naturalmente rivolto a Matteo Salvini. Che per lei è peggiore di un avversario dichiarato come il segretario del Pd Enrico Letta, spintosi a promuoverla a quel rango nella speranza di poterla contenere meglio, se non addirittura batterla. 

Salvini per la Meloni è -peggio, ripeto- un concorrente all’interno dello stesso schieramento.  Un concorrente incattivito a questo punto per le  distanze che ormai lo separano da lei inseguendone  a piedi i ritratti sulle facciate posteriori degli autobus italiani, e non solo della sua Roma.

Titolo della Verità

Allora è una follia, direte. Ma in questa follia c’è del metodo, come in quella dell’Amleto  shaksperiano. E’ il metodo che gli ha appena attribuito sulla Verità di Maurizio Belpietro con  perfidia Marcello Veneziani: alimentare la paura nei suoi riguardi. La paura di “Calimero, un pulcino spelacchiato e nero, col guscio d’uovo rotto sulla testa al cospetto -ha scritto Veneziani- dei Grandi Problemi della nostra epoca”. Di fronte ai quali anche a destra si sarebbe tentati di chiedersi “se si può passare dai draghi fiammeggianti alle piccole mamme militanti della fiamma”, o “se si può davvero credere che lei, così piccola e fragile, sia pronta a governare, come dicono i manifesti”. 

L’editoriale della Stampa
Marcello Veneziani sulla Verità

I problemi, già grandi di loro, vengono quotidianamente ingigantiti da Salvini con una rappresentazione drammatica, anzi catastrofica degli effetti delle sanzioni adottate anche dall’Italia contro la Russia per la guerra in Ucraina, ma che starebbero facendo danni solo a noi, non a Putin, o più a noi che a Putin. Nel cui “lettone” pertanto il direttore della Stampa Massimo Giannini ha messo “il capitano e il Cavaliere”, cioè lo stesso Salvini e Silvio Berlusconi, per il soccorso che continuerebbero a prestare al pur riconosciuto aggressore e invasore dell’Ucraina contestando  il modo in cui dall’una e dall’altra sponda dell’Atlantico si sta cercando di fronteggiarlo. 

Ma senza sanzioni, che invece Giorgia Meloni condivide  e Putin di certo non apprezza, per quanto si cerchi di rappresentarlo favorito, come altro si può contrastare l’emulo dichiarato di   Pietro il Grande escludendo -come sembra nelle opinioni di Salvini e forse anche di Berlusconi- un più forte e diretto coinvolgimento militare dell’Europa, e più in generale dell’Occidente, nella guerra avviata dal Cremlino? E’ questa forse la domanda che nella corsa a Palazzo Chigi la leader della destra dovrebbe decidersi a rivolgere a Salvini con nettezza, senza  i saltuari abbracci davanti al fotografo o alla telecamera di turno. E senza limitarsi a quello sbrigativo aò! di Altan. 

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